domenica 25 maggio 2008

Mensopoli e il concerto di Pat Metheny

Pare proprio che Tangentopoli non debba finire mai. Questa volta è toccato a noi di Genova essere coinvolti. Fra le tante cose che "Mensopoli" ha complicato c'è anche il concerto genovese del jazzista Pat Metheny del 23 Luglio. Il promoter di Pat Metheny per l'Italia dice che lo spettacolo è in forse per via dello scandalo tangentizio. Mancano i referenti politici, e non si riescono ad avere i permessi necessari. Questo è un chiaro esempio di come tali squallidi fatti tocchino la vita dei cittadini anche nelle loro quotidianità.

venerdì 23 maggio 2008

LEONE GARIANO, EXPERT PROFESSIONEL D'ART - PARIS - GE'NES

IL PITTORE LEONE GARIANO SU MARIAPIA VOLPINI

La pittrice Mariapia Volpini mette in evidenza tutto il suo potere inventivo, reo palese da motivi tracciati con tocchi geniali e sicuri.
Non si limita a formalizzare e descrivere, ma offre nel suo lavoro una visione interiore delle cose e delle persone. L'opera della Volpini può essere sintetizzata in una frase di Gauguin: "Nell'artista ogni cosa è un esempio". E la realtà infatti è l'esempio da cui la pittrice attinge la materia per creare, con uno stile personale, le sue opere, che costituiscono un esempio di estetica contempo-ranea.
Compone con gusto e dipinge con sensibilità, che è nel contempo fermezza. Dimostra una forza che raramente si riscontra in una donna, sia nel Paesaggio, sia nelle Nature Morte, e soprattutto nel ritratto, eseguito con incomparabile senibilità.
I ritratti sono carichi di un'espressività vigorosa, non vi sono incertezze o ripensamenti, sono scevri da fronzoli dogmatico-didattici, unicamente basati su un rapporto "ricerca-natura-uomo", inteso nella più vasta libertà d'epressione, come sgorga la vena creativa del momento.
La pittrice Mariapia Volpini nelle sue tele ci offre morivi di gioia, un incentivo alla meditazione, un atto votivo, un dono generoso. Questo per chi, attraverso la Pittura, può approdare ad un'isola di grande e struggente poesia.
Vi sono artisti che in ogni loro opera rivelano la loro costante direttiva nel concepire la vita. Tra questi, la pittrice Mariapia Volpini, che in ogni suo quadro rivela tutto l'amore per il suo operare chietto, che richiama l'attenzione su tutte le "istanze umane".
La Pittuta di Mariapia Volpini, che di autentica artista trattasi, è musica. E chi non la sente può esimersi, enza nulla perdere, di recarsi ad un concerto.
Da una profonda sensazione deel colore Mariapia Volpini fa derivare il motivo fondamentale della ricerca di una forma in cui sia contenuta, in maniera appropriata, l'espressione cromatica più vicina ai suoi stimoli iniziali. Diverrebbe eccesiva se non fosse per la capacità di coordinare e ridurre gli timoli cromatici attraverso un linguaggio personalissimo. Pare in tal modo che l'artista, così istintiva, ci informi che l'operare è vita, estro, spettacolo.
Artista al di là di ogni dubbio dotata, Mariapia Volpini percorre il suo cammino con coraggio, forte del suo istinto e rinfrancata dai notevoli risultati sinora ottenuti.
Mariapia Volpini possiede l'anima dei pittori più genuini, e segna col pennello e la fantasia la "sinfonia Pittorica" che fa dialogo e comunicazione, guidandola nella lunga sequenza delle sue opere.

LA CATTIVA STRADA - racconto di Marco Aru





A Carlo Giuliani
alla mia Genova
a tutti quelli che c’erano
a tutti quelli che hanno pianto





LA CATTIVA STRADA


"Se mentre cammini in un campo di meloni
ti si slaccia un sandalo, non ti abbassare mai
per riallacciarlo".

proverbio cinese

UNA SERATA MONDANA

I.


- In questa casa non si trova mai niente! – pensò Norman ad alta voce cercando la sua cravatta preferita.
Da circa sei mesi aveva preso in affitto una bella casa nella zona residenziale della città, e per arredarla si era fatto aiutare da Valentina, la sua fidanzata. Era nervoso. Valentina lo aveva lasciato il pomeriggio, dopo un breve litigio. Stavano insieme da poco più di un anno, e forse la differenza d'età aveva giocato un brutto scherzo.
Quell'anno c'era la festa per il centenario della “Pagina Tre Edizioni”. Era l'evento più ambito da giovani scrittori, editori, fotomodelle, donne in cerca di marito opulento col quale sistemarsi, e altre in cerca di amanti dai quali essere sistemate.
Per celebrarlo si era presa in affitto la sala grande dell'Hilton di Genova, perché, dal momento che gli ospiti più importanti e gli scrittori più famosi sotto contratto per la casa editrice abitavano in Italia, si era creduto di spendere meno in viaggi, cosa che puntualmente non avvenne, perché le premeditazioni degli avari sono avare anche nel calcolare gli imprevisti. Per questo stesso motivo Genova, in quei giorni, brulicava di giornalisti e televisioni e radio, tanto che i residenti di questa tranquilla città erano quasi raddoppiati.
Dovevano essere premiati alcuni personaggi del mondo della Letteratura moderna, della Politica e della società. Editori, scrittori, assessori e altre amene autorità. Agli scrittori veniva riconosciu-ta la loro fedeltà alla “Pagina Tre Edizioni” e alle autorità la loro acquiescenza.
Norman Bates era uno dei tre scrittori che dovevano essere premiati, ma, più che per la sua fe-deltà alla casa editrice, veniva onorato per le sue “opere”, le più vendute del mondo. Il suo ultimo libro, “Cinque passi nel delitto”, uscito sei mesi prima, era in testa a tutte le classifiche del piane-ta.
Ma questa sera Norman era particolarmente teso. Non solo perché non trovava la sua cravatta preferita o perché la sua quindicesima ragazza, Valentina, lo aveva lasciato, ma perché a quella festa era stato invitato anche Bert Foster, suo acerrimo nemico e odiato antagonista.
Norman aveva letto tutti i suoi libri (anche se in pubblico si sarebbe guardato bene dall’am-metterlo), e lo trovava noioso come un talk show, narcisista come una vecchia modella in meno-pausa, ed evanescente come un politico italiano. Di Bert odiava soprattutto il suo “sapersi ven-dere”. Lo considerava commerciale fino alla prostituzione, e spesso, mentendosi, si chiedeva come facesse la gente a comprare i suoi libri.
Da poco tempo aveva conosciuto anche la moglie di Bert, Clara, e l'aveva giudicata come uno dei suoi libri; stupida, ruffiana, ammiccante e scontata. Era una bella donna, ma, a conoscerla, somigliava più ad un poster di una di quelle riviste per soli uomini che ad una persona in carne ed ossa.
Norman aveva sempre diffidato delle belle donne che stanno insieme a uomini brutti ma ricchi e famosi, e Clara, così sembrava, era una di Queste. Pensando a questi uomini, aveva sempre sorriso. Li guardava, e vedeva in loro l'assoluta certezza di ammaliare le donne, cosa a cui lui, benché in teoria potesse essere uno di loro, non credeva affatto, perché sapeva che l’esperienza “nominale” di cui gli adulti avevano goduto in passato con le donne più giovani, nel presente era qualcosa di datato. Oggi qualsiasi diciottenne ne sa quanto (e forse più) un uomo d’età avanzata.
Clara, secondo Norman, era la classica “scalatrice sociale”, e stava con Bert perché da lui e con lui poteva godere di una posizione privilegiata che le dava l'opportunità di atteggiarsi. Per tali ragioni si faceva completamente plagiare da suo marito. O almeno così credeva Norman. La vedeva sempre affannata a rincorrere un non meglio precisato ruolo da “first Lady”, a cercare di parlare come uno dei libri di suo marito, o, peggio ancora, usando le parole degli scritti di qualche critico che la sua casa editrice (per altro la stessa di Norman) sovente pagava per un articolo favorevole a quelle che Norman giudicava “schifezze”.
Nonostante Norman si considerasse scrittore più in gamba di Bert, ultimamente era infastidito dalla nascita di una corrente di pensiero secondo la quale il già citato Foster fosse troppo sotto-valutato.
Norman, anche se in pubblico faceva di tutto per non toccare l'argomento, era profondamente disgustato sia dall'uomo che dall'artista. Spesso amava definirlo “il romantico dei poveri”, o “Liala fatta uomo”.
Ci teneva a ribadire, ma solo in presenza dei suoi amici privati, che i libri di Foster erano Lette-ratura minore. Lo faceva con l'espressione melliflua, da critico bonario e compassionevole, da quello che non vuole dar peso a ciò che ritiene frivolezze, futilità. In realtà la sua intenzione era quella di mostrare un'indifferenza, che nelle intenzioni però voleva essere denigrazione, verso “l'argomento Foster”.
Ciononostante, se venivano invitati insieme ad una trasmissione televisiva, o portati dai gior-nalisti a parlare uno dell'altro, ostentavano una certa non scialanza. La verità era che si odiavano profondamente.
Quest'odio reciproco, tuttavia, veniva fuori in modi diversi. Il loro tener fede al personaggio di artista che si erano personalmente costruiti, doveva necessariamente farli scendere a compro-messo.
Quindi accadeva che Norman, scrittore maledetto che trovava l'ispirazione nei fondi delle bot-tiglie di Bourbon di cui era ghiotto, per forza di cose doveva presentarsi come snob, asociale, burbero e rissoso, mentre il suo nemico Bert, per nulla fuori dagli schemi, istituzionale, democra-tico, ecumenico e tollerante, quando aveva la sfortuna d'incontrare Norman fingeva di non essere toccato dal suo comportamento, e passava sopra a tutto; all'irrispettosità, al turpiloquio a cui Norman, appena lo vedeva avvicinarsi, dava sfogo, agli attacchi diretti, o, viceversa, allo snobi-smo e alla poca considerazione.
Sebbene fossero ugualmente agiati (anzi, forse Norman era più ricco di Bert), la loro portanza era assai diversa, e anche questa condizionata dai personaggi a cui l'immaginario collettivo aveva assegnato una precisa collocazione sociale e una precisa identità. Mentre Norman, scrittore da gialli per colti, e un po' sinistroidi, giovanotti universitari, o da centri sociali occupati e movimenti underground, si sforzava d'indossare sempre i medesimi, e un po' datati, abiti per apparire tra-sandato e anticonformisticamente incurante della forma, Bert, arcade da mammine in costume da bagno e sedie a sdraio, e da liceali speranzose e sognanti il Principe Azzurro, alle feste monda-ne sembrava più un presentatore di spettacoli televisivi del Sabato sera che un accigliato e disimpegnato scrittore di mezza età.
Quella sera, mentre Norman iniziò a prepararsi soltanto una mezzora prima dell'inizio del Galà (e anche già abbastanza alticcio), Bert, con sua moglie Clara sempre attenta agli spacchi delle sue gonne e dei suoi abiti da sera, era pronto da almeno un paio d'ore. Il suo frac era quanto di più elegante esistesse in Europa. Sua moglie, vestita all'ultima moda, pettinata alla Lady D, profu-mata da bordello ante guerra di Algeri e con soltanto un filo di rossetto sulle labbra e di perle at-torno al collo, s’accapigliava al telefono col caporedattore di una rivista di Gossip, “Modella 2000”, perché non voleva che la fotografassero dal lato sinistro, dove, frutto di una nottata di bagordi, un brufolo aveva fatto la sua fastidiosa quanto intempestiva comparsa.
Mentre il clacson della Rolls presa a nolo impazziva sotto la brillante casa di Bert, Norman, con un bel “boccione” di Bourbon in mano, col suo solito frac, vecchio di cinque anni, e per nulla frenetico benché avesse mezzora di ritardo, s'apprestava a salire sul taxi.
Era sicuro, quella sera ne avrebbe visto delle belle.


II.


Alle ventuno in punto la Rolls scaricò Bert e sua moglie Clara da-vanti all'entrata dell'Hilton. Subito fotografi e cameraman si precipi-tarono a ritrarli. Bert, sorridente, strinse mani e salutò. Sua moglie, esageratamente preoccupata di coprire, nella fattispecie con una borsa di coccodrillo, il maledetto brufolo, si fece strada fra la folla di curiosi ed infilò prima possibile l'entrata del-l’albergo. Era la mondanità fatta persona.
Sulla porta editori e figure di secondo piano davano il benvenuto agli ospiti. Gli uomini, rigorosa-mente in frac, e le donne, in abito da sera, sfoggiavano sorrisi di plastica e facce tentando di ven-dere, a Tv e giornali, il loro miglior profilo.
Verso le ventuno e trenta un taxi si fermò davanti all'Hilton. E' chiaro, ormai manca solo lui, Nor-man Bates. Appena sceso dall'auto, con passo dinoccolato come un soldato americano, un gruppo di fotografi gli si fece incontro urlando:
- Signor Bates, signor Bates! Da questa parte! Un bel sorriso!
Norman, barcollante e col frac stropicciato sulla schiena, prima si fermò, e mettendosi in posa sorrise apparentemente socievole, poi partì con un diretto sul naso del fotografo più vicino.
- Forza ragazzi, ce n'è per tutti! - e detto questo si voltò, spaccò la bottiglia ormai vuota di Bourbon sul tettuccio del taxi dietro di lui, e brandendola si gettò su cameraman e fotografi abbattendone cinque. Dopo qualche minuto di rissa cinque energumeni formato famiglia (body guards addetti alla festa) lo tirarono fuori da quel casino. Portato a termine il suddetto canovac-cio, ringraziando con baci e inchini come se avesse già ricevuto il premio, Norman infilò l'entrata dell'albergo.
- Puntuale come ogni volta, eh? - lo rimproverò, guardandolo di traverso, il suo editore. Aveva il ruolo di accogliere gli ospiti "sull'uscio di casa".
- Hai visto? - rispose Norman.
- Cos'hai sulla camicia? - domandò la moglie dell'editore.
- Ah, niente. E' che sul taxi mi sono vomitato addosso.
- Uh! - esclamò la donna.
- Dai Norman, stai attento a come parli, su! - lo riprese Charles Witney, appunto il suo editore.
- Mi scusi signora. La prossima volta dirò “automobile”.
- Non c'è bisogno di fare l'asociale con noi, Norman. - disse il signor Witney - Ricorda che ti cono-sciamo.
- Ah, ah, ah. Sei uno spasso Norman. – intervenne Harry, un correttore di bozze.
- Ci sei anche tu? Credevo invitassero solo chi ha un congruo conto corrente bancario.
- Beh? Finché mia moglie non mi ha chiesto il divorzio ce l'avevo davvero il conto corrente congruo. Poi ho dovuto dilapidare tutto per non farmelo fregare da lei. Femmine!
- Certo Harry, certo. Forse è per questo che non mi sposerò mai. Le donne sono solo bacini, ba-cini, bacioni quando ci vai d'accordo, e soldini, soldini, soldoni quando ne trovano uno più giovane di te.
- Ah, ah, ah. - rise Harry. Poi, dando di gomito a Norman, aggiunse - Guarda un po' chi arriva.
Dal fondo del corridoio, dopo aver depositato gli abiti al guardaroba, Bert e sua moglie Clara si avvicinarono, sorridenti e ruffiani come sempre, al piccolo gruppetto.
- Vecchio mio! Come va? - disse Bert allungando la mano per stringere quella di Norman. Sicu-ramente Charles Witney doveva averlo messo al corrente dei suoi piani, per così dire, “edito-riali”, che consistevano nel non farli litigare davanti a tutti.
- Sai, me lo stavo chiedendo anch'io prima di vederti. Ora lo so con certezza: di merda Bert, va di merda. Tanto più adesso che ti ho incontrato.
- Sempùe volgaùe e scuùile eh? - disse Bert simulando un'erre moscia da checca démodé che per altro non ha mai avuto - Non sai dir altro che parolacce? - aggiunse recuperando la sua erre.
- Cosa vuoi, quando ti vedo l'unica cosa a cui so dar vita è il turpiloquio. Considerando tua moglie e la “ferraglia” che si porta addosso a te non deve andare affatto male, eh Bert?
- Sopravvivo. Certo, se i miei libri fossero primi nelle classifiche di mezzo pianeta me la passerei meglio, ma anche così non c'è male, Norman.
- Se quando scrivi la smettessi di leccare il culo ai tuoi lettori, probabilmente saresti considerato meglio anche dalla critica e saresti in grado di fare qualche soldo in più con simposi e conferenze, con le riviste e addirittura col tuo editore. Ma cosa puoi aspettarti dai cani oltre ai latrati?
- Ho detto al cameriere di tenerci un tavolo “buono”. - disse Bert facendo finta di non aver sen-tito - Vieni.
- Cos'è, ora arrotondi così? - lo stuzzicò Norman.
- Guarda Bert! C'è Francie! - disse Clara entusiasta – Vado a salutarla, ti dispiace? E' tanto che non la vedo.
- Va va. - rispose Bert con la faccia seccata.
- Incredibile! - disse Norman fra sé e sé ma col tono della voce abbastanza alto per essere sentito dal suo rivale - Mi sembra di essere dentro una di quelle pubblicità di liquori. Quando parte la musichetta?
- Dai, siediti. - disse Bert.
- Non c'è nulla di più stupido di queste cazzo di feste.
- E allora perché ci vieni!
- Noia, credo. Sai, Valentina se n'è andata. Non so perché. A volte penso che alle donne regalo po-chi gioielli. Si dice in giro che ci tengano.
- E tu regala più gioielli! Non credo che te ne manchino le possi-bilità.
- E' molto peggio, infatti. Mi manca la mentalità. – rispose Norman con aria triste e rassegnata.
- Mi dispiace per te. Vedi, non è esatto dire che le donne tengano ai gioielli, è che ne hanno un bisogno sfrenato! – scherzò Bert.
- Vedi Bert, la sofferenza e il dolore causati dal bisogno sono direttamente proporzionali e proporzionabili alla nostra ambizione, così che, come si legge nella Bibbia, “chi accresce il desi-derio accresce anche il suo dolore”. Per questo motivo le donne che stanno con uomini che, mal-grado siano opulenti, non le regalano alcun gioiello sono sempre tristi e musone o eternamente alla ricerca di qualcosa di meglio. Il desiderio non appagato è un principio di patologia ossessiva.
- Ci rinfacciano il nostro poco “pragmatismo”. - rise Bert.
- Che poi sarebbero quattrini. - aggiunse Norman - Da questo punto di vista somigliano alle chiese. Loro asseriscono di doversi occupare delle “anime”, cioè di qualcosa che non si può vedere e di cui non è provata l'esistenza. Le donne invece parlano dei sacrifici che fanno per noi elevandoli a valori umanitari: le rinunce che fanno, il loro amore, la loro complicità, le faccende da casalinghe, esser costrette a non lavorare, farsi mantenere da noi, le loro diete e perfino le loro permanenti. Tutto è in nostra funzione. Ma quando vogliono essere ricambiate, quando chiedono più “attenzioni” nei loro confronti, non si riferiscono mai ai nostri sentimenti o alle nostre rinunce, ma a quanto di materiale possiamo darle.
- Senti, - disse Bert ridendo ma affossando la disgressione sul moderno femminismo forse perché troppo “toccato” - per cambiare discorso, ho letto il tuo ultimo e l'ho trovato peggiore di quelli precedenti. Come mai?
- Mah! Non so. - rispose Norman - Comunque grazie per averlo letto. Il tuo ultimo invece è mi-gliore di quelli che l'hanno preceduto.
- Norman, è più di un anno e mezzo che non faccio uscire niente. - disse Bert con tono abbattuto ma chiarificatore.
- Appunto. Considerando i libri che hai scritto non deve essere difficile far meglio. - rispose Nor-man sull'acido andante.
Bert incassò voltandosi dall'altra parte. Poi, ricacciata la rabbia nello stomaco e preso respiro, disse:
- E comunque ho trovato delle spassose genialate. Tipo quella della frullata di testicoli. Gu-stosissima. Dove le prendi certe cose?
- Lascia che passi il cameriere e te lo mostro.
- Già, il cameriere. Che fine avrà fatto? Gli avevo detto di venire subito al nostro tavolo! Scusami un momento, vado a cercarlo. Altrimenti qui non si beve più.
Bert si alzò e andò a caccia del cameriere. Forse ne approfittò anche per vedere dov'era finita sua moglie Clara, ma è troppo orgoglioso per ammettere di essere anche geloso.
La sala è affollatissima, ma Norman riesce ugualmente a scorgere una graziosa cameriera. Se la fissa. Il vestito stretto, nero, lascia immaginare un corpo flessuoso, statuario. Il suo di dietro e i suoi seni sembrano il lavoro di un fine cesellatore. Il suo viso, acerbo, quasi da bambina, è di quelli che provocano erezioni immediate. E' una brunetta. I suoi capelli, col taglio a caschetto, sono lisci e lucidi come una pista da hockey su ghiaccio. La guardò camminare, e gli sembrò che si muovesse senza allungare le gambe, con una grazia da aristocratica.
Per un momento gli tornò in mente Valentina, e subito si disse: “No, via le malinconie! Via!” Quindi guardò la ragazza muoversi. Norman è sempre stato affascinato dal carattere misterioso delle cameriere, dal loro centellinare confidenze, dalla loro camminata......……
- Me lo fa un autografo? - disse da dietro la sua spalla una spigliata cinquantenne in abito da sera scollatissimo.
- Non mi seccare. - rispose lui infastidito.
- Per favore, farei qualsiasi cosa per un suo autografo. - insisté la donna contorcendo la bocca come una monella.
Allora Norman la prese per un braccio e la fece girare come si fanno girare i manichini nei grandi magazzini, per ammirarla, incerto se comprarla o meno. Dopo qualche secondo le dice:
- Il tuo culo non mi piace, se te la cavi con la bocca.………………
La cinquantenne scappò via rossa in viso e stizzita nel corpo. Subito dopo si avvicinò il suo editore.
- Che cosa aveva quella?
- Oh, niente. Hai visto? Come mi hai ordinato faccio.
- Sono contento. Così giornali e Tv non avranno da spettegolare su te e Bert e sulla vostra pre-sunta inimicizia. – disse Witney - Mi raccomando, continua così.
- Ti avverto che se mi rompe le balle gli do un papagno in fronte.
- Dai, dai. Non è così cattivo. - disse l'editore. Poi, andandosene, aggiunse - Ci vediamo dopo Nor-man. Mi raccomando……………….
- “Farebbe qualsiasi cosa per me”...............…….... - si disse Norman ad alta voce riferendosi alla cinquantenne in tono schernitore. - Le donne! Che stronze!
Nel frattempo la brunetta si era avvicinata al suo tavolo. Norman fece un cenno e quella arrivò.
- Desidera signore? Bourbon, Martini..............………
- Bourbon, - rispose Norman - la bottiglia, grazie. Senti piccola, come ti chiami?
- Poco glie ne importa, signore. - rispose la cameriera.
- Sai, da lontano ti facevo più alta.
- Devo considerarla una colpa?
- No, per carità! - disse Norman - Potresti dirmi comunque il tuo nome, non lo sciupo mica, sai?
- - Kate. Mi chiamo Kate. O Katherine. Ho diciassette anni, sono di origine inglese e faccio il classico. Abito a casa mia e frequento i miei amici. Acquario ascendete Pesci. Le basta?
- Tessera Sanitaria numero? - disse Norman scherzando.
La cameriera rise. Poi, dopo aver riempito il bicchiere, alzò la testa scrollando vanitosamente i capelli, e chiese:
- So che lei è Norman Bates. Ci terrei ad avere un suo autografo.
- Certo, però poi mi dai un bacino.
- Sì, magari nelle parti intime. Ho sentito cosa stava dicendo a quella signora.
- Non mi piacciono i seccatori. E poi quando dico no è no.
- Anch'io, signor Bates, quando dico no è no.
- Perché non hai mai provato l'uomo maturo. Uno della mia età sa fare tante belle cosette che possono essere divertenti, sai?
- Questa devo averla sentita almeno un migliaio di volte. E' tutta qua l'inventiva di uno scrittore? E poi, signor Bates, io non ho mai provato neanche l'uomo acerbo, e sono ancora risoluta a non volerlo provare. Almeno fino al matrimonio.
“Cristo! Ma cosa sto facendo?”, si disse Norman. “Ha venticinque anni meno di me, potrebbe essere mia figlia. Avesse avuto qualche anno in più forse.......................”
- Comunque mi sei simpatica lo stesso. - riprese Norman a corto di argomenti - Perché non ti siedi un instante qui con me e mi fai un po' di compagnia? Sono pur sempre lo scrittore più fa-moso del mondo!
- Sto lavorando, non posso. Mi capisca, non sto dicendo che non mi piace, è che sono fidanzata e innamorata del mio ragazzo. Ci vogliamo sposare entro l'anno prossimo, appena sarò maggio-renne.
- Per carità! Non sarò certo io a mandare all'aria il tuo matrimonio! La fase di corteggiamento era finita. Volevo solo che tu mi tenessi un po' di compagnia, tutto qua.
- Mi piacerebbe, ma purtroppo sto lavorando. Sarà per la prossima volta, va bene?
- Certo, ma lasciami la bottiglia! - rispose Norman spostando la mano della ragazza che tentava di portargli via la tanto agognata “boccia”.
Norman guardò la cameriera allontanarsi. L’ancheggiare di quel giovane corpo gli fece ripensare a Valentina, e il rammarico che aveva tentato di soffocare con la partecipazione a quella serata mondana, tornò a riaffiorare.
La festa si trascinava allegramente noiosa e Norman aveva la tentazione di fingere un malore per andarsene a casa, ma il suo editore gli disse che non poteva fargli una cosa del genere. Rasse-gnato allora mormorò:
- Bene, non mi resta da far altro che ubriacarmi.


III.


Quel che più dava fastidio a Norman quella sera, era doversi fingere amico e collega di Bert.
Norman aveva quarantadue anni, e sovente, quando vedeva i giovani, si ricordava di come lo era stato anche lui. Allora gli tornavano alla mente quei primi istanti di vita vissuti spensiera-tamente; la prima “canna”, le fughe davanti alla scuola per “marinare”, i dibattiti alle riunioni e perfino la prima volta che aveva fatto del petting.
Erano in terza media ed avevano tutti e due tredicianni. Chiusi nel bagno della scuola, durante la ricreazione, si baciavano, inesperti, con la lingua. Fu allora che lui maturò la decisione di toccare quella ragazzina sotto i vestiti. Ricordava le sue resistenze, e che aveva quasi dovuto violentarla col dito. Lei, allora, dopo essersi messa a piangere, lo aveva lasciato fare, e, man mano che la masturbazione andava avanti, aveva iniziato a godere. Ciò che più gli è rimasto in mente di quella volta è il viso di quella ragazzina mentre provava piacere.
Quella sera, guardando Katherine, la bella cameriera, rimpianse, forse per la prima volta in vita sua, il fatto di non essere più tanto giovane. Rimpianse i suoi diciotto anni, le mani sudate e i palpiti del cuore quando baciava una ragazza, le varie marce, contro la pena di morte, contro la guerra, contro la vivisezione, ma anche i jeans strappati, la chitarra e gli spinelli, e soprattutto la grande emozione dei primi scritti e l'entusiasmo della prima pubblicazione, le prime critiche, e quel genere di ragazze che non lo avevano mai guardato e che ora gli correvano dietro. Ma quel che rimpiangeva di più era l'ormai perduto stato verginale, sia sessuale che di coscienza.
Spesso si ritrovava a pensare che quando era ragazzotto tutto gli sembrava originale, nuovo, e, proprio perché nuovo, emozionante porta verso un mondo misterioso, sconosciuto. Come se con l'obiettivo di scoprire riuscisse a vivere compiutamente la sua vita, in modo più pieno. Molto di ciò che aveva intorno pareva celare segreti, segreti che oggi si rammaricava d'aver svelato, sco-perto. A volte gli sembrava che quel ragazzo non fosse cresciuto con lui, ma si fosse staccato dal suo corpo per divenire una persona autonoma, che non era cresciuta, che non era cambiata, che non era morta, che viveva da qualche parte una vita propria. Di tanto in tanto gli pareva di ride-starlo, e allora si vedeva lì, con addosso ancora quella voglia di contestare, oggi solo un pallido riflesso di quella perduta vitalità. Era in queste occasioni che si sentiva lontano da lui e così estraneo, e un po’ se ne rammaricava. Capiva che quel ragazzo non c’era più, che quei ricordi erano solo pezzetti di un sogno che la mattina, al suo risveglio, seppur cercandolo fra i risvolti delle lenzuola con la certezza di non essersi mosso dal letto, non aveva più ritrovato. “Forse è questa la vecchiaia”, si disse. “Perdere definitivamente quel sentire fisico che ci fa abbandonare nella quieta attesa della Morte. Bisognerebbe reinventarsi, ma ormai ce ne manca la voglia, la ragio-ne”. Per questo motivo oggi si sentiva volubile, indifeso, perché dopo aver scoperto praticamente tutto, come capita a molti scrittori, si percepiva vecchio prima del tempo, obsoleto, inutile, superato, superato com'è superato il telegrafo.
Aveva cercato il successo, la fama, per avere la sicurezza materiale e mitigare la viltà verso gli altri uomini, però, una volta raggiunta la celebrità, aveva voluto chiudersi nella tranquillità del silenzio per rinfrancarsi dalla confusione dell'umanità. Ma il prezzo del successo consiste nel mettere in gioco la propria privacy, tanto più se si fa lo scrittore e si campa mettendo addosso agli altri la curiosità di vedere da vicino la faccia di chi ha scritto “queste cose”.
“I fans di un artista non dovrebbero mai cercare di conoscerlo”, pensava convinto. “C’è solo un’alternativa a quella conoscenza; la delusione
Le poche volte in cui trovava la forza di essere sincero con sé stesso si chiedeva, oltre a chi fossero i lettori di Bert, anche quale sorta di individui rappresentassero il suo “standard di acquirente”. Chi comprava i suoi libri? Non riusciva minimamente ad immaginare la faccia del prototipo di lettore che entrava in Libreria e chiedeva i suoi scritti. Lui, che fin dal Liceo aveva adorato Marcel Proust, Dostoevskij, Joyce, Cèline, Petrarca, Gadda, Pirandello, Pavese, Palaz-zeschi e tutta quella Letteratura “colta”, si era ridotto a scrivere ingombranti libri gialli che, nel profondo del suo cuore, sapeva di disprezzare sovranamente. Si sentiva quasi un avventizio, uno che non riuscendo a trovare lavoro aveva dovuto ripiegare verso un mestiere che non era il suo.
Talvolta, quando era in forma, gli succedeva di paragonarsi ad uno scrittore che aveva amato in gioventù, John Updike, l'autore di “Corri Coniglio” e di “Coppie”, genere che somigliava molto alle commedie di Woody Allen, e sperava di non fare la sua stessa fine (anche se, come lui, guardava il mondo senza farsi coinvolgere troppo), di non trovarsi già vecchio a sessantanni. “Se tutto ciò che ho vissuto era quello che mi spettava”, si diceva disilluso, “tanto valeva non nascere affatto”.
Dopo esser stato via mezzora, ecco che Bert ritornò al suo tavolo. Lui era quasi astemio, e quindi gli ci volevano appena due bicchierini per mandarlo fuori strada. Già barcollante riconquistò stravolto la sua sedia.
- Cazzo che casino! - disse - Vedo che sei riuscito a rimediare una “boccia”. Come hai fatto?
- Devi essere ubriaco. - notò Norman – Altrimenti non diresti le parolacce.
- Ma sì! Forse fai bene tu che te ne fotti! Uno passa la vita a fare il controllato, a prendersi sul serio, senza rendersi conto che forse si sta perdendo il meglio, e quando arriva a capirlo è sempre abbastanza tardi.
- Sai, stavo pensando proprio l'opposto. Non dico che stavo pensando diversamente da te, ma proprio in senso contrario a quello che hai appena detto. Sembra quasi destino che io e te non si debba andare d'accordo neppure venendosi incontro.
- Perché me lo fai apposta. - disse Bert - Arrivo addirittura ad ammettere che invidio la tua vita, e tu neanche questa volta sei d’accordo! Me lo fai apposta, l'ho capito.
- Senti, sei ubriaco e stai finendo per rompermi le palle.
- No, ascolta.........................
- Guarda, - disse Norman alzandosi - mi hai fatto venir voglia di pisciare. Ci vediamo tra un po'. Vado a cercare un cesso.
Norman si alzò e s'avventurò fra la folla. Sentiva la vescica che scoppiava per tutto quello che aveva bevuto. Lui non è come Bert, lui è abituato a bere. Una bottiglia di Bourbon, se non è accompagnata da una seconda, ha solo la capacità di fargli venire mal di testa. Se non c'erano a disposizione almeno tre bottiglie Norman non iniziava neanche a bere.
Bert, rimasto solo al tavolino, guardava distante sua moglie. Scherzava con un cameriere. Parevano in confidenza. Ricordò che quando si erano conosciuti lei, prima di venire a sapere che era uno scrittore ricco e famoso, lo aveva snobbato. Bert non era il “classico” letterato. Prima di fare lo scrittore e aver successo, si manteneva aiutando suo padre in falegnameria. Quando era circondato soltanto dai suoi intimi amici, persone che lo conoscevano da parecchio tempo, o da individui che lui riteneva di scarso interesse e di poco peso sociale (davanti ai quali era anche lecito sprecare brutte figure), amava raccontare di quella volta che andò a fare un preventivo in un appartamento.
Dovevano rifare le porte, e quando vide che anche le finestre di quella casa erano in cattivo stato, chiese al padrone perché non facesse rifare anche quelle. Questo gli rispose che aveva un amico falegname e che le avrebbe fatte aggiustare da lui gratis e con calma. Bert, allora, gli aveva detto:
- Per quanto sono rovinate queste finestre, per riuscire a metterle a posto il suo amico falegname dovrebbe chiamarsi Gesù.
Questa era la sua battuta. Norman, che l'aveva sentita in tutte le salse, credeva che gli amici di Bert ridessero ogni volta per facile lusinga (perché chi è misero vede nel misero accanto che ha di che cibarsi un individuo da conquistare) o per complice misericordia (arrossire per le vergogne altrui è l'unica solidarietà pratica e sincera), perché quando non era con loro e raccontava questa storiella nessuno si accorgeva che era una cosa detta per far ridere.
Bert si fidava poco di sua moglie Clara. Il fatto che lei l'avesse snobbato fino a quando non seppe che era uno scrittore ricco e famoso, aveva contribuito a far nascere e crescere dentro di lui una serie di dubbi che presto alimentarono la sua diffidenza. Diffidenza che crebbe a dismisura il giorno che la trovò a casa del suo editore senza che lei, preventivamente, gli avesse detto alcun-ché. Ma non aveva avuto il coraggio di protestare o di chiedere spiegazioni.
L'umanità si divide in due categorie ugualmente pavide; quelli che alla paura degli uomini prediligono quella verso Dio o il Diavolo, e quegli altri, meno credenti ma più sciocchi, che offen-dono senza problemi le potenze dei Cieli mentre abbassano il capo davanti a uomini che neppure gli hanno chiesto di farlo.
Bert sopportava Clara. La sopportava benignamente soprattutto perché, essendo una bella donna, gli faceva fare la sua figura quando andavano ad un party o a ritirare qualche premio letterario, nonché, naturalmente, la notte, a letto, quando godeva del suo splendido corpo d'av-venente trentenne.
Il solo fatto di non venire da una famiglia di letterati sembrava bastare a Bert per sentirsi a di-sagio davanti alle vacche sacre dell'editoria e della Letteratura contemporanea, e questo accade-va anche se lui era uno di quegli scrittori che vendevano parecchio.
Anche Bert aveva notato la bellissima Kate, e anche lui, proprio come Norman, l'aveva deside-rata, con l'unica differenza che non aveva avuto il coraggio di fermarla per fare la sua conoscenza, e questo dimostra quanto l'essere vili confini con l'essere timidi. Anche lui aveva fatto conside-razioni sul suo corpo, e anche lui si era sentito troppo adulto per rischiare una brutta figura o sprecare battute e occhiate d'approccio. Talvolta la vergogna ci può impedire d'essere vergogno-samente approfittatori.
Finalmente Norman trovò il bagno libero.
Entrò velocemente e diede sfogo alla sua vescica. Dopo aver finito si lavò le mani, e davanti allo specchio cedette alla tentazione narcisistica di mettere a posto i capelli ribelli.
Mentre era intento a svolgere quest'operazione sentì bussare alla porta. Pensò subito a chi poteva essere quello stronzo che perdeva tempo bussando alla porta di un gabinetto pubblico, e si mosse per andare a vedere. Giunto dinanzi alla maniglia della porta questa si aprì un attimo prima di quanto era nelle intenzioni e nelle sue possibilità, e una testolina fece capolino dall'uscio. Era quella della cinquantenne autografomaniaca.
- Mi scusi se la disturbo qui, nel bagno degli uomini, - disse subito - ma volevo insistere sul-l'autografo. Allora, me lo fa?
Norman, spazientito, l'afferrò per un braccio e la tirò dentro il bagno. Mentre lei lo implorava di lasciarla andare, chiuse la porta col chiavistello. Poi estrasse una penna dal taschino della giacca, e strappò dalle mani della donna la copia del suo libro. Scrisse una dedica con firma e poi disse:
- Ecco a te. Ora però mi fai un piacere.
Afferrò la donna per i capelli e la costrinse ad inginocchiarsi. Dopo una ventina di minuti tornò al tavolo di Bert.
- Cazzo quanto ci hai messo! - disse il suo antagonista appena l'ebbe a portata di voce.
- Ho appena venduto un autografo. - rispose lui.
- Venduto? E quanto hai chiesto?
- Ah, poco. Mi son fatto fare un soffione da una signora.
- Non ti sembra di aver esagerato?
- Bert, i miei libri non sono come i tuoi. – rispose Norman – Qualcosa valgono. E poi gli ho anche fatto una dedica.
- Ah sì? E cosa le hai scritto? - rise Bert.
- “Alla mia amica Giulia. Perspicace oratrice. Norman Bates”.
- Non credo che quella signora lo mostrerà in giro per vantarsene. – disse Bert ridendo.
- Affari suoi.
- Sai, - continuò l'arcade - ho visto una cameriera, una brunetta eccezzionale. Ha un culo e due tettine da sogno, un faccino da bambina e........................
- Per forza! E' una bambina! Si chiama Kate e ha diciassette anni, un fidanzato di cui è inna-moratissima e che vuol sposare, e una famiglia alle spalle. Lascia perdere. Anch'io ci avevo messo gli occhi sopra, ma mi è bastato parlarle due secondi per smontarmi completamente. Sono caro-gna Bert, ma non così carogna.
- Cosa dici, ci provo anch'io?
- Provaci, se vuoi. Ma secondo me è inutile. Non ci esce niente.
- Tu dici così perché hai paura che con me ci stia.........……………..
- Senti, - lo interruppe Norman - mi stai tanto sulle palle che se questo servirà a farti andare via o soltanto a farti cambiare tavolo, mi auguro che quella ci stia. Soltanto, non fare la carogna. Mi ha detto che è vergine.
- Addirittura! Sono anni che non me ne capita una. Da quando sono stato invitato a quella confe-renza in un Liceo, nel Maine.
- Sì, ma non fare la carogna. - ripeté Norman un po' geloso delle presunte possibilità del suo rivale. Poi disse - A che ora inizia questa cazzo di premiazione che ho fame?
- Mah! Hanno detto alle ventidue. Mancano pochi minuti. Dopo aver ritirato il premio io ci provo con la brunetta.
- Sei così ubriaco che se ti riesce di rimorchiare un taxi è già tanto.– rispose Norman - Spero che ti mandi affanculo. Ecco, ecco che preparano il palchetto. Iniziamo la farsa, Bert.


IV.

L'editore, Charles Witney, era seduto sul palchetto accanto a sua moglie, a sua figlia, al Vice Presidente dello sponsor, la Poca Roba, una bevanda a base di eroina, il Vice Sindaco di Genova, il Vice Questore, il Vice Ministro alla Cultura e allo Spettacolo. Davanti a loro il presentatore, Gus Turner, un veterano della ABC, torturava il microfono cercando la posizione adatta per farlo funzionare. Infatti i fili facevano un falso contatto, e la voce andava e veniva. Quando, finalmente, riuscì a farlo funzionare bloccando i fili elettrici con un pezzo di nastro adesivo, iniziò a parlare.
- Buonasera a tutti voi per questa “buona sera”! Per questa bella festa che tanti ricordi ci riporta. Oggi verranno premiati diversi personaggi, fra cui molte autorità e tre scrittori, per la loro assoluta fedeltà alla “Pagina Tre Edizioni” mostrata in tanti anni di collaborazione profonda e di profonda stima. (applausi)
- Dopo chiedo a Gus cos'è la “collaborazione profonda” - disse Norman - Anche lui si è messo a parlare come il Telegiornale delle otto.
- Quando “nonno Witney” fondò questa casa editrice portava ancora i pantaloncini corti e la tenera età di diciotto anni. Pensate, faceva il manovale edile e impiegò tutti i soldi che guada-gnava faticosamente, impastando e camallando, per........……………..
- Falla finita Gus! - urlò una voce fra la folla dei tavoli - Ho fame, sonno e voglio andare a dor-mire!
La sala scoppiò a ridere.
- Ma passiamo alla premiazione. - continuò Gus - Il primo ad essere premiato questa sera sarà il Vice Ministro alla Cultura, l'onorevole Paul Klee. (applausi)
- Grazie, grazie. - disse il Vice Ministro ritirando il premio, un assegno di ventimila dollari (che somigliava da vicino ad una tangente) e una zattera d'oro zecchino con tre negri in avorio che re-mavano.
- Mi raccomando, - disse Gus - le dica al suo “capo” di tenerla aperta anche l'anno prossimo, la sua mente. (applausi) Ma veniamo a noi. Era il 1898 quando il nonno di Charles............…………
- Gus, c'hai rotto i coglioni col nonno di Charles! - gridò un tizio dal fondo della sala!
- Ok, ok. Vince il premio “Sicurezza e Repressione”, per la migliore carica ordinata contro i licenziati del Tiaf, il Vice Questore Steve Martin, pardon, Martin Johnson. (applausi)
- Non c'è problema, non c'è problema. - disse l'uomo impadronendosi del premio, un manganello d'argento coperto da quello che più che una fodera di cuoio sembrava un preservativo - Tutto sotto controllo, state tranquilli..............…
- Prego, prego, si accomodi, riprenda posto, vada, vada........…….....- tentava di convincerlo Gus.
- Volevo dire solo una cosa..……..............- azzardò il vice Questore.
- No, dopo, dopo. Si tolga dai piedi per favore, la gente ha fame, non lo vede? - rispose Gus - Bene, stiamo cavalcando, e visto che del nonno di Charles non ve ne frega niente, - poi, rivolto all'editore dietro di lui - mi spiace Charles, andiamo avanti col programma. Vince il premio "Io non c'entro è un complotto" il vice Sindaco Steve Barney. (applausi) Per aver raggiunto il due-centesimo “Avviso di garanzia” per corruzione. (applausi) Complimenti vivissimi.
- Che scherzo è? Come si permette? - disse il vice Sindaco sgomento - Io non c'entro niente con quelle indagini! Lo giuro sulla testa dei miei figli! E' tutto un complotto contro di me!
- Sì, sì, certo. - disse Gus.
- Io mi sono fatto da solo!
- Si vede, si vede. Se ne vada adesso, su.
- E' tutta colpa dei Giudici comunisti! Da quando sono sceso in campo non hanno fatto altro che......................…….
- Si tolga dai piedi! - urlò Gus.
- No, mi consenta...................………..
- No! Non le consento niente!
- E' un complotto liberticida, antiliberale.........………..
- Dai su, se ne vada.
- Ci vorrebbe una giustizia giusta, una prova provata, una libertà liberata..........................
- Nei ranghi! Nei ranghi! - gridò Gus al vice Sindaco che, abbacchiato, se ne tornò al suo posto.
- Consiglio alle ragazze che stanotte si faranno maneggiare dalle autorità, di farsi mettere nero su bianco le promesse che questi le faranno. (risate) E ora, signore e signori, - continuò Gus - il pre-mio “Solidarietà”. Quest'anno viene assegnato, e non poteva essere altrimenti, allo sponsor qui presente nella persona del vice Presidente Trevor Rabin, alla “Poca Roba”! (applausi) Calma, calma, la motivazione: “Dopo aver intossicato per anni i nostri figli con la bevanda omonima, ha destinato il quattro per mille all'apertura di centri terapeutici per la disintossicazione dalla stessa, nonché per aver indetto e promosso il concorso “Fai solidarietà”, per umanisti all'ultimo stadio e anticonformisti di origine statale”. Un bell'applauso per quel rabbino di Trevor Rabin! (applausi)
- Grazie, grazie. - disse ridendo Trevor Rabin.
- Complimenti a lei e alla Poca Roba - infierì fuori dal microfono Gus Turner - per esservi cacati addosso dallo sforzo. Ed ora, signori e signore, il momento più atteso. Invito a salire sul palco Mr. Norman Bates, Mr. Bert Foster e Mr. Eugen Simon! Un bell'applauso! (applausi)
- Forza Bert, andiamo. - disse Norman al suo rivale dandogli una pacca sulla schiena. Bert, che tentava faticosamente di alzarsi, già in precario equilibrio per i liquidi ingeriti, ruzzolò a terra tra-scinando con sé la sedia, il tavolo con bicchieri, bottiglie e portacenere, e sua moglie Clara.
- Noto con piacere che Mr. Foster è sempre tempestivo e acuto nelle sue riflessioni. - disse Gus Turner trattenendo a stento una risata.
- Nonché rincoglionito nei movimenti. - aggiunse Norman salendo i tre gradini che portavano al palchetto e quindi al pubblico scrutamento.
Eugene Simon li guardò con un certo snobismo. Anche lui è un grande della Letteratura mo-derna. Più che i libri venduti lo dicono per lui le sue automobili, le sue villette, il suo presen-zialismo in Tv e, naturalmente, le sue mogli. Lui però è uno di quegli scrittori che hanno fatto più soldi coi talk show e con le pubblicità piuttosto che col frutto della sua arte. Quando salì sul palco, educatamente, strinse la mano a Gus Turner e a tutte le autorità presenti, mentre Norman, sba-vando sul microfono, si limitò a dire:
- Salve a tutti. La prima cosa che mi sono chiesto entrando qui stasera è stata: “Perché mai tutta questa gente è venuta ad annoiarsi in questo posto?” Poi ho riflettuto e mi sono risposto: “Ma per lo stesso motivo per cui ci sei venuto tu, Norman; per scroccare da bere!” (risate e applausi) No, in realtà c'è anche un altro motivo: non mi andava di vedere la Tv, stasera. E' per questo che sono venuto. Purtroppo ho notato che c'è la stessa gente che va ai talk show.....…..(risate)
- Bene, - disse Gus - appena Mr. Foster avrà finito di rovesciare tavolini e signore e si degnerà di raggiungerci sul palco, faremo dire qualcosa anche a lui.
- Dovremmo dare qualche spicciolo ai critici presenti - intervenne Norman - e spronarli a dargli una mano, perché si sa, Bert è molto simile ai suoi libri, senza critici corrotti non sta in piedi.
Il pubblico rideva e applaudiva forsennatamente.
- Norman, quale consiglio daresti ad un giovane scrittore? - chiese Gus Turner con fare rituale.
- Di cambiare mestiere. (risate) Fare il maniaco sessuale è più eccitante, e quando ti arrestano l'avvocato te lo passa lo Stato. No, scherzo. Per prima cosa gli direi di non andare in Tv. (risate) Gli scrittori che vanno in Tv finiscono per essere confusi con gli attori delle pubblicità dei fustini di detersivo. (risate) No, rischerzo. La cosa che un giovane scrittore non deve assolutamente fare quando spedisce un suo lavoro ad un premio letterario, è firmarsi col proprio nome. (risate) Usate il nome di qualche editore, vedrete che i critici vi confonderanno con qualche loro nipote o figlio illegittimo, e saranno benevoli. Naturalmente se non hanno già promesso la vittoria a qual-che loro amico. (risate) In realtà quella dei Premi Letterari è la strada più seguita dai latitanti per restare nell’anonimato (risate).
- Non ti piacciono i Premi Letterari? – chiese Gus Turner.
- Non mi piacciono gli ingombri. – rispose Norman – Due giorni fa sono andato al supermercato a fare la spesa, e quando mi sono avvicinato alla Cassa per pagare, mi hanno detto che c’era il venti per cento di sconto per chi s’iscriveva a un Premio Letterario (risate). Se invece avete l'inten-zione di mandare i vostri libri a qualche casa editrice, non metteteci il cuore sopra. Gli editori pubblicano solo i libri di chi ha già un nome o quelli dei figli dei loro amici. Quando, aprendo una nuova uscita, ci troverete dentro spezzoni del vostro libro, allora capirete che il mondo non è granché.
- Ma facciamo dire qualcosa anche a Mr. Simon. - disse Gus
- Con vero piacere! - rispose Mr. Simon – Questa situazione è molto simile allo svolgimento di una festa che ho narrato nel mio ultimo libro. Il mio ultimo libro parla di come....…………………
- Piantala Eugene. - intervenne Norman annoiato - Lo sanno tutti di cosa parla il tuo ultimo libro. Delle stesse puttanate di cui parlavano i dieci precedenti. (risate e applausi)
Bert, che non aveva mai bevuto tanto in vita sua, guadagnò a carponi i tre gradini che conduce-vano al palco, e vi arrivò sopra come un cagnolino che sotto una tavola cerca, annusando, i resti di un pranzo. Gus si voltò e lo vide.
- Ma ecco che arriva il nostro fantastico Bert Foster! (risate)
Gus lo aiutò ad alzarsi e gli mise in mano il microfono. Bert, con gli occhi semichiusi, ciondolante e biascicante, iniziò a parlare confusamente e senza un nesso preciso.
- Ringrazio la Giuria per questo Premio............
- Guarda che non sei ad un processo. - disse Norman - E non hai convinto nessuna Giuria. Que-sto premio te lo danno per lo stesso motivo per cui ti hanno pubblicato il primo libro; pietà, Bert, pietà e pena.
La platea è in visibilio.
- Già. - disse Bert - Per quale ragione veniamo premiati? (risate)
- Il motivo non è la sola cosa che manca. - disse Norman - Infatti siamo in un albergo di Genova e non ho ancora visto un genovese. Ma forse avranno saputo che c'eri tu, Bert, e sono emigrati al-l'estero. (risate)
- Ve lo dico io perché venite premiati. – intervenne Gus aprendo il foglio con la motivazione - Per la vostra fedeltà alla “Pagina Tre Edizioni”, e per il vostro ultimo libro; "Cinque passi nel delitto" per Norman Bates, "Quando viene giorno" per Eugene Simon, e "Un amore di Swall" per Bert Foster. (applausi)
- Quest'ultimo mi sembra di averlo già sentito. - disse Norman.
- Il premio fedeltà - continuò Gus - consiste in questo: - e sollevò un telo da sopra il tavolo – “Il gelato d'Oro”! (applausi)
- Meraviglioso! - deglutì Mr. Simon.
- Stupendo! - biascicò Bert.
- Bert, non trovi abbia una certa attinenza coi tuoi libri? - disse Norman - Emozionanti come guardare un frizer che si sbrina. (risate)
- Volete dire qualcosa? - chiese Gus ai tre.
- Che dire se non una sola parola? Grazie! Grazie di cuore! - si commosse Eugene Simon.
- Certo! - disse Bert - Ringrazio la Giuria per questo premio!
- Rieccolo con la Giuria! - sbottò Norman – Volevo dire solo una cosa: quando si mangia? (risate)
- Non ti preoccupare Norman, stanno imbandendo di là. - sorrise Gus tranquillizzando lo “scrit-tore maledetto”.
- Era ora! - commentò Bates soddisfatto.
Allontanati dal microfono, i premiati scambiarono qualche parola di circostanza.
- Grande Norman. - disse Charles Witney - Hai dato un egregio spet-tacolo. Sei sempre una sicu-rezza.
- La solita recita Charles, - rispose Norman con voce annoiata - non devi ringraziarmi. Per me questo ormai è un canovaccio.
Premiati gli ospiti tutti lasciano la sala grande per spostarsi in quella attigua, dove una lunga tavola imbiancata li aspetta. Il palco viene immediatamente occupato dall'orchestra, e la festa si ristabilisce su precisi binari. I giornalisti si danno da fare per portare a casa quel servizio che an-che per questo mese gli giustificherà lo stipendio. Dopo lo show dato il più ricercato è, ovvia-mente, il grande Norman Bates.
- Signor Bates, signor Bates, una parola per il “Cultural Express”, la prego. - disse un giovane cronista con occhi imploranti e faccia supplichevole.
- Quanto mi date? - rispose Norman chiedendo.
- Come scusi? - domandò il cronista facendo lo gnorri.
- Hai capito benissimo! Già mi state sulle palle, voialtri giornalisti, figurarsi se vi do qualcosa gratis! Voi le mie parole le vendete alla gente, giusto? E io le vendo a voi! – concluse sillogistica-mente Norman.
- E il “diritto di cronaca”? La libertà di stampa? – chiese il giovane cronista - Dove le mette?
- E cronachizza! Cosa vuoi da me? Odio la vostra idea di libertà, figurati quella di “libertà di stampa”!
- Ma solo due parole! - insisté il ragazzo.
- Senti, devo andare a mangiare, una delle due ragioni per cui sono venuto qua oggi. Quindi non mi rompere le palle e gira al largo, altrimenti ti prendo a pugni. Okay?
Il giovane cronista lo guardò allontanarsi con un sorriso malinconicamente ironico stampato sulla faccia. Il più grande difetto della Letteratura moderna è la convinzione dei letterati di essere unici, una sorta di “mosche bianche”.
Come uno sciame di cavallette si buttano su un campo di grano, così gli invitati presero d'assalto la tavola per occupare i posti. I tre scrittori vengono sistemati dall'organizzazione in fondo alla tavola, uno accanto all'altro. Gus Turner, il capo tavola, doveva funzionare da arbitro. Eugene Simon e Norman si misero vicini, e, dirimpetto, ascoltavano Bert e sua moglie Clara litigare a bassa voce e con modi raffinati.
- Bella festa, eh? - disse Bert per dissimulare i problemi con sua moglie e portare l'attenzione dei convitati in direzioni per lui meno compromettenti.
- Scusa, - disse Norman afferrando un cameriere per la manica della giacca mentre questo passava veloce nel suo ruolo di vivandiere – quando arrivano le portate? Così qualcuno avrà la bocca piena ed eviterà di dire altre cazzate.
- Fra cinque minuti sono qua, signor Bates. - rispose questi.
Mr. Simon e Gus Turner si guardarono sorridendo. Forse si erano accorti che Charles Witney li aveva messi a quel tavolo per tenere d’occhio eventuali degenerazioni discorsive dei due anta-gonisti, ma loro non avevano intenzione di mettersi fra due litiganti, anzi, speravano in un possibile litigio che rinvigorisse la serata.


V.


Dal salone, soffocata, arrivava la musica dell'orchestra. Bert, che mangiando si era un po' ripreso, continuava a litigare sottovoce con sua moglie Clara. Norman, che anche se è dall'altra parte del tavolo riesce a sentire tutto, a un certo punto disse:
- Sentite, o parlate ancora più piano o ci sentiremo in dovere di partecipare alla vostra di-scussione.
- Perché, cosa ho detto di male? - chiese Bert dissimulando tranquillità e pacatezza.
- Oh, niente. - sorrise Norman assecondato da Gus e Eugene - Quello che abbiamo capito noi da qui faceva più o meno così: “Ti ho vista che facevi una sega al cameriere!”
I tre risero.
- Non ha detto proprio così Norman. - disse Gus – Precisamente ha detto: “Ho visto che stavi facendo una sega a quel cameriere”.
Gli invitati vicino a quella scenetta iniziarono a voltarsi verso di loro. Incoraggiato dall'intrapren-denza di Gus Turner, anche Mister Simon infierì su Bert.
- No, no, no. - Mi spiace ragazzi, ma io ho sentito bene. Ha detto.…..
- E basta! - urlò Bert rosso in viso e per la vergogna e per gli alcolici ingeriti - Fatevi i cazzi vo-stri!
- Uh, che turpiloquio Mr. Foster! - lo canzonò Norman - Si vergogni! Uno scrittore ricercato co-me lei....................
- Guarda, - disse Bert rivolto a sua moglie Clara che era a dieta e invece di mangiare si limava le unghia - mi hai fatto diventare lo zimbello di tutti.
- Non è colpa mia. - rispose la donna con una voce due ottave più alta di quella di un soprano - Lo sai che l'alcol non lo reggi, no? E allora cosa ti metti a bere! Quando stavi parlando, non so se te ne sei accorto, ma praticamente urlavi. Tu ti fai sentire da tutti e poi dai la colpa a me!
- Io mi farò anche sentire da tutti, - rispose Bert che stava iniziando ad arrabbiarsi davvero - ma la sega al cameriere gliela stavi facendo tu! - concluse urlando e suscitando l'ilarità generale.
La cena proseguì più o meno su questa falsa riga. C'erano quattro pietanze per portata, e quando si arrivò alla fine tutti erano davvero satolli. Più della metà dei commensali erano ubriachi. L'unico che, pur avendo bevuto come un cammello nel deserto, non era più che stralunato, natu-ralmente era l'inaffondabile Norman Bates.
Bert durante la cena non aveva bevuto che acqua. Voleva riprendersi, ma non ce la fece comple-tamente. Era nella seconda fase dell'essere ubriachi: incazzato nero e rompeva le palle a tutti. Ma con Norman non aveva possibilità di spuntarla.
- Dimmi la verità Bert, - lo stuzzicò Norman a fine cena, mentre aspettavano il caffè - quel-l'ultimo libro che hai scritto....……..............é uscito un anno e mezzo fa, no?
- Sedici mesi fa, per la precisione. - rispose Bert.
- E allora mi dici perché a me sembra di averlo letto parecchio tempo prima? - sorrise Norman dando di gomito a Gus.
- Cosa intendi?
- Che mi sembra scopiazzato, seppur a grandi linee, da “La strada di Swann” di Proust. Che ne pensi?
Bert, che non immaginava dove voleva arrivare Norman, si difese dicendo:
- Che non l'ho copiato! Che cazzo vuoi dire?
- Voglio dire che è molto simile a quel libro. I viaggi mnemonici e introspettivi del narratore, la donna che s'innamora dell'uomo maturo ma ricco, la cerchia degli amici che spettegola su di loro, tutte le considerazioni che fai, quella specie di “delirio” del protagonista, delirio che somiglia molto a quello di Swann quando s'immagina che Odette gli voglia far affittare il castello solo per farsi bella col salotto Verdurin..…................Perfino il finale è uguale, quando la tua eroina riesce a farsi sposare dal protagonista.
Bert aveva la forte tentazione di saltare al collo di Norman, ma si trattenne. Malgrado fosse ubriaco una cosa l'aveva capita: Norman, che diceva di non aver mai letto un suo libro, certa-mente aveva letto l'ultimo.
- Ah, ma allora l'hai letto! - gli rinfacciò subito.
- Così, - rispose Norman che si rese conto di essersi tradito - giusto una guardata, per farmi un’idea.
- Comunque no, non l'ho copiato da Proust. - rispose Bert - E poi i due libri non mi sembrano così uguali.......………………
- Un'altra cosa. - continuò Norman - Davvero sei in grado di sopportare che tua moglie ti faccia le corna?
- Perché mi ha fatto le corna?
- Beh, l'hai detto tu stesso poco fa a tavola. L'hai beccata che faceva una sega al cameriere, no? E come le vuoi chiamare queste se non "corna"?
- Devo dirti la verità. - rispose Bert tentando di salvare il salvabile - A me di Clara non me ne frega più di tanto.
- Davvero? E come mai? - chiese Norman ironicamente.
- Nonostante, tutto sommato, sia una donna stupida, ho capito da tempo di non avere la forza per piegarla completamente alla mia volontà. Il guaio delle donne stupide è che sono convinte di tradirti e di riuscire a nascondertelo. A me basta scoparla quando siamo insieme. Del resto anch'io le faccio le corna.
- Non credevo che il vostro matrimonio fosse così in crisi.
- Un po' è colpa mia. Non dovevo sposare una donna come Clara. Troppo farfalla, troppo leggera, troppo stupida e vanitosa. Potrebbe scoppiare la Terza Guerra Mondiale che lei si preoccu-perebbe sempre e soltanto di avere i capelli in ordine, all'ultima moda, un bel vestito, e che gli uomini si voltino per guardarla quando passa. E' per questo che un po' t'invidio. Pare che tu sia riuscito a metterti tutto questo alle spalle, che i conflitti sessuali riguardino solo gli altri.
- Lascia stare, Bert. Perderesti meglio il tuo tempo se m'invidiassi per i miei libri che per la mia vita privata. Le ragazze stanno con me per un certo periodo, finché non capiscono che prediligo un tipo di rapporto che col “fisico c'entra poco”, che sono un uomo all'antica, che non mi faccio ammaliare dalle loro moine cordiali e ruffiane. Quando scoprono che non possono sfruttarmi materialmente mi lasciano e vanno a cercarsi qualcuno più ricco e meno furbo.
- E tu accontentale! Sii più di manica larga, cazzo! Le possibilità ce le hai, mi sembra.
- E per cosa? Per fare la tua stessa fine? Per scoprire che mia moglie quando non la posso vedere fa le seghe ai camerieri? Per sentirmi sempre preoccupato quando andiamo ad un party o a ritirare un premio? No, grazie. A fare questo tipo di vita non ci tengo.
- Mi stai dando del coglione per caso? - chiese Bert.
- Fai tu. Certo che per mettersi in casa certe donne ci volete o tu o Eugene. - concluse Norman in modo acido e perentorio.
Bert cominciava a friggere. Lui sapeva di aver sbagliato a sposare Clara, ma che qualcuno glielo facesse notare lo irritava più di ogni altra cosa al mondo, e che poi fosse proprio Norman a farlo, lo mandava su tutte le furie. Ad un certo punto non resse più le sue derisioni e sbottò.
- Senti, - urlò - ora mi hai rotto le palle! E' tutta la sera che me le rompi, ora basta! Mi hai fatto fare le figure di merda più grosse della mia vita, e io zitto! Ma quando è troppo è troppo! Non ti reggo più Norman.………………………..
- Stai calmo Bert, - disse blando Norman - le figure di merda te le sei andate a cercare tu quando hai deciso di farti pubblicare il primo libro. Io non c'entro.
- Ma chi ti credi di essere? Marcel Proust? James Joyce? Chi cazzo ti credi di essere? Sei solo un giallista di merda! Ecco quello che sei! Un giallista di merda!
Norman, che credeva più di quanto esso stesso fino a quel momento aveva immaginato all'ono-rabilità dei suoi libri, sentendosi ferito nell'anima si alzò e puntando Bert gli disse:
- Senti, mi hai seccato! Mettiti a sedere altrimenti ti ci metto io a pugni!
- Chi ti credi di essere? Non mi fai paura, io ti................……..
Bert non riuscì a finire la frase perché un pugno di Norman gliela ricacciò in gola. Cadde a terra rovesciando sedie e tavoli e attirando l'attenzione di tutto il locale. Subito camerieri, invitati e body guards si gettarono nella mischia per dividere i due contendenti.
- Ti ammazzo! - urlava Bert trattenuto da due gorilla - Giuro che ti ammazzo!
- Sai come si dice: “Muore giovane chi è caro agli dèi”. – rise Norman trattenuto da quattro buttafuori - E lasciatemi stare che non gli faccio niente! Non voglio rovinare la festa a nessuno, io!
Separati i duellanti la festa continuò. Bert e Norman, guardandosi in cagnesco, furono adagiati ad una distanza di venti metri l'uno dall'altro. Bert, accompagnato ad un tavolo da sua moglie Clara e da alcuni suoi amici, continuò a bere. Naturalmente anche Norman continuò a bere. Bert aveva un labbro spaccato e perdeva un po' di sangue, Norman era, così com'era arrivato, sano come un pesce, integro, senza ferite apparenti. Insieme a lui c'era Eugene Simon, che conti-nuando a parlare tentava di fargli sbollire la rabbia. Passò Gus Turner, il presentatore, e disse:
- Bel destro Norman! Complimenti!
Norman sorrise, diede una pacca a Gus e trangugiò un bicchiere di Bourbon.
- Non si fanno le risse a questo genere di feste, signor Bates.
Norman si voltò e vide che la padrona della voce che veniva dalle sue spalle era Kate, la splen-dida cameriera. Se la squadrò bene, dalla testa ai piedi, e in cuor suo maledisse il tempo in cui era nato, la sua intempestività. Poi sorrise alla bella diciassettenne. Kate ricam-biò e allungandogli una bottiglia di Bourbon disse:
- Questo è per lei, signor Bates, ma mi prometta di non picchiarsi più.
- Prometto, prometto. Non mi piace picchiarmi. Soprattutto perché faccio fatica a colpirmi il muso. - e sorrise. Poi aggiunse - Stai tranquilla, non mi muoverò da questo tavolo.
Sorridendo Kate se ne andò. Eugene Simon disse:
- Che splendida ragazza.
Norman annuì mentre, guardando furtivamente, controllava dove si trovava il suo “nemico” Bert. Era allungato su una sedia accanto ai suoi amici. Non si fidava dell’arcade, che aveva re-putazione d’uomo vendicativo. Dopo qualche istante lo vide alzarsi e andare verso di lui. “Ci risiamo”, si disse. Ma arrivato a pochi passi dal suo tavolo tirò dritto guardando Norman con un sorriso ebete sulla faccia. Bates lo fissò senza dargli troppa importanza, poi buttò giù un altro bic-chiere. Seguì Bert con lo sguardo, fino a quando questi non scomparve nelle sale interne.
Dietro il palco sua moglie si baciava col cameriere.


VI.


- Secondo lei, signor Bates, qual è o qual è stato lo scrittore più sopravvalutato della Letteratura mondiale di tutti i tempi?
Norman aveva accettato un assegno di ventimila dollari per rilasciare un'intervista ad un giorna-le specializzato, il “Cultural Express”, e seduto comodamente al suo tavolo, in mezzo alla sala, dialogava con un giovane cronista.
- Senza alcuna ombra di dubbio - rispose Norman - gli scrittori della beat generation, in generale, e Jack Kerouac in particolare.
- Come mai? - insisté il giornalista.
- Vede, secondo me la Letteratura per interessare e restare in eterno deve affascinare in due modi diversi; indubbiamente col racconto, ma anche col modo di scrivere, con ciò che dagli “es-perti” è definito “stile”. Ora, qualcuno di questi scrittori, come Charles Bukowski o John Fante, avevano qualcosa da raccontare, John Updike, oltre che col racconto sapeva catturarti anche col modo di scrivere, e, anche se completamente privi di quello stile che ha caratterizzato il nove-cento europeo, i loro racconti, qualcuno dei loro racconti, sono capaci di trasmettere delle emo-zioni. Ma per la maggior parte di loro penso si sia sprecato troppo inchiostro.
- Cosa vuol dire?
- Non capisco come alcuni critici riescano a vedere l'ombra lunga di un capolavoro in libri come “On the road” o “Sotterranei” di Kerouac. Molti asseriscono che riescano a trasmettere lo scopo della vita, il suo succo o il suo senso. Io, francamente, li trovo noiosi fino alla morte, e neppure scritti così bene.
- E perché? - insisté il giovane cronista.
- Prendiamo “On the road”. Tutto quel partire, partire, senza arrivare mai da nessuna parte.....…...……...................Il personaggio di quelle pagine vive agognando l'arrivo in una città, e quando finalmente ci entra dopo una mezza giornata vuole già andarsene. Non ci sono trovate, tutto è preso a caso, a intuito, istintivamente. L'esatto contrario di quel che deve essere un'opera letteraria, che prima di tutto deve spronarti a pensare e a farti passare qualche ora in un altro tempo e in una situazione che non è la tua. Il bello, o il brutto, è che il personaggio di quel libro appena uscito da quella città brama entrare in un'altra. Così tutto inizia da capo. Credo che quella sia solo una falsa tentazione applicata al personaggio, ma in realtà è un pretesto, un escamotage usato dallo scrittore come “via di scampo” quando è a corto d'idee. Non c'è stile, non c'è emo-zione. Vedo solo una grande incertezza, ma non della vita in senso metafisico, mistico, spirituale, planetario o trascendentale, ma piuttosto della vita stessa del personaggio pensata in quella maniera dall'autore. Anche nei libri di Proust non succede assolutamente niente, ma non c'è libro al mondo che valga venti pagine di quel “niente” raccontato da Proust. Ci vedo anche un tipo di comportamento femminile, - rise Norman - di quel genere di femminilità moderna che chiamia-mo femminismo. Chissà perché ogni volta che leggo “On the road” mi sale una strana immagine, e finisco per ritrovarmi in Inghilterra, alla fine del diciottesimo secolo, immerso in un corteo di vanitose e isteriche suffragette.
- Si spieghi meglio, signor Bates. - lo esortò il giornalista.
- Vede, Kerouac non fa altro che spostare l'obiettivo del suo viaggio, che per una mistica inter-pretativa dovrebbe essere la vita, sempre in avanti.
- Obiettivo del suo viaggio? Perché quel viaggio ha un obiettivo? – chiese il giovane cronista cu-rioso.
- Diammine! Quello di vedere dove può arrivare. Sia fisicamente che economicamente che oniri-camente e ideologicamente. Questo suo continuare a spostare l'obiettivo, la meta, altro non è che fuggire alle proprie responsabilità continuando, però, a godere della vita alle spalle degli altri, parassitando. In primis della società. Non noto nulla di originale in questo. Lo avevano già fatto i Nefilim prima del Diluvio Universale, più superato di così! - rise Norman fissando il suo interlo-cutore.
- Già. - commentò il giovane cronista.
- Come per la maggior parte delle donne anche per Kerouac è più facile spostare l'obiettivo della sua esistenza e chiedere sempre di più appena raggiunta una meta, anziché fermarsi e decidere di gestire gli obiettivi raggiunti. Così oggi ci ritroviamo ad avere alcuni cumuli di macerie, chia-mate “conquiste”, che non sono state coltivate, esattamente come il personaggio di “On the road” si persuade di aver raggiunto l'obiettivo, la città, e sposta più avanti le sue pretese, il confine, agognando l'arrivo in un'altra città, che appena raggiunta, puntualmente, sarà sostituita con un nuovo obiettivo, un'altra città ancor più lontana. Ma in effetti non ha raggiunto alcun obiettivo, perché “conoscere” significa fermarsi e non partire di continuo.
- E allora? - domandò il giornalista.
- Secondo me ciò che voleva fare Kerouac era trasmettere questo senso di movimento, il viaggio, la scoperta, la conoscenza. Devo dire che in questo ha mancato l'obiettivo. C'è più movimento nel funzionamento di un semaforo che in quel libro. Vogliamo, per esempio, mettere a confronto il movimento, tutto mentale, la capacità di catturare l'attenzione col mistero della disillusione, dell'asocialità, del protagonista de “La nausea” di Sartre o del personaggio di Italo Svevo narrato ne “La coscienza di Zeno”, col personaggio e il libro di Kerouac? Neanche a parlarne dai! Quel che si chiede ad uno scrittore, se proprio non riesce ad affascinare con uno stile proprio dello scrivere, è che almeno abbia qualcosa da raccontare! Mi piace paragonare i libri di quel periodo americano alla cultura dell'immagine intesa come “tele-vedere”. Tutto il movimento, o pseudo tale, che si tenta di comunicare, è un artificio per disorientare il lettore, per mascherare vere pochezze narrative, con la convinzione che raccontando il nulla lo si possa esorcizzare. Un po' come le gazzarre senescenti della Domenica pomeriggio che manda in onda la Tv italiana. Spero per Kerouac che la sua vita sia stata più emozionante, e da lui più vissuta, che in quel libro.
- E lo scrittore più sottovalutato? - chiese il giovane cronista.
Ma Norman era lontano, disattento. Da qualche minuto cercava nella folla d'invitati la bella Kate. Non riusciva a vederla, e il suo sguardo, fattosi carico d'ansia, passava in rassegna i volti e i corpi dei presenti senza trovare il suo appagamento visivo. Non riusciva a trovare neppure Bert. All'improvviso il tremore, alimentato dai propositi che Bert gli aveva esternato, lo pervase; e se il vacuo scrittore fosse riuscito a fare colpo sulla meravigliosa cameriera?
- Signor Bates, allora? Qual è lo scrittore più sottovalutato?
- Mi scusi. - disse Norman, e subito dopo si allontanò.
- Signor Bates! Signor Bates! Non può fare così! Si metterà nei guai! - urlò il giornalista tentando di fermarlo.
Ma ormai Norman era partito. Cominciò col frugare nella calca, fra vecchie esaltate e inutili per-sonaggi da pubblicità e antiche commedie americane. Girò per la sala guardando quella miseria mentale, alla ricerca della cameriera perduta.
Aiutanti giovanotti pregavano vanitose figlie di editori per strapparle dalla lingua un sospirato “sì” ad un dinoccolato ballo d'inizio millennio. Inette signore cinquantenni, con tutto il loro carico menopausaico di voglie e vizi mai appagati, si muovevano come i giovani, ballando una musica inutile e senza rimedio. L'orchestra, coi suoi componenti ormai quasi totalmente ubriachi, se-guitava ininterrottamente a suonare gli stessi pezzi quasi lisi dal tempo. Mariti ai lati della pista parlano di affari senza tenere d'occhio le proprie mogli, che in uno sguardo giovane e lontano s'illudono di piacere ancora. Un vecchietto, tirato su dai musicisti, viene acclamato dalla folla mentre canta “Guarda come dondolo”, ma più che “ballare il twist” sembra affetto dal morbo di Parkinson. Gus Turner, il più ambito dalle moglie degli invitati, disarticolato figuro da Tv del Sabato sera, ogni volta che viene invitato a ballare o a farsi fotografare, si profonde, col suo li-nguaggio anacoluto, in inchinevoli e sincopati complimenti, che spesso, invece di lusingare, fini-scono per mortificare, anonimamente e senza clamori, le donne ai quali sono rivolti, che fingendo di non prendersela porteranno rancori per l'eternità.
E' la Fiera dell'Ignoranza, una Baracconata ostentata ad uso e consumo dei media, ma da ogni parte dell'occidente libero e democratico, moderno o conservatore, progressista o liberale che sia, è la stessa cosa. L'intelligenza, al contrario delle brutte abitudini, non si attacca.
Norman si allontanò dalla ressa mondana. Non avendo trovato ciò che cercava, la bella Kate e l'antipatico Bert, provò a vedere se, per caso o per l'inevitabile, si trovassero in qualche androne, nascosti in una camera o in qualche bagno. Solo l'idea del successo amoroso del suo rivale lo mise in un subbuglio tale da rovinargli la digestione, e già non sapeva se prendersela con la ragazza (pensando “tutte uguali queste donne. Appena trovano un imbecille vestito da manichino subito ci cascano”), o con Bert, che nonostante le sue raccomandazioni si era approfittato di quel fiorelli-no.
Aprì diverse porte senza trovare nulla. Poi, passando accanto al bagno riservato al personale femminile dell'albergo, sentì venir fuori dei lamenti. Senza esitare ma facendo in modo di non essere visto né sentito, aprì cautamente la porta, e subito restò scosso per ciò che vide. Bert, im-pegnato e ansimante, coi calzoni tirati giù fino alla caviglia, si muoveva affannando dietro la splendida Kate. Norman, per un attimo basito, li guardò a bocca aperta. Dopo pochi secondi notò che il viso della povera cameriera era tumefatto e rigato di lacrime. I suoi collant bianchi, facenti parte della divisa in dotazione al personale dell'albergo, erano macchiati di sangue. Norman si voltò per uscire, ma la voce implorante di Kate lo fermò.
- Signor Bates, - singhiozzò - non se ne vada la prego. Mi aiuti.
Solo a questo punto Bert si voltò e s'accorse della presenza di Norman. Ansimando e continuando a muoversi, disse:
- Dopo tocca a te.
Il giallista, disgustato, uscì dal bagno. Subito, ma con estrema calma, cercò un carrello da cucina. Dopo alcuni istanti lo trovò e tornò indietro, dentro il bagno. Bert era in piedi e si stava rial-lacciando la cintura dei pantaloni. Norman guardò Kate che, a terra e con le mutandine tirate giù fino alle ginocchia, piangeva. Fissò Bert, che madido di sudore e sorridente disse:
- La miglior scopata della mia vita. Era stretta come la fessura di una porta. - poi, facendo per andarsene, aggiunse - Forza Norman, tocca a te.
Bates si avvicinò al suo rivale, tirò fuori un coltello di quelli per macellare le bestie, e glielo piantò nello stomaco fino al manico. Bert ebbe solo il tempo di dire:
- Ma cosa sei scemo? - quindi stramazzò al suolo.
Norman lo spinse via con un piede e s'accostò alla ragazza. La tirò su e le bagnò il viso con un po' d'acqua. Poi si tolse la giacca e gliela mise sulle spalle. La poveretta tremava. Facendole passare il braccio intorno al suo collo, se la caricò sulla schiena e la portò fuori dall'albergo. Appena furono sulla strada Norman fece cenno ad un taxi. Questo si avvicinò e i due presero posto dietro.
- All'ospedale più vicino, grazie. - disse al tassista.
Una volta arrivati consegnò la ragazza ad un infermiere del Pronto Soccorso, dopodiché si dile-guò.
Norman trovò insolitamente strano, nonostante quel che era successo, quanto si sentisse leggero, liberato da un peso. Camminò per qualche isolato, poi entrò in un bar poco distante dall'ospedale.
- Desidera? - chiese il barman.
- Bourbon. - rispose Norman.
Questi scappò dietro il bancone lasciandolo solo a divorare le sue ansie. Norman, calmatosi, iniziò a pensare. Aveva ucciso un uomo, un uomo come lui.
- Ecco a lei. - disse il barman appena tornò con la bottiglia.
- Grazie, la lasci pure qua.
Non sapeva cosa fare. Per una decina di minuti pensò a quel che era successo, alle possibili conseguenze, e capì che non c'era altra maniera di uscire da quella situazione.
- Mi scusi. - disse chiamando il barista.
- Sì? Mi dica. - rispose quello.
- Mi faccia una cortesia. Chiami la Polizia e dica che Norman Bates, lo scrittore più famoso del mondo, è qui.

LA CATTIVA STRADA

I.

La coscienza degli uomini è quel cartello fisso che gli ricorda la paura del giudizio e li sprona a comportarsi in modo da rimanere innocenti davanti all'umanità. Quando il piacere per ciò che è male prende il sopravvento su questa naturale paura, il cartello si sporca, e il nostro spirito, non riuscendo più a leggerlo, si getta a capofitto nel baratro del peccato dal quale è impossibile risalire alla vita.
Bisogna dire la verità, la bottiglia di Bourbon non durò molto. Norman era troppo nervoso per farsi ubriacare da una così misera “sorellina”. Qualcosa glielo aveva procurato comunque: un terribile dolore alla vescica. Doveva alzarsi per andare in bagno. Vide il barman tornare dietro il banco.
- Tutto a posto. - disse quello - Fra qualche minuto la Polizia sarà qui.
- Grazie. - rispose Norman - Scusi, potrebbe dirmi dov'è il bagno? Ho la vescica che sta per esplodere.
- Certo. In fondo a destra. - indicò il barman.
Non molto originale. “Del resto il bagno è sempre in fondo a destra”, pensò Norman grattandosi un’orecchia.
Si avviò pensieroso fra i tavoli, e raggiunse una porta color nocciola, sporca da far schifo e con la scritta a pennarello rosso “Vaterclos”. Sorrise e ci entrò. Liberandosi con sollievo notò un pezzo di giornale (certamente non posizionato per arricchire la cultura o l'informazione dei frequentatori di quel prosaico postaccio). Il titolo diceva: “Quindicianni all'accoltellatore di Piazza Garibaldi”. Lo prese e se lo portò alla distanza giusta. Per leggerlo, naturalmente. L'occhiello continuava:

“Carlo Iacopone, meglio noto come “l'accoltellatore di Piazza Garibaldi”, è stato giudicato ieri mattina dal Tribunale di Genova. Il Giudice Marco Rutzittu l'ha riconosciuto colpevole dell'as-sassinio dello spacciatore napoletano Salvatore Esposito, abitante in Via Prè al 203 rosso. Iacopone è stato condannato a quindicianni di reclusione per omicidio volontario con l'aggra-vante del “futile motivo”, ma gli sono state riconosciute tutte le attenuanti. Il condannato è stato trasferito al carcere “Le Vallette" di Torino”.


Chiuse velocemente la patta sgocciolandosi le scarpe di piscio. Cercò la catena per tirare lo sciacquone, ma non ce n'era alcuna. Quindi uscì. Appena fuori dal bagno con la coda dell'occhio notò che un vecchio lo stava fissando dalla penombra del suo tavolino. Anche Norman lo fissò, e questo si mise subito a ridere.
- Che cazzo ridi vecchio. - domandò sgarbato Norman.
- Tu sei il grande Norman Bates, vero? - chiese il vecchio.
- E allora?
- Niente, niente. Dirty Sunshine, piacere. - si presentò il vecchio allungando una mano che Norman evitò accuratamente di stringere - Mi chiedevo cosa ci fai ancora qui. - continuò il vec-chio - Se ti acchiappano ventanni non te li leva nessuno.
- Ma co............…….......come fai a saperlo? - chiese Norman stupito e anche un po' impaurito.
- Guarda che lo sanno tutti. Non capisco cosa ci fai ancora qui.
- Ho chiamato la Polizia. Voglio costituirmi.
- Bravo! - si complimentò il vecchio.
Norman guardò il vecchio sorridere e si grattò una barba inesistente. Solo qualche decina di secondi dopo capì che quel “bravo” significava “coglione”. Lo capì ascoltando il seguito del di-scorso.
- Finalmente qualcuno che ha il coraggio di assumersi le proprie responsabilità. Certo, dovrai sopportare quindici, ventanni di chiuso, mangiando merda, con galeotti che insidiano le tue virtù e guardie che pretendono rispetto perfino quando ti danno dei calci in bocca, ma nessuno avrà l'opportunità di dire che sei un irresponsabile.
Norman ci pensò. Le malazioni che infliggiamo agli altri sono simili a quelle opinioni cruciali e insindacabili sfoderate da persone poco coerenti; spesso tornano indietro con tanta forza da fe-rirci mortalmente.
Era in piedi, e fissava in silenzio il pavimento sporco del Bar. Poi si sedette accanto al vecchio. Tirò su la testa per guardarlo meglio. Aveva la faccia enorme. La sua barba era crespa e incolta, il suo viso talmente butterato che per un istante gli fece tornare in mente certe immagini viste alla Tv del terremoto avvenuto in Messico nell'86. Poi fissò i suoi occhi vitrei, anche se profondi, fortemente gialli e solcati da venuzze che spiccavano come saette nel cielo durante un temporale estivo. Era consunto nei vestiti e aveva le mani sporche e le unghia nere. Ma nonostante l'aspetto trasandato il suo vocabolario era forbito e la sua grammatica corretta.
- Cosa mi suggerisci? - chiese Norman.
- Io? E cosa può mai suggerirti un povero diavolo come me? – rispose il vecchio voltando la testa altrove.
- Non so...........................avevi l'aria di volermi dare un consiglio.
- No, - disse Dirty sorridendo - è che mi domandavo come può un uomo come te, sicuramente abituato alla mondanità e agli agi, accettare il carcere senza cercare un'alternativa, dei rimedi.
- Perché, cosa posso fare?
- Se è per cose da fare che vai ce ne sarebbero un sacco e una sporta. Per uno con le tue possi-bilità poi...............
- Quali sono “le mie possibilità”? - chiese Norman che aveva visto in quella conversazione infor-male uno spiraglio di salvezza.
- Come “quali sono”?! Sei uno degli scrittori più famosi del mondo, non vorrai dirmi di essere mi-scio! - disse Dirty.
- "Miscio"? Che è?
- Sì, insomma, senza soldi!
- Ah. E cosa dovrei farci coi soldi?
- Vedo che sei scarsamente prosaico. Dovresti fare un po' di vita da barbone. Coi soldi ci si com-pra tutto ormai. Si compra l'amore, la stima, gli amici, la libertà, la coscienza, perfino un'altra identità.
- Come diceva Epicuro: “Non si può vivere felici senza saggezza, onestà e giustizia”. - rispose Norman.
- Guarda che non siamo in un talk show, questa è vita vera. Se uno queste cose non ce le ha do-vrà pur recuperarle in qualche modo, no? - concluse il vecchio barbone.
- Cosa intendi dire?
- Conosco un Chirurgo, abbiamo fatto il dottorato insieme............….
- Uno come te conosce un Chirurgo? - disse Norman mostrando ostentatamente una smorfia d'incredulità.
- Guarda che non sono nato barbone. Mi sono laureato. Ero il Primario di un intero reparto ospe-daliero, finché un infermiere pazzo ha fatto una strage inoculando il virus dell'epatite virali a mezza corsia. Così mi sono ritrovato prima in galera, e poi senza un soldo in tasca e sputtanato a livello planetario. Ora, io so fare soltanto il Medico, il Dottore, non sono capace di far altro. Ma con la mia storia nessuno vuole più darmi da lavorare. E' così che mi sono ridotto in queste con-dizioni, ma una volta ero una persona diversa.....……………
- Va bene, va bene. - disse Norman impazientemente - Mi dicevi di un Chirurgo.......................
- Certo. Si chiama August Fellony. Ha aperto una clinica estetica nei pressi di Bologna. Fa il Chirurgo plastico. Lui saprebbe conciarti in maniera tale che non ti riconoscerebbe più nemmeno tua madre.
- E' morta. Tanto tempo fa. E poi odio gli ospedali. Non mi piacciono le operazioni né dover sop-portare il dolore.
- Però c'è un dolore più difficile da sopportare, perché quand’esso è prolungato nel corpo non dura troppo tempo, giacché tutt'al più porta alla morte. Ma un altro tipo di dolore ha la capacità di martoriarti l'anima per l'eternità. Il dolore, che sicuramente potrai sopportare, di un opera-zione plastica, potrà ridarti una nuova esistenza.
- A Bologna........…............E io come ci arrivo a Bologna? Il barman ha già chiamato la Polizia! A momenti saranno qui. Forse sarebbe meglio scegliere la strada più semplice e costituirmi. Sono sempre stato un ponderatore, un tranquillo, non mi va di fare la vita del fuggiasco.
- Ma la strada più semplice da prendere è quella della fuga, non costituirti! E poi, quando avrai una faccia nuova, non dovrai più scappare. Dai, deciditi. Bisogna fare alla svelta, non c'è più un minuto da perdere. Se vuoi salvarti.........……………
- Calma. Non ho soldi con me. Come faccio a pagarmi una plastica? - chiese Norman.
- A questo penseremo dopo. Ora vieni, su.
In quello stesso istante due poliziotti varcarono l'entrata del Bar. Erano due ragazzi sui trenta anni, non molto alti e dall'aria spocchiosa. Chiesero al barman perché gli aveva telefonato, e questi fece cenno con la testa verso Norman. I due, abbandonando il bancone si diressero verso il giallista.
Norman si sentì le gambe dure e il corpo paralizzato. Il vecchio, che si era alzato con lui, diede prova di un insospettabile vigore, e presa una sedia la scagliò contro uno dei due poliziotti. Lo colpì in piena fronte e questo cadde a terra. Il suo collega fece in tempo ad estrarre la pistola, e puntandola contro i due gridò:
- State fermi! Non muovetevi altrimenti sparo!
Ma il vecchio Dirty si era già lanciato sulla porta a fianco a quella del gabinetto tirandosi dietro il nostro caro Norman. Si udirono tre colpi di pistola ma i due erano già in strada. A Norman parve di correre quasi senza toccar terra, come se stesse volando e faticasse a restare coi piedi attaccati all'asfalto. Il cuore prese immediatamente a battere forte, e le mani a tremargli. Si sentiva senza respiro e senza forze.
- Corri rammollito! - urlò il vecchio.
- Cosa mi hai fatto fare? - chiese Norman ansimando e scarpinando velocemente.
- Dai dai che li abbiamo quasi seminati.
Corsero a perdifiato lungo la discesa che costeggiava l'ospedale, e riuscirono a raggiungere il centro cittadino. Una volta arrivati nei vicoli si mischiarono alla folla di cose e persone, e presero a cammi-nare normalmente, placando l'affanno e le forti emozioni generate dalla paura. I negozi stavano riaprendo e la gente riprendeva ossequiosamente il suo tran tran quotidiano. Il vecchio e Norman erano vestiti un po' troppo diversamente per sembrare due comuni amici, ma la gente, troppo indaffarate a recitare bene la parte assegnatagli da tacite convenzioni, non ci badò più di tanto.
- Mi avevano detto che la Polizia italiana non prende mai nessuno. - disse Norman dissimulando il suo affanno.
- Certo che se gli telefoni e gli dici dove sei......................- rispose Dirty - E comunque non ci hanno mica presi.
- Quale sorta di stupidità mi hai fatto fare, vecchio rincoglionito!
- Non ti preoccupare. Non te ne pentirai.
- Io faccio lo scrittore, non sono abituato a scappare dalla Polizia. - disse Norman agitatissimo - Non ho mai fatto niente di imponderato io, anche se mi piace il Bourbon.
- Cosa stai dicendo? - lo rimproverò Dirty sorridendo - Hai dato una coltellata a Bert Foster me-no di due ore fa!
- Quella è stata la prima cazzata, ma questa seconda è anche peggiore.
- Proust, il tuo autore preferito, disse che spesso è improvvisando che riusciamo a cogliere solu-zioni definitive. Talvolta consideriamo inutile dover prendere delle decisioni sui nostri gusti o sulle nostre situazioni, e invece dovremmo fare attenzione, perché la nostra vita è proprio il risultato della totalità delle decisioni che abbiamo preso, delle scelte che abbiamo fatto, e più esse nel presente sono da considerare inutili, frivole e futili, più nel futuro possono rivelarsi preziose e determinanti.
- Tu parli così perché non è te che stanno cercando. – disse Norman - E poi come fai a sapere che Proust è il mio scrittore preferito? Io non te l'ho detto.
- Beh, perché lo citi sempre nei tuoi libri. Se non ti piacesse non lo faresti, dico bene? - rispose Dirty.
- Già, anche questo è vero.
- A proposito, il tuo ultimo “Cinque passi nel delitto” è delizioso. Dove le prendi certe storie? - chiese Dirty sorridendo.
- Lascia perdere. - rispose Norman - Piuttosto troviamo il modo per buttare via questo frac, al-trimenti mi riconoscono subito.
- E' vero. Dobbiamo trovare un posto nel quale tu possa cambiarti. Una pensione andrebbe bene.
- Tornando al discorso della plastica, una domanda; come faccio a pagare il tuo Chirurgo se non ho soldi con me?
- Ma a casa ne avrai, spero!
- A casa! A quest'ora sarà meno accessibile del Santo dei Santi! Come faccio a tornarci? Sarà pieno di Polizia che sta aspettando solo me per arrestarmi.
- Se mi dai la chiave del tuo appartamento e mi dici dove tieni il malloppo posso andarci io. - disse Dirty.
- Dì, mi stai prendendo per il culo? - chiese Norman serio - Tu stai fantasticando! Ti conosco da neanche due ore, non posso.………….
- Non ti fidi di me?
- Se non mi fido di te? Non ti metterei in mano neanche la mia merda sporca di merda.
- Guarda che non hai scelta. - disse il vecchio bloccandosi di colpo - Io sono la tua salvezza, la tua verità e la tua vita. Non puoi andare dal Professor Fellony se non per mezzo di me. Io ti trasformerò in un altro uomo, ridandoti una parvenza di esistenza. Disgiunto da me sei un acarpo, non porti alcun frutto, non hai possibilità, sei perduto…...
- Quanto vuoi? - chiese secco Norman.
- Per questo c'è tempo. Discuteremo del mio compenso più avanti, con calma. Tante volte la sod-disfazione, come dire, sì, “professionale”, vale più di qualsiasi cifra. - rise Dirty.
- Non fare l'umanitario sulla mia pelle. - disse Norman - Se c'è una cosa che non ho mai soppor-tato sono i filantropi.
- No, Norman, non hai capito, quale filantropo. Tu mi darai molto di più di quello che credi di po-termi pagare. Su, ecco una pensione. Entra e prendi una camera. Lasciami dei soldi, vado a pren-derti qualche vestito e qualcosa da mangiare. Ah, la chiave dell'appartamento, su.
Norman guardò il vecchio titubante. La sua bocca sembrava un culo. “Masticabrodo”, si disse Norman. Poi tirò fuori un mazzo di chiavi, le fece girare un paio di volte nelle sue mani, le fece saltare come per pesarle, e infine decise di mollarle sul palmo aperto del vecchio Dirty. Lui le prese e fece per mettersele in tasca, ma Norman lo fermò.
- Aspetta. Sono dell'appartamento che ho preso in affitto. Non ho bisogno di vivande, prenderò qualcosa più tardi, se avrò fame. Dunque, quella con la testa rossa è la chiave della porta di casa, quella con la testa blu della cassaforte. In camera da letto, dietro al comodino grande. Poi vai nella sala da pranzo. Sotto Il Servo Muto c'è una busta attaccata col nastro adesivo. Portami anche quella. Dentro c'è il Passaporto. Dirty, - disse Norman tenendo per il braccio il vecchio e fissandolo negli occhi - non mi fregare. Sarei capace d'inseguirti in capo al mondo.
- E non mi troveresti. - rispose Dirty ridendo - E comunque non ti preoccupare, fidati di me. Hai una cosa che m'interessa troppo. Ci vediamo fra un paio d'ore in pensione.


II.


Norman aveva sempre trovato strane le camere delle pensioni.
Acqua scarsamente corrente, scarafaggi irrispettosi, riscaldamento altalenante, letti molli come panesse, armati tarlati, pavimenti e pareti sporche, insomma, luoghi abiotici dov'è inigienico vivere. La camera che aveva preso non era diversa da come l'aveva sempre immaginata. Come non era diversa la padrona del lurido postaccio. Cinquantenne vedova e vogliosa, sempre in veste da camera, sigaretta in bocca, capelli arruffati e ciabatte. Truccata da maschera cinese, l'Adalgisa dava ampia dimostrazione di disaffezione alle Leggi e ad ogni cautela. Non chiese i documenti e, con fare mafioso, non fece alcuna domanda. Accompagnò Norman, che sicuramente aveva rite-nuto essere un bell'uomo, e gli mostrò l'alloggio. Lui, nella situazione in cui si trovava, la prese subito. La camera, intendo.
Guardò la donna mentre usciva, di spalle. Da giovane doveva esser stata una bella donna. Culo ancora alto nonostante l'età, seni prosperosi e, nonostante l'età, ancora pienotti, caviglie grosse che, nonostante l'età, non presentavano né nervetti né vene varicose in piena evoluzione ontolo-gica, e faccia, proprio per l'età, d'affamata.
Mentre camminava, e poi facendo le scale, Norman aveva notato che le sue piante dei piedi, den-tro le ciabatte piatte e consumate, erano paurosamente gialle, e, cosa assai probabile, dovevano essere dure come il marmo. “Fa scarso uso della pietra pomice, quando si lava”, pensò Norman.
La camera era un locale unico che ospitava, un po' defilato, un bagnetto piccolo piccolo che a ma-lapena riusciva a contenere un piatto doccia, un lavabo e la tazza. Aprì il cassetto di un mobiletto basso. Una fila di cerotti dalla carta sporca e spiegazzata, un rasoio sfilato, due pezzi di sapone antico e un tubetto bucato da cui fuoriuscivano colate laviche di dentifricio. L'Adalgisa entrò chie-dendo “permesso”, e mise sul letto due asciugamani puliti. Norman ringraziò e li portò con sé in bagno.
Si spogliò velocemente e s'infilò sotto la doccia. Fredda. Rimase fermo, con gli occhi chiusi, rilas-sato. Anche il suo cuore si adagiò un momento restando quasi immobile, anche se non rilassa-tissimo. I pensieri gli affollarono la mente e lui non riuscì a cacciarli.
Arrivarono solo cose penose.
La nostra memoria è come un oggetto di desiderio. I ricordi che particolarmente amiamo destare ci sfuggono di continuo, così che i richiami alla nostra memoria si trasformano in una specie di corteggiamento. Quando questa non cede allora immaginiamo, inventiamo, anche improvvisan-do, non importa, ci creiamo dei ricordi che appagano le nostre sensazioni, come la speranza o l'illusione che una donna ci dica di “sì” appaga momentaneamente il nostro cuore d'innamorati.
Ma quel giorno a Norman questo non riusciva. La coscienza è come quello scocciatore logorroico che vuoi evitare, e che appena t'illudi di aver eluso ecco che lui, spuntando da dietro un angolo, ti sorprende agguantandoti e ricominciando la sua torturatrice litania.
Erano le nove del mattino. Uscì dalla doccia, si asciugò e si sdraiò sul letto. Gli parve difficile ri-uscire ad addormentarsi, ma, imprevedibilmente, il sonno gli andò incontro regalandogli un po' di quiete. Subito iniziò a sognare.
Sognò di essere perdutamente innamorato di Katherine, la bella cameriera, che però nel sogno aveva la faccia di Valentina. Sognò che lei, tenendolo per mano, rispondeva di “sì” al prete che le chiedeva se voleva sposarlo. Sognò un lungo e tenero bacio, e non appena decisero di voltarsi e uscire dalla chiesa, s'accorse che a porgergli gli anelli era stato Bert. Nel sogno lo trovò sorri-dente, ma quando abbassò lo sguardo e vide che la camicia del suo rivale era orribilmente mac-chiata di sangue, scappò. Uscito dalla chiesa incontrò Clara, la moglie di Bert, che, completamente sdentata e con brufolo talmente grande da somigliare ad un orribile terzo occhio, gli diceva di non preoccuparsi, perché suo marito si era sporcato di pomodoro mangiando gli spaghetti. Dopodiché gli chiese dov'era andato a finire il cameriere, e Norman rispose che non l'aveva visto per niente quel giorno. Clara, allora, cominciò inspiegabilmente ad urlare chiamando aiuto. Arrivò il poli-ziotto del Bar e sparò tre colpi contro il petto di Norman che morì all'istante. Ma immediata-mente si risvegliò, ancora con la mano nella mano della bella Katherine, e tutti tornavano al punto di partenza.
Norman si destò spaventato, sudato e ansimante. La camera era al buio e fuori dalla finestra, nonostante la pensione fosse nel bel mezzo di una strada trafficata, non si sentiva alcun rumore. Allungò veloce il braccio, e dal comodino a fianco al letto prese il suo Rolex d'oro. Le venti e quin-dici. Aveva dormito quasi dodici ore. Si mise a sedere sul bordo del letto, e i suoi pensieri corsero lesti verso Dirty.
- Quel barbone figlio di puttana mi ha fregato. - si disse ad alta voce, quasi per rimproverarsi la fiducia che aveva avuto.
- Non direi, dal momento che sono qui. - rispose Dirty da un angolo buio della camera.
- Cazzo Dirty! - saltò Norman spaventato - Mi fai prendere un accidente! Perché non mi hai svegliato?
- Stavi dormendo, eri stanco, avevi bisogno di farti un bel sonno prima di affrontare il viaggio fino a Bologna. Così ti ho lasciato dormire. Non vorrai farmene una colpa spero!
Norman si strofinò gli occhi e si passò una mano sui capelli. Si sentiva strano, come se ancora fosse dentro quel sogno. Provava un inconsueto senso di smarrimento, quasi come se avesse cambiato casa e le abitudini nuove non riuscissero ancora a sopraffare le vecchie. Pensò a quanto azzardato fosse stato fidarsi di un barbone conosciuto poche ore prima in un Bar, ma non lo disse.
Fissando il tappeto nel quale aveva posato i piedi nudi, notò uno scarafaggio uscirne da sotto. Era enorme, tutto nero ma con stravaganti pigmentazioni bianche sul dorso, che era lucido e proba-bilmente duro come la corazza di un templare. Lo vide girare intorno al suo alluce, fermarsi a guardarlo e reprimere la tentazione di salirci sopra. Poi si alzò dal letto, ci girò intorno stirandosi, e andò a piantarsi di fronte a Dirty, che lo guardava sorridendo.
- “Masticabrodo”. - disse Norman - Chiudi quel cesso di bocca. E' tanto che non bevo, e non vorrei correre il rischio di vomitare l'ultimo Bourbon. Ho un'incudine sulla testa. Mi ci vorrebbe un'aspirina.
- Non sei gentile col tuo “salvatore”. - disse Dirty mentre estraeva un'aspirina da una scatola.
- Hai preso tutto quello che ti ho detto?
- Certo. La cosa più difficile è stato trovare una borsa tanto grande da contenere tutti i soldi che avevi in cassaforte. Non sapevo che a fare lo scrittore si guadagnasse tanto. Lo sai, signor gialli-sta, che esistono le Banche?
- Il Passaporto l'hai preso?
- Certo, certo. Anche se avrei preferito prendere il tavolo sotto il quale era nascosto. Davvero stupendo. - disse il vecchio.
- Ci credo! E' un “Servo Muto” del settecento! Non ricordarmelo che mi fai tornare la voglia di costituirmi. A proposito, c'era Polizia sotto casa mia?
- Non molta, solo due volanti.
- “Solo due volanti”. - disse Norman scimmiottando Dirty - E come hai fatto ad entrare?
- Per un vecchio diavolo come me due macchine sono troppo poche. - rispose il barbone sorri-dendo.
Norman chiamò in portineria col telefono interno, e chiese all'Adalgisa se poteva portargli una bottiglia di Bourbon. Rispose di sì e domandò se voleva mangiare qualcosa.
- Grazie, ma giusto due cosette. - rispose Norman - Ho lo stomaco in disordine e quindi non mol-ta fame.
Dopodiché riattaccò il ricevitore. Andò spedito in bagno e vomitò. Due volte. Di là Dirty rideva. Si lavò la faccia e tornò dal suo “salvatore”.
- Adesso che si fa? - chiese.
- Prima ti converrà mangiare qualcosa e raderti la barba. Fai schifo. - rispose Dirty.
- Mai quanto te, lurido barbone.
- Poi si parte. Verso Bologna. Ho già telefonato a Fellony. Abbiamo appuntamento per domani mattina.
- E come ci arriviamo a Bologna?
- Dalla città ci usciamo in autostop o a piedi. Appena fuori prendiamo un treno. Tanto dobbiamo scendere alcune fermate prima di Bologna, a Mazzarino, un paese talmente piccolo e sperduto che non ci vorrebbe vivere neanche un latitante. E' nel bel mezzo della pianura Padana, ed è già tanto se c'è una caserma dei Carabinieri.
- Bene. Allora appena l'Adalgisa mi porta da mangiare e da bere la pago, così possiamo partire quando vogliamo. Questa pensione, oltre a far schifo, costa anche cara.
- Direi di partire prima possibile. La Polizia ti sta cercando. Un'altra cosa; sei su tutti i giornali. Hai appagato il sogno di ogni scrittore; essere il più ricercato del mondo. Ti ho portato un paio di baffi finti, ma non ho trovato la colla per attaccarli.
- Cazzo, questo significa che anche la signora, di sotto, sa che sono ricercato! - disse Norman impaurito.
- Mah! Non dovrebbe essere un problema. Ha l'aria di chi per i soldi venderebbe le proprie figlie alla “tratta delle bianche”. A proposito, non è che con la signora tu.........……………
- Dovrei proprio essere “affamato”, Dirty. - rispose Norman disegnando un'espressione disgu-stata - Io non sono come te. Fino a ieri avevo una ragazza di ventiquattro anni, con un culo da sogno e due tette micidiali, che a letto faceva tutto quello che le chiedevo.
- Lo dici con una puntina di rammarico. - notò Dirty.
- Certo. Era la mia donna. O credevo che lo fosse. Ma forse era soltanto un'altra illusione. - con-cluse Norman chinando il capo.
- Su, tirati su. Vedrai che presto ne troverai altre cento come lei. La disillusione amorosa, nei suoi effetti collaterali, è identica a quella politica; tutte e due portano all'astensionismo. Ma mentre per la politica non c'interessa risvegliare la passione, per l'amore si è disposti a rischiare soffe-renze e dolori. La disillusione amorosa è una bomba ad orologeria che attende il consumarsi del tempo per esplodere in tutte le sue pirotecniche e travolgenti evoluzioni di passione.
- Uh, che dotto. - disse Norman facendo un ironico inchino - Sei saccente come un Economista.
- Beh, mica male allora. - rise Dirty.
- Dipende da con chi hai a che fare. Per esempio, secondo me l'Economia è una disciplina genero-sa, che, come l'Egittologia, spartisce equamente, alle diverse ideologie, torti e ragioni, tanto che i talk show tele-economici presentano l'unico vero esempio di “processo evolutivo in corso”; quello del contraddittorio.
- Vuoi che ti tenga una lezione d'Anatomia? - chiese Dirty pulendosi le unghia nere con un tem-perino.
- No grazie, ho appena vomitato. - rispose Norman – Piuttosto, dimmi a che ora abbiamo il treno.
- Guarda che non sono un Capostazione. Per quanto mi piacerebbe.........................
- E allora dove andiamo a prenderlo? Quando?
- Appena avrai finito di mangiare e ti sarai vestito potremmo uscire. Nel frattempo potresti ra-dere la barba. Non c'è nulla di meno convenzionale di una barba mal curata. La Polizia ci ferme-rebbe immediatamente. Ho comprato un po' di schiuma, lamette però non ne avevano.
- Userò il rasoio che c'è dentro il cassetto. - disse Norman.
Andò in bagno e aprì il rubinetto. Non aveva voglia di radersi, ma, così sosteneva il suo salvatore, era necessario. Prese la bomboletta spray e si spruzzò un po' di schiuma nella mano. Quindi la portò al viso e iniziò a spalmarla con cura. Specchiandosi si sentì sé stesso come mai aveva pro-vato. La faccia che aveva scorto da sempre ogni volta che si specchiava non era stata che una caricatura, e quando gli capitava di confutarsi in uno specchio lo faceva con la distanza necessa-ria per desiderare qualcosa di esterno, che so, una donna o una bella casa. Davanti allo specchio della pensione quella distanza era scomparsa, e toccandosi il viso con le mani ebbe per la prima volta in vita sua la certezza di esistere, la percezione di sé stesso.
Il rasoio che aveva trovato nel mobiletto del bagno non era molto proclive ad essere usato. Era “sfilato” come i libri di Bert, non tagliava neanche la carta. Ciononostante decise di operare ugualmente.
- Mi dici perché non sei scappato coi soldi? - chiese al vecchio barbone alzando la voce per farsi sentire dal bagno.
- Non è nel mio stile. E poi se puoi fidarti di mettere in mano ad un semi sconosciuto questa fortuna, significa che ne hai dieci volte tanto. O mi sbaglio? - rispose Dirty chiedendo.
- Fai qualcosina in più. - disse Norman con la voce distorta a causa del rasoio intorno alla bocca - Ma non li ho guadagnati per regalarli a te.
- Ti ho già detto che i tuoi soldi non m'interessano.
- E allora cosa vuoi?
- A suo tempo saprai tutto, non ti preoccupare adesso, è troppo presto. - rispose il vecchio bar-bone.
Ci fu un minuto di silenzio nel quale Norman cercò un discorso abbastanza diallagistico per far trascorrere meno noiosamente il tempo e per conoscere meglio il suo salvatore. Abbassò il rasoio sull'acqua per ripulirlo dalla schiuma, e la pozzanghera creata nel lavabo tappato si macchiò subi-to di sangue.
- Davvero hai letto il mio ultimo libro?
- Certo. Anche se sono un “clochard” non è detto che per forza di cose sia anche ignorante.
- Scommetto che dicendo “clochard” invece che barbone sei convinto d'innalzarti ad un rango superiore. Guarda che vuol dire la stessa cosa.
- Come dicevano Casanova e il Marchese De Sade di fronte alla sgualdrina di turno: “La lingua è tutto”. – rispose Dirty sorridendo - A parte gli scherzi. Non ci crederai, ma io so parlare corretta-mente almeno quattro lingue.
- Va bene, lascia perdere. - disse Norman. Quindi aggiunse - E…………ne hai letto altri libri miei?
- Non ti facevo così vanitoso. - rise il vecchio.
- Non credo sia un peccato grave esserlo.
- La Vanità è quella presunzione che rende cieco il povero di mezzi.
- Ma il realismo è il letto oblioso dove dormono i rassegnati.
- No, il realismo è quella disillusione che ci prepara alla spiritualità.
- Il solito pessimista della scuola di Francoforte! - rise Norman.
- Se tutti i pessimisti fossero “filosofi” l'intera umanità abiterebbe a Francoforte. - disse Dirty.
- Non volevo dir questo, ma che la spiritualità è una droga per coloro che non si accontentano mai.
- Sì, e poi? “La religione è l'oppio dei popoli”, “Se Dio non esistesse bisognerebbe inventarlo”, “Rosso di sera bel tempo si spera”...... Sei un luogo comune con le gambe.
- Mia madre era appassionata di proverbi, e certe cose, si sa, te le porti dietro. I luoghi comuni non sono altro che retaggi. Anche Proust diceva che l'intera vita è un luogo comune.
- Va bene Norman, mollala lì. - disse il vecchio stanco di “tenzonare” - Comunque sì, li ho letti tutti i tuoi libri.
- Davvero? E secondo te qual è il migliore?
- C'è un non so che di satanica perfidia in “A pranzo da Mrs Hawkins”. Ma vedrai che ne scriverai uno ancora più bello.
- Ah sì? E quando? Dove? In galera?
- No, no, anzi. Forse hai già iniziato a scriverlo e neanche te ne sei accorto. - sorrise Dirty gioche-rellando col temperino.
Norman, a queste parole, bloccò la sua mano. Aveva la faccia coperta di sangue per colpa del rasoio. I piedi nudi sul pavimento rendevano i suoi movimenti silenziosi e lenti come quelli di un serpente. Si fermò sull'uscio della porta del bagno toccandosi la faccia. Dirty lo guardò e si mise a ridere.
- Sembri uno che è stato appena linciato dalla folla.
- Perdo tanto sangue? - chiese Norman tamponandosi la faccia con un pezzo di carta igienica.
- Tranquillo, non morirai dissanguato.
- E' che questo rasoio non taglia niente. - disse Norman. Poi, fissando il suo “salvatore”, aggiunse: - Cosa vuoi dire con “forse lo hai già iniziato a scrivere”?
- Non ci pensare. Svelto, lavati la faccia così possiamo andare.
- No Dirty, dimmelo. E poi devo ancora mangiare, ormai ho ordinato.......................
- Intendo dire la storia di ieri, di stanotte, di adesso. Potresti scriverla, magari truccando i perso-naggi. Che ne pensi?
- Ho altro per la testa che scrivere un libro, Dirty.
- Sarebbe un best seller, ne sono sicuro.
In quell'istante qualcuno bussò alla porta. Norman, dopo essersi lavato la faccia, andò ad aprire. Era la signora Adalgisa con la cena e la bottiglia di Bourbon. Lo scrittore le chiese quanto le doveva dare per la cena e la pigione, e dopo aver pagato la congedò dicendole che avrebbe libera-to la camera.
Dopo aver mangiato si vestì e preparò i bagagli, quel poco che Dirty gli aveva portato da casa sua. Guardò il premio ricevuto, il “Gelato d'Oro”, e lo infilò nella tasca del giaccone. Poi, insieme al-l'amico avventizio, uscì alla chetichella. Si diressero a piedi lungo la statale, la Via Aurelia che por-ta fino fuori Genova. I vestiti che Dirty gli aveva portato erano perfetti, roba vecchia, da “fondo di guardaroba”, quindi i due non sembravano tanto diversi l'uno dall'altro, cosa che avrebbe senza ombra di dubbio alcuna destato sospetti in chi li avesse incontrati.
Camminando fianco a fianco proprio come due consorti, arrivarono a Nervi. Erano le ventitré e trenta. Il Parco era già chiuso, e per la strada, nonostante fosse un litorale solitamente abbastan-za frequentato, c’era poca gente. Un auto della Polizia gli passò accanto, e a Norman il cuore prese a battere forte. Ma la pattuglia tirò dritta senza neanche guardarli. Entrarono in stazione e attesero un treno utile. Ce n'era uno per Roma. Lo presero. Avrebbero dovuto “cambiare” a Pisa e passare da Firenze. Inevitabilmente avrebbero allungato la strada, ma, così fuori mano, sareb-bero stati notati di meno.


III.


A Pisa aspettarono la coincidenza. Dopo una mezzora arrivò il treno per Firenze e Bologna. Norman si era messo i baffi che gli aveva recuperato Dirty, ma siccome non aveva colla li attaccò con lo sputo, e questi cascavano continuamente.
Non fu difficile trovare posto sul treno, era mezzo vuoto. Norman si era rilassato. S'adagiarono in uno scompartimento occupandolo per esteso. La dormita aveva rinvigorito il nostro giallista, restituendogli un po' di dinamismo e rendendolo incosciente quanto basta per non pensare a quel che aveva fatto. Alla stazione di Pisa aveva acquistato anche una stecca di sigarette, e da allora cominciò a fumare come la ciminiera di un inceneritore, e a bere come un tombino genovese ad Ottobre.
- Non potresti smetterla un momento? - chiese Dirty.
- Di fumare, intendi? Mi aiuta a pensare. - rispose Norman.
- Giusto. Pensare è necessario almeno quanto scopare. - rise Dirty con viso placido e occhi dolci.
- E' per questa ragione che nel mondo c'è il problema della sovrappopolazione. La gente pensa troppo, troppo e male.
- I ricordi aiutano metà della popolazione mondiale a sopravvivere - rispose il vecchio.
- Per tale motivo gli allenamenti mnemonici sono spesso considerati masturbazione mentale. - aggiunse Norman ridendo.
- Un esperto precursore fu Marcel Proust, che nel suo ricercare il tempo perduto vide bene d'iso-larsi completamente, vivendo di notte e dormendo di giorno, chiudendosi in casa e foderando le pareti di sughero per insonorizzarle dai rumori esterni, e vedendo pochissime persone, solo quel-le che gli servivano per la sua opera. Passò anni in queste condizioni.
- Ma il risultato, secondo me, fu la più grande opera letteraria che sia mai stata scritta. - disse Norman.
- Anche nella masturbazione si raggiungono orgasmi che è difficile raggiungere col coito di coppia. In entrambi i casi si deve rinunciare a molto, e il risultato è spesso sproporzionato alla causa.
- Ma è il mondo a pensarla in questo modo! Chi non sa cosa sia la Letteratura per uno che scrive! In verità per uno scrittore la vita è scrivere, e anche se quello che ha fatto Proust può apparire un po' sproporzionato e contraddittorio, il fine è sempre l'orgasmo.
- Questa è Filosofia, Norman. - rise Dirty.
- Cosa non lo è nell'elucubrabile astratto? - rispose Norman assecondando il sorriso del vecchio barbone.
- La vita vera, il “vivere”, è fare. La Filosofia è un brodo dentro il quale si cuociono i fannulloni.
- E' l'esatto contrario! I fannulloni sono coloro che non hanno voglia di lavorare, mentre i filosofi non fanno altro durante la vita, dato che il loro mestiere è quello dei “pensatori”. Certo, - rise Norman – capisco che è difficile accettare il fatto che qualcuno campi egregiamente senza spor-carsi le mani, ma dire che questi è un fannullone è demagogia!
- Sai, “demagogia” è un termine che i politici si sono brevettato per non dover rispondere ai cit-tadini della loro inoperosità e dei loro privilegi. - rise Dirty.
- Dio mio! Non mi dirai d'essere comunista!
- Cosa c'entra? Al giorno d'oggi si usa il comunismo quasi come una “legittima difesa”, come pre-testo per insinuare nella testa della gente che basti non esserlo per diventare nobili. Sembra qua-si una buona ragione per cui Dio dovrebbe alleggerire ai peccatori il contrappasso. Lo sono stato, certo, fino al '68, poi hanno fatto più danni che le cavallette......................Perché, non mi dirai di essere un fa…………....
- Oggi si dice “moderato”. - interruppe Norman.
- E cos'è? Invece che tirare bombe tirate mortaretti? Sono tutte balle. La moderazione non è cosa che riguarda le idee ma il tono della voce. Chi vomita sbraitando parole di libertà spesso è più nazista di Hitler.
- Anche se la schiavitù è col tono sommesso che si guadagna. Essere ragionevoli non paga, e in questo mondo è quasi sinonimo di arrendevolezza. E comunque io non sono neanche di destra. La politica è per i giovani, e, più in generale, per tutti quelli che nella vita hanno preso pochi schiaffi. Quello che più mi spaventa oggi è il concetto di “progresso”.
- Sei affascinato dal “Popolo di Seattle”, eh? - chiese Dirty ridendo.
- Credo che sia giusto combattere contro chi ci vuole tutti uguali. L’umanità non capisce che la sola salvezza per il nostro pianeta è l’eterogenesi delle razze, dei gusti e, perché no?, perfino dei vizi. Se fosse per gli americani tutto il mondo sarebbe identico a loro: un sedicenne enorme, brufoloso e anabolizzato, con un hot dog che gli tappa la bocca, cumuli di patatine fritte infilate nel naso e nelle orecchie, che fa il bagno nel burro di arachidi e nella salsa piccante, e convinto che tutto si possa risolvere a pistolettate. Come ci può difendere dai “mali” del mondo un tipo del genere?
- Beh, ci sono anche i colti e i ragionevoli. - disse Dirty.
- Davvero? E chi sono?
- Beh, Jack Kerouac era uno di questi.
- Per carità! Personalmente preferisco scaricare un camion di mattoni, piuttosto che avere a che fare con una mentalità del genere. E poi, il Progresso! Cos'è? Andare avanti e basta! Come so-gliole che non hanno percezione né del passato né del futuro. Riesco a digerire quel formulacro nozionistico soltanto in campo medico, e neanche completamente.
- Cos'hai contro il progresso?
- E' incredibile vedere l'umanità persuadersi che nell'ultimo secolo si sia andati sempre e solo avanti, e che questo progresso abbia sempre e solo meriti. Eppure i danni sono sotto gli occhi di tutti! Il buco nell'ozono, l'inquinamento.......……….……..Se pensi che a soli quaranta o cinquantanni dall'espansionismo automobilistico in certi paesi sono costretti a fermare una tantum le auto-mobili! Figurati cosa dovranno fare i nostri figli! E i governi ci girano intorno, non fanno nulla! Guarda l’ex Ministro italiano della Sanità. E' un Oncologo. Prima di diventare Ministro ha ac-chiappato decine e decine di miliardi per la sua Fondazione dal Presidente della più grossa fabbrica di automobili del paese, ed è normale che una volta diventato Ministro della Sanità dica che i tumori vengono per colpa delle sigarette. Ma ciò che mi spaventa maggiormente, è che se si scopre che anche il telefono cellulare fa male ci troveremmo davanti ad un grottesco paradosso. I locali dovranno allestire quattro sale: una per i fumatori-telefonomani, una seconda per i fumatori-non telefonomani, una terza per i non fumatori-telefonomani, e una quarta per i non fumatori-non telefonomani. Un mondo globale unito dalle razze e diviso dai vizi.
- Ora esageri però. Il progresso è servito anche a faticare di meno. Ragiona su cosa sarebbero stati alcuni lavori senza la gru. E poi oggi si curano malattie che una volta erano mortali, si comu-nica più velocemente e più liberamente..........................
- ......…........si produce più disoccupazione, povertà, disperazione, polmoni sempre più occlusi, si viene spiati più facilmente, si muore di cancro, di TBC, di leucemia, di AIDS................................
- Spiati più facilmente? - chiese Dirty ripetendo.
- Certo! Echelon, il Grande Fratello, esiste davvero. Se un imprenditore di una nazione che non fa parte del “Progetto Echelon” si mette in competizione con uno di quelli che ne fanno parte, e cioè Stati Uniti, Inghilterra, Canada e Australia, è quasi impossibile che riesca a spuntarla. Questo sistema d'intercettazione satellitare lavora per la propria economia e per il proprio spionaggio politico. E l'Europa? Con le sue Commissioni al soldo delle Multinazionali? Coi suoi politici stra-pagati? Con le sue voci inascoltate? Nulla. Silenzio. Silenzio di tomba.
- Credevo tu parlassi della trasmissione televisiva.
- Quella è uno specchietto per le allodole. Esattamente come lo fu Oswald nell'omicidio Kennedy o come lo fu il Lago della Duchessa nel rapimento Moro.
- Cosa vuoi dire?
- Vedi, l'Europa ci ha messo anni a capire che il “Progetto Echelon” non era una cosa innocua, e quando finalmente si decide di discutere l'argomento in sede di Parlamento europeo, cosa succe-de? Qualcuno mette in giro un programmino confezionato a doc. E' una tattica vecchia come il mondo. Si ridicolizza l'argomento per abbassare il livello di serietà e gravità del problema. Si sa, consumato il pathos, sprecata l'emozione del primo impatto, esaurito un sentimento, tutto diven-ta più facilmente sopportabile, digeribile, come dopo il Lago della Duchessa divenne sopportabile e digeribile l'omicidio di Moro. Quando si parlerà di Grande Fratello le persone non penseranno più al proprio diritto alla privacy, ma a quella ridicola trasmissione e a quei megalomani che vi hanno preso parte. Ormai perfino essere spiati è diventata una cosa normale. Sono arciconvinto che il soggetto di quella trasmissione sia stato scritto negli uffici della CIA, e l'olandese che si spaccia per inventore di quel programma non sia che una testa di legno.
- Ci sono altri modi per comunicare. - rise Dirty.
- Sì, coi piccioni viaggiatori. Ormai anche i computers sono sotto controllo. Negli uffici dell'FBI hanno messo a punto un sistema di computers intercettori. Si chiama “Carnivoro”, e “acchiappa” qualsiasi messaggio, E-mail, posta elettronica, in partenza. E poi ci parlano di libertà della Rete e di globalizzazione dei profitti.
- Beh, ma non puoi negare il fatto che il computer ha permesso passi in avanti che altrimenti erano impossibili d'attuare. Pensa all'alfabetizzazione, che col computer è più facile e veloce da divulgare.
- Secondo me è l'ennesimo abbaglio. Su Internet possono “pubblicare” tutti, tant'è che è diffici-lissimo trovare qualcosa di davvero interessante. Ci sono tizi, come i giocatori di soccer, che han-no un proprio sito attraverso il quale parlano coi loro fans, ma quando li senti nelle interviste ti rendi conto che hanno un'idea stravagante della sintassi, che fanno grossolani errori grammaticali e che sbagliano una parola su due. Questo si chiama “analfabetismo di ritorno”. Vituperiamo tanto la televisione, ma oggi è proprio il computer a mettere a rischio l'unico bel lavoro fatto dal tubo catodico, l'alfabetizzazione. Secondo me le varie Reti sono solo premesse per tenere sotto controllo le generazioni future, e questo intento viene mascherato con la “libertà dell'informa-zione”. Vedrai, fra una decina d'anni butteranno via penne, matite e quaderni, e ai bambini verrà insegnato a scrivere direttamente sul computer. Così prenderanno due piccioni con una fava; l'individuo sarà soggetto ad essere sempre più spiato, e inoltre, quando avrà trentanni, un bel giorno nella sua casa il computer si guasterà, ed egli non potrà più comunicare con nessuno per-ché, dal momento che la penna è stata sostituita dalla tastiera, non saprà come farlo. Sembra un paradosso. Man mano che l'individuo diventa sempre più istruito, si presta sempre più ad essere preso per il culo.
- Siamo arrivati. - disse Dirty guardando fuori dal finestrino – Comunque tu hai le stesse paure che si avevano a metà del diciannovesimo secolo, quando ci fu la rivoluzione europea.
- Non erano ingiustificate, però! - rispose Norman - Oggi, con la falsa globalizzazione, ci hanno riempito di diritti. Ma se tutto è libertà niente è libertà ed ogni cosa è schiavitù, perché il povero di mezzi non ha la possibilità di mettersi in competizione col ricco, e quindi ciò che gli interesserà sarà subordinato da una specie di clausola compromissoria, che è l'eventuale interesse per quella stessa cosa che può avere il ricco. Lo stesso si può dire per i diritti: il “diritto di avere tutti questi diritti” è diventato un'imposizione.
Un cartello con su scritto MAZZARINO si ergeva in tutta la sua albagia. I due si prepararono per scendere. Norman riattaccò i baffi finti e, presi i bagagli, s'appressarono alla porta. Il treno fece un lungo fischio e si fermò. La stazione di Mazzarino era deserta. Una fitta nebbia l'avvolgeva, e quando il Capostazione, paletta alla mano, fece ripartire il treno, quel posto si trasformò in un luogo di spiriti, da Conte Dracula, ecco, sembrava di stare in Transilvania. Si avvicinarono al Capostazione con l'intenzione di chiedergli se c'erano taxi a quell'ora, ma questi, come se fosse stato un fantasma, era sparito, inghiottito dalla nebbia. Si guardarono intorno spaesati, e Norman disse:
- E ora? Da dove usciamo? - e scoppiando a ridere gli caddero i baffi per terra.
- Potremmo sederci qua - rispose, anch'egli ridendo, Dirty - e aspettare che passi nottata. Così ci riposiamo.
- No, incamminiamoci. - rispose Norman che aveva addosso la frenesia di nascondersi da qualche parte - Al mattino rischieremmo di essere scoperti e arrestati.
- Andiamo da quella parte allora, mi sembra d'aver scorto l'ombra di alcune case. - disse il vec-chio barbone.
Camminando riuscirono a trovare l'uscita della stazione, così seguirono la statale. Era quasi l'alba e Norman si sentiva stanco. Decisero di riposarsi. Si sedettero su una pietra miliare, e Norman appoggiò la schiena dura e dolorante al palo che c'era dietro. Chiuse gli occhi e subito i pensieri arrivarono a tormentarlo.
Aveva ucciso un uomo, e solo il fatto che questi fosse l'odiato Bert Foster riuscì a calmargli i ri-morsi. Pensò che la Legge, ritenuta eterna e universale, del contrappasso presuppone il fraudo-lento, cioè, qualcosa di cui gli uomini hanno goduto surrettiziamente. S'accorse subito che il di-scorso non era così semplice.
Ciascuno di noi, si dice, paga per i propri errori. Ma nel mondo ci sono individui che muoiono dopo una vita di sole sofferenze! Due allora sono le possibili verità; o il contrappasso non esiste, oppure non tiene conto della gravità delle malazioni che si commettono. Non è un meccanismo pirami-dale, ma prescinde dall'enormità degli errori commessi, dalle sofferenze inflitte e dai peccati per-petrati. Se questo è vero, può anche darsi che il misero, il piccolo, il povero, vengano puniti con la morte anche soltanto per una risposta sgarbata o per aver rubato l'ago, mentre chi uccide, stu-pra, ruba, sfrutta e vende la propria madre, possa anche vivere egregiamente e per molti anni. Forse non esiste nessun contrappasso, o meglio, ne esiste uno solo, uguale per tutti; la morte.
- Chissà se la povera Kate sta bene. - disse Norman.
- Sta bene, sta bene. - rispose Dirty.
- Come fai a saperlo con tutta questa sicurezza?
- Per la stessa ragione per cui so che là, dietro quella curva, c'è la “nostra clinica”; so leggere. Co-me vedi, caro Norman, il “negropontismo” non fa presa su di me.
E infatti il palo nel quale Norman si era appoggiato per riposarsi, teneva in piedi un cartello che portava la scritta “Villa Cara. Istituto di Bellezza”. Si alzarono velocemente e, presi i bagagli, iniziarono a correre verso la clinica come assetati nel deserto corrono incontro alla tanto agognata oasi.
Avevano i vestiti umidi, impregnati di brina e nebbia, una fame da terzomondiali e la stanchezza di un maratoneta che è arrivato primo alle Olimpiadi della Fatica. Giunti davanti al cancello suo-narono al citofono. Una, due, tre, quattro volte. Dopo qualche minuto d'attesa una voce blanda dal sonno rispose con accento tedesco. Norman fece segno a Dirty di avvicinarsi.
- Sono Mister Sunshine, ho appuntamento col Professor Fellony. - disse "Masticabrodo" con la bocca attaccata al citofono.
La voce rauco-gutturale, ma da donna, protestò per l'ora, ma poi, con un “ta-tlac” elettrico, aprì ugualmente il cancello. I nostri entrarono. Norman era ansioso. Si sentiva ad un passo dalla salvezza.


IV.


Il Professor Fellony aveva l'espressione della persona seria. Fin troppo. Ricevette i due e subito preparò la cartella clinica di Norman. Naturalmente dopo aver iniziato a fargli tutti gli esami ne-cessari.
Norman era un po' impaurito da questo strano Professore. Anzi, più che impaurito era diffidente. Aveva gli occhi vitrei, simili a quelli di Norman, e quando parlava non ti guardava mai in faccia. Era ablefariaco, e per questo somigliava ad uno zombie capace di vederti in qualunque posto tu fossi andato a nasconderti. La pelle del suo volto era tirata, ma talmente tirata che se mai avesse chiuso gli occhi sicuramente gli si sarebbe aperto il buco del culo. Aveva un naso lineare, dritto e stretto. I capelli erano sparsi qua e là, così, con indifferenza, e la sua bocca pareva il disegno di un bambino di terza elementare; una striscia sottile e lunga. I suoi denti erano incapsulati, alcuni d'oro, altri bianchi come la carnagione, che nel suo abbagliare si confondeva col camice da Lumi-nare. Sembrava d'aver davanti una lampadina alta un metro e novanta.
Per la plastica gli aveva chiesto trecento milioni. Norman aveva dovuto accettare. I fuggiaschi non possono tirare sul prezzo. E comunque era stato onesto, e Bates sapeva d'aver denaro abba-stanza da potersi permettere ben altro che una plastica. Dirty aveva svuotato la cassaforte por-tandogli la fortuna, la “sua” fortuna, di due miliardi e duecento milioni.
Terminate la visite il Professor Fellony illustrò a Dirty e Norman come voleva operare e cosa vo-leva cambiare. Per prima cosa disse di voler assottigliare il naso, eccessivamente largo e adunco. Poi si sarebbe occupato della bocca e del mento, ingrossando un po' le labbra e limando un pezzo di “barba”. Ma l'azione decisiva, diceva, voleva compierla sugli occhi. Sopracciglia più ravvicinate e più folte, leggera tiratura della pelle sugli zigomi, e infine lenti a contatto. Nere nere. Avrebbe trasformato il suo sguardo azzurro e aperto di americano in quello di un “tenebroso italiano”. Il tutto in quattro operazioni da settantacinque milioni l'una. Sembrava di essere al Supermercato degli Organi.
Norman avrebbe dovuto restare in quella clinica almeno tre mesi.
Non era male, questo. Si sarebbe tolto dal marasma generale che reclamava lui quale protagoni-sta principale. Il Professor Fellony si mise subito al lavoro, quindi le giornate di Norman passa-vano veloci fra la sala operatoria e il decorso clinico. Dirty, da buon acantocèfalo, gli stette sem-pre vicino.
Piano piano la notizia della sua scomparsa retrocedette di pagina in pagina fino a scomparire dal giornale. Un mese dopo di tutta quella storia non c'era che qualche trafiletto in decima o do-dicesima pagina. Il solo fastidio di Norman era che Dirty comprava un giornale, il "New Star", che lui non aveva mai sentito e che non gradiva punto.
- Non puoi portarmi qualche quotidiano normale? - chiese Norman un giorno - Con questo mi sembra di leggere una di quelle riviste di gossip per sole donne.
- Fossi matto! - rispose Dirty - Tu dimentichi che ci hanno visto insieme. Ti porto questo giornale perché ci è abbonato l'ospedale, non sono così scemo da andare in un edicola col rischio di farmi riconoscere.
- Portami almeno qualche libro! - disse Norman annoiato.
- Io te li porto, ma tu continua a scrivere gli appunti di questa storia, non ti rilassare troppo.
- Non ho voglia di scrivere, per il momento. Quando mi sarò rimesso vedremo.
- A proposito, quando uscirai dove preferisci andare a vivere?
- Volevo tornare negli Stati Uniti, a casa mia. - rispose Norman.
- Nell'Ohio, a respirare puzza di pneumatici mista a chewin' gum. Per favore, sii serio. Non puoi tornare a vivere in America, rischieresti di essere arrestato. E' l'unico paese che ha le tue im-pronte digitali, e dove molti possono riconoscerti come Norman Bates.
Dirty si avvicinò lento alla faccia del suo amico, e parlando come un congiurato tirò fuori una Carta d'Identità italiana.
- Guarda qui, prenderai il posto e l'identità di questo individuo.
- Dove l'hai presa? - chiese Norman.
- Le mie risorse sono insondabili. - rispose il vecchio.
- Che cos'è pugliese?
- No, di Genova ma con chiare origini sarde. - rispose Dirty – Si è distratto un attimo sull’auto-bus………..……Cambieremo la fotografia e terremo le generalità. Potrai andare ad abitare dove vuoi, basta che non siano gli Stati Uniti. Io però ti consiglio la Puglia o la Calabria. Sono bei posti, e se ti succede qualcosa non devi far altro che attraversare un braccio di mare per essere dal-l'altra parte, in Al-bania, all'estero.
- Mi sembra tutto così.............................abborracciato.
- No, perché? - disse Dirty recuperando la stazione eretta - Guarda che Fellony lavora bene! Non ti preoccupare Norman.
Il giallista a questo punto abbassò gli occhi pensieroso. Rimase accigliato come se si stesse concentrando. Improvvisamente rialzò la testa e guardando Dirty negli occhi disse:
- Quali intenzioni hai? Non vorrai restarmi attaccato al culo per l'eternità, spero!
- No, per tutta la vita no. - sorrise Dirty - Ancora per qualche tempo. Devo vedere un paio di cose.
- E se io rifiutassi la tua compagnia? - insisté Norman.
- Non credo che tu sia in grado di rifiutare qualcosa che abbia a che fare con me. Io so chi sei. Sono l'unico che sa chi sei veramente. Sono il tuo “salvatore”, quello che ti ha regalato una nuova vita. Non hai la possibilità di liberarti di me.
- E se ti uccidessi? - disse Norman serio e tentando d'incutere paura al vecchio barbone - L'ho già fatto, e uno in più, uno in meno, quale differenza vuoi che faccia?
- No, caro Norman. - sorrise Dirty sicuro e impavido - Non lo farai. E sai perché? Perché tu non sei un assassino. Hai ucciso Bert solo perché eri annebbiato dal Bourbon e dalla gelosia, ma se oggi ricapitasse quella situazione non reagiresti allo stesso modo. E poi non hai nulla da temere. Io mi stanco presto degli individui, e tu non hai proprio niente di speciale, sai? Resterò con te an-cora qualche tempo, poi me ne andrò per i fatti miei.
- Non mi hai ancora detto cosa vuoi in cambio. - chiese Norman.
- Per adesso solo starti vicino, aiutarti nel decorso clinico e spronarti a scrivere il libro su questa storia. Quando questo sarà finito allora ti farò la mia richiesta.
- Dovresti portarmi qualche bottiglia di Bourbon e un po' di fogli, così posso mettermi al lavoro. Un libro, malgrado quello che puoi pensare tu, non è una creatura abiogenetica. Per scriverlo ho bisogno di tutto il materiale necessario.
- Con calma però. Deve venir fuori un grande libro, non un libro qualsiasi. - disse Dirty sorri-dendo bonariamente.
- Forse hai ragione tu. Con tutte queste operazioni non mi sento così pronto per affrontare la stesura di un libro. Spesso ho mal di testa, e mi sento stanco. Devono essere le anestesie. Co-munque portami carta e penne, e quando starò bene butterò giù qualcosa. - Norman fece una breve pausa. Poi chiese - Ma cosa te ne fai di un giallo?
- Il libro che scriverai non sarà propriamente un giallo. Sarà più un racconto, un racconto di quelli che hai sempre voluto scrivere e che la scarsa fiducia nei tuoi mezzi, nelle tue capacità, ti ha im-pedito di affrontare. In pratica un libro che racconti il vero Norman Bates.
- Un'autobiografia? - domandò Norman.
- Ma no! La storia di questo casino, di tutta questa vicenda, raccontata da chi l'ha vissuta vera-mente ma in terza persona, mettendosi al di fuori, da spettatore. - rispose Dirty.
- Ho capito. Vattene adesso. Voglio dormire. Domani mi attende la terza operazione - disse Nor-man triste e malinconico - e non voglio arrivarci a corto di ossigeno.
- Certo Norman, ma permettimi un'altra cosa. Tempo un mese sarai fuori di qui. Ho un amico che abita in un paesino in provincia di Brindisi, in Puglia, e che ha la possibilità di trovarti un'appartamento o una casetta. Come la vuoi? Vuoi acquistarla o prenderla in affitto? Posso dir-gli d'interessarsene?
- Sì, diglielo pure. Preferisco prenderla in affitto però, e qualunque posto va bene.......….. tanto ....…..........quando non puoi tornare a casa tua........................
- Va bene Norman. Adesso riposati. Io vado.


Un mese più tardi, tre settimane dopo l'ultima operazione intorno agli occhi, il Professor Fellony sistemò Norman davanti ad uno specchio e iniziò a levargli le bende dal volto. Sfasciò e risfasciò fino a che giunse alla faccia di Norman.
- Ti puoi guardare. - disse Dirty a Norman che fino a quel momento aveva tenuto gli occhi chiusi. Il suo cuore tremava e nello stomaco nuotavano decine di anguille.
- A perfect italian! - esclamò il Professor Fellony.
Lo scrittore, sentendo i commenti dei due, tenne gli occhi stretti. Quindi decise di aprirli piano piano. Lentamente la “nebbia” si dipanò e i contorni offuscati iniziarono a far riemergere una fi-gura d'uomo. La sua. Norman si vide. La prima reazione fu quella di voltarsi. Subito si mise a ridere. Poi riuscì a reprimere la forte tentazione di toccarsi il viso.
Fu una strana sensazione, quella che lo colse. Come se fosse trasmigrato in un altro corpo, in una altra persona. Ecco, metempsicosi. Il primo vero stato cosciente di reincarnazione. Fu assai difficile, nei giorni che seguirono, abituarsi a quello sconosciuto che davanti allo specchio lo scimmiottava. Qualche volta, quando era da solo, tentava di eluderlo. Pensava di chiudere un oc-chio, quello destro, sperando di fregarlo, ma quel viso aveva la capacità di leggergli nel pensiero. Era chiaro ormai. Quello sconosciuto era Norman Bates. Travestito da “terrone italiano”, certo, ma era proprio lui.
- L'ho sempre detto che gli specchi non servono a nulla. - si lamentò scrutando quell'estraneo che lo fissava sullo specchio dell'armadio - Non riescono a riflettere la realtà, ma soltanto quel che gli mostri. Riportano le cose indietro proprio come un cane ben addestrato.
Quello stesso giorno Dirty lo portò in Radiologia. E là, fra macchinari strani e radiazioni “bene-fiche”, gli scattò un paio di foto tessera da appiccicare ai documenti che aveva recuperato per la sua nuova identità. Dirty, arrabattatore nato, era un piccolo genio per quanto riguardava trucca-re documenti. Il timbro del comune di Genova e la firma del Sindaco erano perfetti.
- Ecco Norman, ora siamo pronti per ripartire. Sistema il sospeso col Professor Fellony e andia-mo incontro alla tua nuova vita. - disse Dirty.
- Il mio accento sarà un problema?
- Figurati! A parte il fatto che credo tu non lo abbia così forte, ma poi andiamo in una terra che è una specie di porto franco riservato ai clandestini, Ci sbarcano albanesi, slavi, curdi, libanesi, marocchini, algerini, tunisini, egiziani, iraniani, indiani, cinesi e chi più ne ha più ne metta! E' una specie di Babele dei poveracci, cosa vuoi che sia un accento in più? Sarà solo uno fra mille...........
Quello stesso pomeriggio passò dall'ufficio del Professor Fellony e gli diede il resto dei soldi per la plastica. Questi gli assicurò che non ci sarebbero stati problemi di alcun tipo. Quella sarebbe stata la sua faccia fino al giorno della sua morte. Erano passati appena quattro mesi dalla sera in cui uccise il suo nemico scrittore Bert Foster, e ormai l'aveva fatta franca. Ma non sapeva gioire pie-namente di questo. Un poco era morto anche lui. Norman Bates, scrittore giallista, non esisteva più.

UNA NUOVA VITA

I.

Che l'uomo abbia paura del giudizio è un'ovvietà, e si desume dal chiaro fatto che non appena gli capita di avvicinarsi ad una tragedia, ad una casuale disgrazia nella quale rischia di perdere la vita o la libertà, la sua reazione istintiva è ogni volta quella di scappare. La fuga è sempre un atto vile? Se è un atto vile aver paura di morire, allora sì. Ma chi non ha paura di morire? La Medicina esiste per la proliferazione di tale timore. Esiste una patologia ossessiva, la “tanatofobia”, che consta ed esplica questo timore. La fuga è la paura della Morte, e non si muore solo quando si muore, ci sono mille modi di morire, non serve sempre finire all'ospedale e constatare che il cuore si è fermato. Anche Cèline e Proust scrissero che nel corso della vita si può morire diverse volte. Si muore quando finisce la pubertà, l'adolescenza, quando perdiamo una persona cara, che non deve necessariamente morire, si muore quando ci tolgono la libertà, quando finisce un amore, quando lo si dimentica, quando lo si ricorda, perfino ogni volta che sbagliamo o quando cambiamo casa. Nella nostra vita quel che più costantemente è presente è proprio la Morte.
Alla luce di queste considerazioni potremmo chiederci; che cos'è la vita di un uomo al quale è stato strappato il volto? Questa domanda ronzava nella testa di Norman come le mosche ronzano intorno ad una cloaca. Man mano che il treno li portava verso sud il cervello di Norman aveva iniziato a lavorare in proprio, senza che lui gli avesse chiesto niente, affollando la sua mente di una confusione di pensieri e immagini. Si sentiva diverso per quell'operazione. Era solo una que-stione di abitudine? Poteva essere.
Un individuo, per disaffezionarsi ai gesti, ai posti e alle solite facce, ha bisogno di sostituire il tutto con nuovi luoghi comuni, che finiranno presto per formare e determinare le “nuove abitudini del domani”.
Norman doveva solo affidarsi al tempo, alle ore che passano, alla nuova casa, primo vero abito col quale si affronta la quotidianità, e alla sua faccia, che non era la solita, che lui avrebbe dovuto ri-vestire d'immagini intime che non le appartenevano, che avrebbe dovuto guardare con bene-volenza ed educazione, doti necessarie per farsi digerire da sé stessi e dalla società.
Di tanto in tanto si guardava allo specchio per controllare che tutto fosse a posto. In cuor suo sperava che qualche piccolo brufolo, per quanto fastidioso poteva essere, facesse la sua comparsa su quella maschera per colmare un divario profondo di estraneità, per dimostrargli che era vero, quella era proprio la sua faccia, che il suo fegato poteva trasmettergli i suoi sfoghi, che le lacrime, se mai fossero arrivate, sarebbero scivolate sulle guance con la stessa velocità di prima, che il rossore causato dal freddo, e l'abbronzatura portata dal sole, sarebbero state accolte da lei così, naturalmente.
Qualche volta, davanti allo specchio, provava a fregarla, con finte, falsi ragionamenti, idee con-traddittorie, ma sembrava proprio che quella caricatura di volto fosse entrata in simbiosi col suo cervello. Era lui, quella faccia. Era lui definitivamente.
Aveva cercato di dimenticare tutto quello che era successo, l'omicidio di Bert, lo stupro della povera Kate, il premio, che non ricordava più dove aveva messo, i suoi libri, la Polizia, la plastica, ma c'era la sua faccia a ricordarglielo. Un nemico. Un nemico come può essere un brutto male, ecco cos'era diventato il suo viso. Si sentiva un po' come un invalido di guerra, un invalido impegnato giorno e notte a dimenticare lo scontro bellico di cui è stato vittima. Impossibile. Il suo viso, come un promemoria indelebile, era lì a rammentargli tutto. E poi il libro, che, raccogliendo gli appunti annotati durante quel viaggio, aveva iniziato a scrivere, e che, quasi d'accordo con la sua faccia, continuava a riportargli davanti le scene di quella sera.
Pensò anche a quanto facile fosse stato cadere e ritrovarsi sulla cattiva strada. Un bicchierino in più (ma per lui erano state due bottiglie), una lite per futili motivi, essere spettatori di un'azione che ci rivolta lo stomaco, inciampare nell’avventatezza e ritrovarsi a fuggire, esile tentativo di rimandare il contrappasso.
Era stato come salire, gradino dopo gradino, una lunga scala nella quale un gesto determina e stabilisce la direzione e il peso di quello successivo. E' chiaro, sei lì, ti fai prendere la mano. Tutto ha avuto origine da un nostro azzardo, e così si seguita ad azzardare, come quando si sogna di entrare in un labirinto e la frenesia di uscirne ci trascina istintivamente ad infilare una porta dietro l'altra. Il solo risultato che si raggiunge è quello di perdersi definitivamente.
Norman era sempre stato contro la pena di morte, e, a differenza di molti, sapeva spiegarne an-che le ragioni. Rideva come un matto quando sentiva quei qualunquisti umanitari che asserivano d'essere contro la pena di morte perché secondo loro è sbagliato vendicarsi. Ma chi l'ha detto? Non è vero! Esiste la “legittima difesa”, no? Il problema è che la Legittima Difesa è un diritto uni-nominale. Solo chi subisce il torto ha diritto di vendicarsi. Ma nel caso di omicidio chi ha subìto il torto non può vendicarsi, e che lo faccia un'altra persona al posto suo è sbagliato. Errore che si aggrava quando “quella persona” diventa lo Stato. L'Uninominalità del diritto di vendetta, come del diritto di perdono, è un principio non solo giuridico ma anche biologico. E' una decisione che riguarda soltanto l'offeso, qualcosa che si sente nello stomaco e che aggroviglia gli stati d'ani-mo. Ciò che chi non è stato toccato dal torto non può sentire. In caso di omicidio quel che la società e uno Stato di Diritto devono e possono fare è giustizia, non vendetta. Chi, per una supposta morale, vendica uccidendo un assassino, anche lui, per lo stesso motivo, dovrà a sua volta essere soppresso, e così deve accadere a chi lo sopprime. Ma se si darebbe vita a questo meccanismo inferenziale, tutto quel che ne conseguirebbe non sarebbe più un atto di giustizia, ma una faida ereditata ed ereditabile ad libitum.
Il segno che Dio appone sulla fronte di Caino è un chiaro manifesto simbolico, rappresentativo. Chi uccideva Caino sbagliava maggiormente, così che chi tocca Colui il quale ha versato sangue sulla propria testa, inevitabilmente se ne sporcherà le mani.
In quel vagone letto iniziò a ragionare anche su chi fosse in realtà Dirty, questo pseudo barbone che quando parlava pareva essere un “tuttologo”. Era forse un Agente dei Servizi Segreti di qual-che paese straniero? o dell'America stessa? Parlava correttamente l'inglese, an-che se aveva un accento che Norman non ricordava d'aver mai sentito. Gli aveva visto addosso sempre i mede-simi vestiti, non l'aveva mai visto lavarsi e malgrado questo non puzzava affatto. Poi ricordò anche che quando nel Bar fece il percorso fra i tavolini per andare al gabinetto, non gli sembrava d'averlo visto. Che fosse entrato dopo? Il barista aveva l'aria di non conoscerlo. Anzi, Norman rammentò che non avevano scambiato una parola, si erano quasi evitati.
Ora lo guardava, di fronte a lui, coi vestiti laceri, le scarpe piene di buchi, sopra e sotto. Leggeva il giornale, il “New Star”, e sorrideva. Nonostante avesse fatto tanto per lui ancora non gli aveva chiesto niente, nemmeno di comprargli un paio di scarpe nuove.
- Stavo pensando che da quando stiamo insieme non ti ho ancora visto dormire. - disse Norman al vecchio.
- A me? - rispose Dirty - Ho sempre dormito poco. Sai, quando sei per strada, col timore che qualcuno venga a darti fuoco solo per divertirsi, la stanchezza che puoi avere raramente si trasforma in sonno. Comunque ho dormito. Poco, male, ma ho dormito.
- Non ho detto che non dormi. Ho detto che non ti ho mai visto dormire, è differente. - disse Norman con voce stizzita. Poi, dopo pochi secondi, aggiunse - Quando hai dormito?
- Ah, ma allora è un interrogatorio in piena regola! - disse Dirty ridendo e mettendo da parte il giornale - Quando eri in clinica il Professor Fellony, probabilmente per sdebitarsi del piacere che gli ho fatto portandogli un buon cliente come te, mi ha ospitato in una camera al piano di sotto, accanto alla portineria. Le altre volte ho fatto come sempre, ho dormito dove mi trovavo. Non che la tua situazione mi abbia dato molto tempo per riposare, eh? Ma sono sempre stato un aseiteista............……….
- Ci vuole ancora tanto per arrivare a Brindisi? - chiese Norman interrompendo Dirty e lasciando perdere l'investigazione su chi fosse. Tanto non ne avrebbe cavato un ragno dal buco, e con-tinuando a fare domande avrebbe potuto compromettere un futuro di più sincere risposte.
- Siamo entrati in Puglia da una ventina di minuti. - rispose il vecchio - Credo che fra un paio d'ore dovremmo esserci.
- Ho nostalgia della “mia” musica. - disse Norman stirandosi - E' tantissimo tempo che non ascolto un po' di buona musica. Non che mi avrebbe eccessivamente rallegrato, però.......................
- Quali sono i tuoi artisti preferiti? - chiese Dirty.
- In classica Debussy, Bach, Mendelsshon e Satie. Ma mi piace anche il jazz. Charles Mingus, Davis, Lester Yuong, Coltrane e Monk fra i jazzisti antichi, Zappa e Metheny fra i moderni.
- Sai che Debussy e Proust si conoscevano? - disse Dirty.
- Sì, ma non si ritenevano, reciprocamente, molto simpatici.
- A quanto pare Debussy era un vanesio, narcisista e megalomane. E anche geloso. Si dice che quando un musicista riceveva complimenti in sua presenza, lui se ne risentisse come un'oca da Tv si risente se i critici scrivono che non è capace a cantare e ballare.
- A proposito di mestieri, - disse Norman - come mi presento? Sì, insomma, che lavoro faccio?
- Beh, cerchiamo qualcosa di cui t'intendi, qualcosa che sai fare. Sicuramente non puoi dire in giro che sei uno scrittore. - rise Dirty - Anche perché Norman Bates non esiste più.
- Certo, certo. Potrei dire di essere un editore a riposo, che Charles Witney mi perdoni! L'unica cosa di cui son certo di capirmene è la Letteratura. - disse Norman.
- Geniale. Parlando di libri, non appena ci siamo sistemati cerca di finire la tua storia, altrimenti diventa........…………
- Ho buttato giù una bozza, mi manca solo l'ultimo capitolo. Sono indeciso sul finale. Quando saremo a casa ci penserò un po' su.
I due si allungarono sui sedili. Dirty continuò a leggere il giornale, mentre Norman provò a dormire. Ma il ritmo che i vagoni prendevano ad ogni tratta non glielo permisero.
Giunti a Brindisi dovettero cambiare treno. Il paesino in cui l'amico di Dirty aveva trovato l'appartamento a Norman era a venti chilometri di distanza dalla città. In mezzora al massimo sarebbero arrivati. Durante quel breve tragitto nessuno dei due disse una parola. Dirty era affo-gato nel suo giornale, mentre Norman preparava i bagagli per scendere. Terminata quella breve operazione si mise accanto al finestrino e gettò, a perdersi, lo sguardo fuori.
La campagna scappava all'indietro rincorsa dal cielo fermo che con le sue nuvolette prometteva soffici dormite in candidi letti. I pali fissavano l'eterna immobilità della terra, che legata tramite i loro fili non faceva nulla per liberarsi da quella morsa. Ogni tanto contadini, più lenti e compassati del velocissimo verde che li trasportava, entravano nell'inquadratura dell'occhio di Norman, e, alzando la testa, mostravano visi ingenuamente sorridenti, mentre guardavano quel serpente di ferro fracassargli a terra il silenzio. Ma non sembravano troppo preoccupati. Evidentemente quelle rotaie facevano parte del panorama fin dalla loro giovinezza. Chissà quanti di quei conta-dini avevano portato la giovinetta di turno sotto il ponte che or ora il treno stava attraversando. E chissà ancora quante di quelle ragazze vi avevano trovato la morte, ultimo grido di dolore per un amore finito male. La stravaganza, per quei braccianti, figli cari di quei posti, sarebbe stata quella di non vedere più il treno passare come un coltello dividendogli in due la campagna.
Lo sguardo di Norman fu rapito da un calabrone, che, col suo volo noiosamente appesantito, andava ad infastidire il placido pascolare di una mucca. Nei rovi che scortavano le rotaie le more nere e rosse brillavano lucide al sole, e cento lucertole giocavano ai loro piedi. Le foglie avevano un verde sporco e brutto che faceva a pugni con quello abbagliante dell'erba nei campi.
Merli dal becco giallo chiaro si rincorrevano nei pali innaturali, e le loro ali disegnavano acrobazie circensi da ricordare negli anni. I rii per l'irrigazione dei campi erano stagni colmi di organismi viventi d'ogni specie, e la loro immobilità accresceva il fascino di quel microcosmo. Poi, pian pianino, Norman fu intontito dal rumore sordo del treno e assorbito da quel verde, e non riuscì più a distinguere le figure, i colori, a chiamare per nome le cose, ma ammirava i gesti come se fossero un tutt'uno, come in un quadro di Renoir nel suo movimento simulato.
Improvvisamente sentì un forte dolore agli occhi, come quando si è troppo vicini alla Tv e i colori ci fanno lacrimare. La luce era chiara e potente, e Norman dovette tirare la tendina per far ripo-sare il suo sguardo.
Arrivati, presto furono in paese. Un via vai di persone nelle loro faccende affaccendate, in quella che doveva essere la piazza principale, li accolse senza troppa attenzione, quasi snobbandoli. Quel cerchio di vita ne aveva un altro più piccolo al centro sotto forma di fontana. "La vita è geo-metria", diceva un Professore che Norman aveva avuto al Liceo.
Di fronte a loro si ergeva la facciata mastodonticamente inutile della chiesa. Il Municipio, ovattato covo di fannulloni privilegiati, era curato nelle forme, e rifatto di un rosa molto fresco. Le sue finestre, sgraziatamente spaziose, riempivano la facciata rendendo il palazzo più grande di quanto in realtà non fosse. Le decorazioni, in finto stile ionico, avevano colori troppo vivi per far propria quell'antica architettura, e nella loro intempestività temporale sembravano figurine di cartone, di quelle che negli anni trenta rappresentavano personaggi mitici, e che andavano a ruba fra i giovani di allora. Di fronte, a pochi metri, c'era il Bar, nel quale, visto che si avvicinava l'ora del desinare, uno stuolo di giovanotti, chi seduto al tavolino, chi in piedi davanti al bancone o appoggiato allo stipite della porta come per sorreggersi, prendevano l'istituzionale aperitivo.
Purtroppo s'accorsero subito che quello che avevano ritenuto essere un posto appartato era in realtà un porto di mare dove i clandestini andavano e venivano, e nel quale la presenza di gior-nalisti e forze dell'ordine, sollecitati da un'inconsueta xenofobia italiana, era assai più imponente che da qualsiasi altra parte.
Dovevano incontrarsi con l'amico di Dirty, e questi li avrebbe accompagnati alla casa presa in affitto per conto di Norman. Si avviarono per raggiungere il luogo dell'appuntamento, e, arrivati davanti ad un portone, Dirty scorse il giovanotto. Come Norman seppe alcuni giorni dopo, aveva conosciuto Dirty due anni prima, su un treno, mentre tornava dal servizio militare. Non si cono-cevano tanto bene, dunque, ma a Dirty quel po' di confidenza pareva bastare per trattarlo come un vecchio compagno di sbronze.
Norman visitò l'appartamento, un piano sotto a quello dove abitava il ragazzo, e ne fu soddisfatto. Sei vani con balcone che dava sulla piazza principale, sala da pranzo ampia e ampio bagno. Norman, guardando la sala da pranzo, ripensò al suo Servo Muto settecentesco, che in quel vano sarebbe stato l'ideale, e se ne rammaricò. Poi scaricò i bagagli, fece una doccia e la fece fare anche al riluttante Dirty. Dopo mangiato scesero in paese per una perlustrazione. Girarono per qualche ora, e Norman cominciò a preoccuparsi. Le strade erano piene di Polizia e Carabinieri, e anche le Tv non mancavano. Una nave carica di clandestini era affondata portandosi dietro un centinaio di persone, e quel paese era diventato una specie di centro di rifocillamento di giornalisti e forze dell'ordine. Quanto di peggio potesse esistere per uno che, come lui, aveva necessità di vivere nell'anonimato.
Tornato a casa, Norman si rese conto che quel posto non faceva per lui. Anche solo per un caso la Polizia avrebbe potuto fermarlo, e tutti gli sforzi fatti fino a quel momento sarebbero risultati vani. Così pensò bene di scrivere il finale del libro, darlo a Dirty mantenendo la promessa, e andarsene per i fatti suoi. La notte, col suo manto nero, stava arrivando ad offuscare le facce, tazebao degli stati d'animo di ciascuno di noi. Così tirò fuori tutto l'occorrente, approfittando del fatto che Dirty era a spasso col suo amico, e, penna alla mano, si mi-se ad un tavolo per tentare di ricucire un finale plausibile

II. Seduto sul palmo aperto della morte


Ho ucciso un uomo. E' successo l'altra sera, ad una festa in un Bar.
Mi aveva fregato giocando a carte. Io posso sopportare tutto, perfino che mi si parli dietro, ma non che mi si freghi a carte. Era un baro, sì, di quelli che si vedono nei film western. Io, quando me ne accorsi, non avevo nessuna pistola con me, e quindi non facemmo alcun duello. Però gliela promisi. Lui mi guardò ridendo e disse:
- Amico, perché te la prendi tanto? Eccoti qua quello che ti viene e vai per la tua strada. Ti ho ricompensato, non ti ho fatto nessun torto, adesso. Credevi forse di spennarmi? Vai, vai. E non temere, perduto me ne troverai altri cento.
I suoi amici si misero a ridere e mi sentii ancor più umiliato. Anche se non c'erano dubbi, avevo vinto, l'avevo scoperto e quindi avevo vinto. Ma, arrivato a casa, la mia mente sembrava non essersene accorta. Tutti i dubbi del mondo accerchiarono il mio cervello e il livore crebbe a dismisura. Mi sentii inutile, perfino troppo poco uomo, un individuo che gli altri non considerano per niente, solo “un pollo da spennare”. Così mi tappai in casa per due giorni interi facendomi divorare dal livore. Ma era davvero quella la ragione?
Qualche tempo prima la mia Connie se n'era andata. Sì, cancro dissero. Quale ragione per stare al mondo poteva ancora avere un tipo come me? Forse una figlia, cresciuta, grande ormai. E un genero, gentile, cordiale, buono. E anche una nipote con cui giocare. E l'amore, l'amore che per tutti loro ancora provava. Ma non era molto. Nessuno sa che farsene dell'amore di un vecchio.
Così, per i primi tempi, tentai di richiamare alla memoria la figura di Connie, ma mi accorsi che, a poco a poco, la sua faccia stava evaporando dalla mia mente. Poi, un bel giorno, mi resi conto di non essere più in grado di plasmare nei miei ricordi il suo viso, la sua parlata, il suo sorriso, il suo modo di camminare, addirittura il suo nome. Il mio amore stava morendo un'altra volta.
Così uscii di casa. Sapevo che quel tale, Larry, si vedeva con una donna che abita a qualche isolato da noi. Dicono che lui sia uno stallone. Difficile crederlo, se lo si guarda giocare a carte
Comunque sia.
Li notai da lontano e li seguii. Li vidi scopare. Ci misero un sacco di tempo ad arrivare. Poi li vidi parlare mentre lui, fuori dalla macchina, si riabbottonava i pantaloni.
Sembrava che litigassero.
Mi ero accucciato dietro una macchina, a pochi metri da loro, e li sbirciavo. Quel Larry mi sem-brava triste. Forse lei ne aveva combinata una grossa. O forse perché non era riuscito a fregarmi a carte. E' difficile con uno come me che passa il suo tempo fra solitari e partite a poker. Lei stava in automobile. Si muoveva con gesti insoliti. Chissà cosa stava facendo. Poi, all'improvviso, accese l'automobile e fece retromarcia. Si fermò ancora un istante a parlare con quel ragazzo che, fuori dalla macchina, pareva pregarla per qualcosa. Forse voleva farne un'altra, chissà. Dopodiché, stizzita, partì sgommando.
Fu allora che io uscii.
Quante volte in questi due giorni mi sono rimproverato l'avventatezza di quella sera. Sì, perché lei non era andata via. Si era trovata davanti un'altra auto che stava uscendo da un posteggio, e aveva dovuto fermarsi per scansarla. Ma io ero già uscito dal mio nascondiglio, e avevo quel tizio a pochi metri da me. Quando mi vide non mi riconobbe subito. Rimase immobile, e mentre mi avvicinavo a lui lo vidi sorridere. Giunsi a mezzo metro dal suo tronco di corpo, e prima che riuscisse a rivolgermi la parola gli assestai un fendente ad un fianco.
Cadde. Uno zampillo di sangue sporcò le mie scarpe. L'avevo preso ad un organo vitale, sen-z'altro, il sangue usciva a fiotti. Forse al fegato. Il lato era quello. Il Destro. Restai immobile per alcuni secondi, come se fossi ipnotizzato dall'espressione della sua faccia mentre tirava le cuoia. I suoi occhi forse stavano chiedendo pietà a Dio. La sua lingua non riusciva a trovare la giusta posizione perché i versi si trasformassero in una frase che avesse senso compiuto. Poi vidi l’auto-mobile di quella donna fare retromarcia. Quando scese io scappai.
Quella notte non dormii molto, e così la notte successiva. La Morte aveva fatto di nuovo irruzione nella mia vita. Mi sentii come quando morì la mia Connie. Abbandonato, vuoto. La Polizia iniziò a cercarmi, e io, da quella notte, avevo quasi perso il coraggio di uscire di casa. Fino a quando, que-sta mattina, capii che mi era rimasta una sola cosa da fare.
Ma perché sono uscito quel giorno? La mia Connie lo diceva sempre che per me era meglio legge-re, che le carte portano problemi, nient'altro. E così fu. “L’oggi”, insieme ai problemi, è arrivato. In un istante solo mi sono reso conto d'aver perso tutto.
Mi sveglio. Sono le ventitré. Penso subito a quanto ho dormito. Otto ore in tutto. Dalle quindici. Ero andato a dormire subito dopo aver pranzato. La prima cosa che faccio è andare in cucina. Apro la finestra che dà sul viale stanco e annoiato della città. Si è alzato il vento. Una corrente calda e forte che sale da levante. Anzi, da sud-est. Spettina e tira via dalla testa dei calvi i brutti e costosi cappelli. Lotta strenuamente con gli alberi, certo che anche questa volta non la spunterà, e, scuotendo le gonne lunghe di anziane signore, gioca con la peluria dei cani, immobili nel farsi accarezzare.
La Polizia mi cerca. Istintivamente sposto lo sguardo a destra, dove si srotola una lunga fila di pioppi prigionieri nelle anguste aiuole cittadine. Un vecchio barbone si aggira lento e con l'anima raffazzonata nelle strade del rione, sicuro di non essere notato. Dondola curvo, ubriaco probabil-mente, con le gambe molli e il volto bisunto.
Dalla tasca destra del suo lacero cappotto fuoriesce il collo di una bottiglia. Dall'altra, che una evidente chiazza umida e scura mette in risalto, fa capolino la copertina di un libro. Sussurra che è molto meglio non giudicare.
L'intellettualità è qualcosa che ha bisogno di complementi viziosi. Droga, alcol, omosessualità.
Rientro in casa. Chiudo la portafinestra. E' un Novembre freddo, questo. Il mio corpo si scuote. Brividi si mettono a correre lungo la mia schiena, facendo a chi arriva primo. Come lacrime sul lattiginoso viso di un bambino.
Non so ancora perché ho deciso di farlo. Forse lo sapevo e l'ho dimenticato. Per mancanza di attaccamento alla vita? Perché l'ho tolta ad un uomo come me? O forse perché voglio sapere quale bizzarro gusto ci sia a mandare affanculo tutta l'umanità contemporaneamente? L'unica cosa che so con certezza è quando questo meccanismo inferenziale e autodistruttivo è iniziato.
Ieri sono tornato a casa e ho trovato Milly, il mio gatto, morto sul balcone. Disperatamente tentai di rianimarlo, ma non ci fu nulla da fare. Anche le sette vite dei gatti oggi s'inflazionano. Poi mi accorsi che presumibilmente era morto soffocato. Cercai, e trovai, conficcato nella sua gola, il canarino della vicina. Il becco gli aveva ferito mortalmente il palato, e lui non era più riuscito a liberarsene. Improvvisamente mi sentii escluso, tagliato fuori dal sistema, dal mondo.
Cosa grave? All'apparenza no. In effetti, a parte il bene che gli volevo, quel gatto era solo un luogo comune che andava in frantumi, un qualcosa a cui ci si abitua presto, quasi come la morte di uno sconosciuto o come la velocità con cui si spendono i soldi quando li si hanno in tasca. Ragionai.
Mi sentivo sempre io, Robert McDowell, nella mia tuta ginnica di casalingo, ma avevo perso il riferimento a me più caro. Un gatto, sì. Non riuscivo a capire come aveva fatto Milly a finire sul balcone. Che fosse passato dalla camera da letto? Dopo aver più volte stramaledetto il mondo e i suoi abitanti, ricordai d'aver lasciato la portafinestra aperta. Quel gatto era morto per colpa mia.
Come la mia Connie, forse.
Spengo la luce e vado in camera mia. C'è mezza bottiglia di Bourbon avanzata dal giorno prima. La porto alla bocca e ne ingollo metà. Della metà. Come dire, un quarto di bottiglia. Finita non ce ne sarà più. Via tutti i pensieri. Lo stesso ragionamento del povero di mezzi quando sale sullo sgabello che lo farà arrivare al tubo del riscaldamento intorno al quale legherà la corda dopo aver fatto il cappio. Sì, proprio quello che mi accingo a fare io.
Si è rimesso anche sul nuvoloso. Triste. Malinconico. Come quello scrittore italiano che si è suicidato. Com'è che si chiamava? Ah sì, Pavese. E’ strano, dove le nuvole si fanno meno grasse è segnato da macchie chiare. Il resto è rosso scuro, quasi porpora. La città è ogni Inverno più buia e tetra. Sarà la vecchiaia. La mia camera è un contorno ammuffito, abbandonato a sé stesso, putrefatto. Un contorno fatto di cose consuete che uccidono in me qualsiasi gusto. Certo, questa è la Morte. Una mannaiata improvvisa che tarpa le ali alla speranza della vita di sfuggirle ancora.
Mi siedo sulla sponda del mio letto. E' lei. Maledetta. La solita paura della sera. Il vuoto. Connie, amore mio, dove sei? Il silenzio. E' l'unica cosa che ti spinge a riallacciare i rapporti con l'umanità. Ma la mia Connie non esiste più. E' morta. E io mi sento vuoto.
Basta! Questo rumore, sommesso e tuttavia assordante, degli appartamenti vicini mi tortura. Forse sono geloso, geloso della loro vita. La lampada illumina debolmente gli angoli più bui della mia stanza proiettando fasci deboli di luce. La sposto. Ora affetta un pezzo della mia mano, un lembo di lenzuola del mio letto, la spalliera di una sedia, l'angolo rovinato di un libro. A scuola si chiamavano “orecchie”. Compagni dove siete? E i professori? E le teste pelate? I libri? I toni sommessi? I cortei? I primi amori?
Alzo la testa. Mi accorgo che la luce riflette la stanza sul vetro della portafinestra rendendola quasi un televisore. Stufo, mi alzo e la spengo. Tutto cambia. La luce dei lampioni sottostanti s'impossessa dei muri e delle cose attorno, e penetrando fra gli intervalli mobili che la tenda, mossa dal vento, provoca per inerzia, restituisce a tutto ciò che ho intorno il suo colore naturale, in precedenza reso più scuro proprio dalla penombra che il fascio di luce della lampada formava nel buio per impotenza, non raggiungendo.
Faccio fare un giro della stanza ai miei occhi. Gli oggetti formano strane figure che io, con l'enfasi di un esegeta disonesto, trasformo in profili di cari amici dell'infanzia per godere della loro pre-senza.
Sposto la tenda e appiattisco il viso sul vetro della finestra. Chiudo gli occhi e riesco ad evocare l'alito fresco della calma serata d'Agosto in cui conobbi la mia Connie, delle sagre di paese, dei carri allegorici, e di quell'antica e bella luce dei lampioni di una volta che trasfigurava, come in un paesaggio polare illuminato elettricamente, i lastrici azzurri e pallidi.
Non c'è poesia in queste città moderne.
Salgo su una sedia. L'ho posizionata accanto all'armadio, nello spazio che c'è per permettere alla porta di aprirsi compiutamente. Arrivo al tubo del riscaldamento. Lego la corda. Il cappio, pen-zolante, forma un grosso occhio verticale che subito mi fissa. Che vuoi maledetto?
Guardo il tubo. Un po' fine. Chissà se reggerà? E se nell'istante in cui mi accingo ad esalare l'ulti-mo respiro si rompe e mi spruzza in faccia un getto potente e interminabile di acqua bollente? Resterei ustionato. Ma tanto mi devo uccidere, no? E se non ci riesco? Vivo e sfigurato. Magari anche storpio, cadendo dalla sedia. In certe occasioni bisognerebbe trovare il coraggio di essere più scientifici. Un colpo di pistola alla testa dà certamente più garanzie.
Scendo giù, per ora. Per ammazzarsi c'è sempre tempo. Ho tutta la notte davanti a me. Vado al comodino e riaccendo la lampada.
Questa, con l'ignavia della sua luce, illumina distrattamente la mia libreria. La sposto e da dietro il paralume levo un cofanetto. E' pieno di lettere quasi lise dal tempo. Sono della mia Connie. Morta. D'inerzia. D'inadattamento alla vita, alle modernità, al progresso. Come me. Come tutti quelli che muoiono. L'occhio verticale, da lassù, continua impietoso a fissarmi. Calma, calma, non c'è fretta, maledetto.
Penso un momento. Provo a ricordarla.
Macché! I miei genitori s'infilano dappertutto. Mio padre. Che ridere quando mi portò a manife-stare con lui. Le sue convinzioni, prepotentemente di sinistra. Vedesse come siamo ridotti oggi, poverino. Lui ci credeva ciecamente. Credeva a tutto, il babbo. A quelle lunghe marce contro la guerra, contro la pena di morte..……...…….
Dovevo approfittarne allora, quando me lo diceva lui.
- Vai figliolo, buttati e qualche cosa prenderai. - mi diceva.
Non aveva molto senso dell'onestà, mio padre. Mia madre invece era decisamente diversa.
- Attento figliolo, - mi avvertiva - si ruba un ago, poi un bue, e si finisce per vendere la propria madre!
Simpatica la mamma. Aveva una passione smisurata per i proverbi. "Rosso di sera bel tempo si spera", "E' meglio l'uovo oggi che la gallina domani", "la speranza è l'ultima a morire"......................…………......... Peccato che alla mia età sia proprio la morte l'ultima speranza. E la gallina allora? Chi l'ha mai vista? Una vita di uova quotidiane, che piano piano hanno conquistato la tavola del domani, del dopodomani...……....…..E' andando avanti di questo passo che si finisce lassù, appesi a quell'occhio verticale.
La Morte, comunque, non è l'unica pena. Quante occasioni ho perso! E anche il rammarico può essere una pena. Il rammarico di essersi accontentati tutta la vita. Ma i miei istanti dove sono andati a finire?
Forse ce li ho qua, in tasca. O forse ci sono seduto sopra. Come se fossero un palmo aperto. Che mi culla. Il palmo aperto della morte. La Morte. Una necessità in funzione dei vivi. La Vita. Una casualità che è capitata anche ai morti. E le amnesie? Forse è con quelle che si muore la prima volta, quando non si riesce più a ricordare.
Alla mia età sembra che la fanciullezza non sia mai esistita, che sia solo un ricordo rubato ad altri, il frammento di un libro che abbiamo letto, di una commedia teatrale che abbiamo visto. Spesso rimproveriamo la nostra memoria, perché ai nostri richiami ella non risponde che in maniera confusa, e le immagini che ci mostra sono opache, ormai sbiadite dagli anni. Dai nostri? Non dai nostri in realtà, ma dai suoi, dalla pesantezza che le ore anonime hanno dovuto sopportare, e che, perdendo strada facendo la loro contemporaneità, hanno annebbiato quello che era un terso pa-norama, così che la gioventù ne risente e, seppur presente, anch'ella invecchia. Sì, di un anziano anche la fanciullezza può portare molti anni, perfino nelle fotografie, addirittura nei ricordi.
Oggi, per quanto io mi sforzi, non riesco più a richiamare quei giovani istanti come facevo una volta. Quando, quelle poche volte, ci riesco, sento che tutto è così contraffatto, falso, virtuale. Come dite? Sono malato? Non più di voi, signori cari. Sì? Come si arriva a desiderare la Morte? Ma la Morte non la si desidera che inconsciamente. Credete che il tizio sopra alla balaustra di quel palazzo che si sta per buttare di sotto sappia realmente perché lo fa? No. Come molti anche lui pensa che in fondo nessuno lo conosca bene, nella sua dolcezza, nella bontà d'animo, nella sua nobiltà, nella sua intelligenza, nella sua cultura. Anche lui, come me, pensa che in verità la vita di una persona non è una striscia continua, qualcosa di lineare, ma un non meglio precisato stato provvisorio, una striscia spezzettata determinata da situazioni, stati d'animo, emotività, con-dizioni sociali, livelli mutevoli di coscienza. Nessuno, sotto quest'aspetto, conosce nessuno. La vita di un individuo è qualcosa di diverso dell'istante in cui lo abbiamo conosciuto, nel quale gli ab-biamo stretto la mano per la prima volta, o dell'antipatia che ci ha ispirato un suo gesto che noi, con un imperante pressappochismo, abbiamo ritenuto essere il suo fedele specchio dell'anima.
Ho capito, ma io? Perché voglio farla finita? Perché Milly è morta? Figuriamoci. Perché sono una specie d'iconoclasta che non si è abituato a vivere soffocato dalle tecnologiche modernità? No. Perché con una coltellata ho ucciso un disperato come me? Neanche. Il cappio, con l'enormità del suo occhio verticale, mi fissa. Che vuoi maledetto? Arrivo, arrivo! Un momento! Voglio solo spie-gare!
Sì, perché voglio farlo? Forse perché i miei ricordi sono venuti meno. L'ho capito stamattina. O forse molto tempo fa, percorrendo quel sentiero consumato dietro il feretro di legno della mia Connie.
Quando s'invecchia la memoria vacilla, i ricordi si offuscano e piano piano spariscono. Ma non spariscono dal primo all'ultimo, piuttosto fanno il percorso inverso, dall'ultimo al primo, così che le cose che dimentichi più in fretta sono proprio quelle a cui sei più affezionato, i recenti attimi. L’ultimo libro che hai letto, la faccia di tua moglie, il tuo ultimo compleanno, l'anniversario di ma-trimonio di tua figlia, l'età di tua nipote…………………………..
Sono convinto che non si muore perché aumentano gli anni, ma perché diminuiscono i ricordi. Diventiamo anziani, giorno dopo giorno, e vediamo che ogni cosa intorno a noi cambia, gli oggetti, gli amici, le nostre convinzioni, ma riusciamo a restare giovani fino a quando i nostri ricordi ci allietano la vita riportandoci indietro nel tempo e facendoci godere, forse più che allora, la nostra giovinezza. Non appena la capacità di ricordare diventa flebile però, ciò che ci occupa gli occhi sono solo le immagini scarne dello squallido presente che la vista ci propina.
Ebbene, dal giorno in cui fissai negli occhi l'approssimazione della vita, il dì nel quale la mia Connie se ne andò, ho cominciato a coltivare un insano e fittizio attaccamento alla mia esistenza. Sapevo che senza quest'autoconvincimento non sarei campato a lungo, ma non m'interessava, e non m'interessa più, far parte di questi corpi in movimento, di questo balletto che conta. Così, a poco a poco, quell'attaccamento divenne immaginario. Mi osservavo e mi accorgevo di non pro-vare piacere alcuno, ma tuttavia restavo anonimamente aggrappato a quell'immaginazione, quasi per sentirne il fastidio, quasi per giudicarla fino in fondo inutile e vana, la vita, tanto vana che non dovrebbe interessare a nessuno portarla a termine.
Questo fastidio lo sentivo continuamente, e dovevo lottare, combattere per non farmi strappare alla mia immaginazione, a quell'amore fittizio per la vita che tentavo d'impormi. Era un lavoro duro, questo. Sì, perché in verità non sono mai riuscito a spiegarmi completamente da chi e da che cosa siamo attratti, che cos'è questa malattia, quest'orrenda abitudine, quest'irrimediabile perpetuarsi, questa discutibile necessità, questa voglia di vivere che la gente continua insistente-mente a portarsi addosso. Solo un male, un dolore pieno. Ma perché continuare a soffrire così? Perché?
Forse perché la nostra esistenza, questa fatica che ci sforziamo di protrarre al meglio, non si lascia assaporare appieno e immediatamente. Il suo gusto si perde nel tempo, si diluisce negli anni, tanto che il solo piacere che incontriamo è nel Passato che, vivo, di tanto in tanto viene ad allietarci il cuore. Sì, è la memoria l'unica scusante per continuare ad imporre al mondo la nostra presenza.
Ma quando non ricordi più?
Questo è il motivo, o se preferite la scusa, per cui con la testa caverò quell'occhio verticale. Per-ché il sapore mi veniva da laggiù, da lontano, dai ricordi della mia Connie che mi tenevano legato al Tempo che passa.
Il Presente è piatto, ostile, ostile anche se molle. Crudele, crudele anche se sordo. Cattivo, cinico, barbaro, abile nemico. Ma nel ricordo si può cambiare. Nel ricordo diventa malleabile, buono, e la nostra memoria riesce a rielaborarlo arricchendolo di particolari, di odori, di sapori, sfumando i contrasti, i litigi, le noie, addolcendo i dolori, le infamie, le incomprensioni, e rendendolo, sebbene soltanto nei ricordi, digeribile o addirittura stupendo.
Non c'è niente da fare, la Vita è solo narrazione, solo Passato.
Ecco, tutto questo in me non c'è più, si è perso.
Ora devo andare, il mio occhio verticale mi reclama. Addio. Non mi sveglierò più amici cari. Vado a raggiungere il vostro............………


III.


Norman sentì bussare e smise di scrivere. Si voltò immobile verso la porta. Non poteva essere Dirty, lui aveva le chiavi, non bussava mai. Aveva considerato la possibilità di fuggire via, lontano da lui, imme-diatamente, senza mantenere la promessa fatta. Ma poi si era sentito in colpa per averlo solo pensato. Aveva detto a quel vecchio che avrebbe terminato il libro e poi ascoltato le sue richieste.
Si avvicinò alla porta con fare circospetto. Non aveva spioncino e quindi fu costretto a chiedere a voce chi fosse.
- Sono un giornalista. - rispose la voce oltre la porta - Lei è l'unico del palazzo ad essere in casa. Può farmi un favore?
Norman aprì la porta e squadrò il “figuro” da testa a piedi. Era un ragazzo giovane, con un piumino senza maniche addosso e il viso accaldato. Lo fece accomodare.
- Grazie. Dovrei chiamare il giornale. Ci metto un minuto.
- Prende del caffè? - chiese Norman per cortesia.
- Oh sì, grazie. - rispose il ragazzo trafficando col telefono.
Norman lo sentì parlare per pochi secondi, poi udì la cornetta sbattere sull'apparecchio. La telefonata era finita. Data la velocità evitò di mettere il caffè sul fuoco e tornò in salotto a fare compagnia all'ospite, vedere se se ne sarebbe andato rinunciando all'intruglio nero. Si guardaro-no senza dir nulla. Poi il giovane cronista si schiarì la voce e proferì:
- Senti, devo dirti la verità. Io non sono qui per telefonare.
- Ah no? - disse Norman dissimulando la sorpresa.
- No. Sono qua per il tuo amico.
- Dirty? - chiese Bates sapendo già la risposta.
- Ah, è così che si fa chiamare. - disse il cronista.
- Perché, com'è che si chiama veramente?
- Lascia perdere. - rispose il giovane cronista eludendo la domanda di Norman. Si alzò dal divano e fece un giro nella stanza fermandosi davanti alla libreria.
Norman fece invece il giro del tavolo tenendosi lontano da quel ragazzo. Credeva fosse armato. Era troppo calmo per non essere sicuro delle proprie possibilità. Sicuramente stava cercando Dirty perché era in credito con lui per qualcosa. Ma cosa poteva dovergli un tipo come Dirty a un giornalista? Sempre se quel ragazzo era davvero un giornalista.
- Perché ti tieni lontano da me? - disse il giovane cronista - Su, avvicinati, non c'è niente per cui aver paura.
- Preferisco sedermi qua. - rispose Norman adagiandosi su una sedia dall’altra parte della stanza, a cinque-sei metri di distanza dal ragazzo. Quindi chiese - Ti deve molti soldi Dirty? No, perché io ne ho un po' con me, e siccome sono in debito con lui..………………
- Quello che mi deve Dirty tu non me lo puoi dare. - rispose il giovane cronista scrutando la libre-ria di Norman.
- Allora devo arguire che non è una questione di soldi. - domandò Norman guardando il pavi-mento.
- No, infatti. A Dirty era stato proibito di fare una certa cosa, ma lui se n'è fregato e l'ha fatta ugualmente. Io sono venuto per riprenderlo e riportarlo se non sulla retta via almeno in quella che gli compete. E' giusto che ciascuno di noi mantenga il proprio ruolo.
- E quale sarebbe? - chiese Norman - Voglio dire........Chi è Dirty? Un Agente dei Servizi Segreti americani che mi si è messo alle calcagna per ricattarmi?
- Lo scoprirai tu stesso chi è. - rispose il giornalista - E poi, perché mai dovrebbe ricattarti?
- Beh, anch'io come molti ho qualche sciocchezza da nascondere, e sicuramente non ho l'intenzio-ne di raccontarla ad un giornalista.
- Se è soggetta a ricatto non dev'essere propriamente una "sciocchezza", dico bene? - chiese il giovane cronista.
Norman ristette. Quel giovane cronista aveva qualcosa nel viso che gli ricordava qualcuno. Iniziò a pensare e, per un istante, sentì il nastro della sua memoria riavvolgersi velocemente.
- Vedo che sei un lettore accanito. - disse il giornalista guardando da vicino la libreria. Poi chiese - Il caffè?
- Non l'ho messo sul fuoco. - rispose Norman con voce tremante. Poi aggiunse - Finché starai qui Dirty non verrà.
- Scommetto che non hai nessun libro di Kerouac.
All'improvviso Norman ricordò chi era quel ragazzo. Sentì un tuffo al cuore e sobbalzò di sgo-mento.
- Ma tu sei.....................- balbettò Norman impallidendo.
- Sai, al giornale hanno fatto un casino del diavolo per quei ventimila dollari. Non è bello, signor Bates, prendere un compenso per un lavoro che non si è fatto.
- Come hai fatto a trovarmi così presto? - chiese Norman.
- E' stato un puro caso. Potrei dire che "lei" ha dimenticato il premio ricevuto a quella serata mondana, il "Gelato d'Oro", accanto ad una pietra miliare a poche decine di metri da un Istituto di Bellezza nel quale si recò a fare una plastica facciale, ma preferisco non farti carico di que-st'errore e illudermi, per qualche momento, d'essere un bravo giornalista.
- Cosa vuoi da me? - domandò Norman nervoso.
- Inizi ad essere monotono, Norman. Per ben due volte in neanche un minuto mi hai fatto la stessa domanda. Non devi avere la coscienza tanto a posto.
- E allora fai tre. Si può sapere che cazzo vuoi?
- Tanto per cominciare i ventimila dollari che il giornale ha addebitato a me. Per seconda invece, vorrei sapere dov'è andato quello stronzo di un barbone.
- Per i ventimila non c'è problema. Ma non so dove sia Dirty.
- Ah, non lo sai? - disse il cronista con una puntina d'ironia.
- No, non lo so. E poi, adesso che conosci la mia identità?
- Norman, non me ne frega niente di te. Se posso darti un consiglio, dovresti costituirti. - rispose il cronista.
- Altrimenti? Vai a denunciarmi?
- Te l'ho appena detto, - rispose il giovane cronista - tu m'interessi, ma non come credi.
- Potrei anche ucciderti, sai? L'ho già fatto, e potrei......……………
- Rifarlo? - lo interruppe il ragazzo - No, smettila Norman, non impressioni nessuno. Tutto sei tranne che un assassino, lo sai benissimo.
- Questa l'ho già sentita. - disse Norman - E comunque ora non posso costituirmi, devo mante-nere una promessa.
- A Dirty? Lui le promesse le mantiene solo se ci guadagna qualcosa.
- Con me non è stato così. Mi ha aiutato.
- E quale promessa dovresti mantenere?
- Ho promesso di terminare un libro sulla mia storia: Stavo facendo questo quando hai bussato. Soltanto dopo Dirty mi farà la sua richiesta. - rispose Norman.
Il giovane cronista sorrise scuotendo la testa, come se già sapesse quali erano le intenzioni del vecchio barbone. Si alzò, calmo. Si passò le mani sui capelli corti, rasati di fresco. Fece girare la testa, come per controllare la disposizione dei mobili, delle cose. Poi riportò lo sguardo su Nor-man.
- Va bene. Io ora me ne vado. Forse hai ragione tu, quel vecchio schifoso non tornerà finché starò qui ad aspettarlo. In quanto a te, ripeto il mio consiglio; costituisciti Norman. Solo così potrai placare il tuo rimorso e non perdere tutto quello che nella tua vita hai costruito.
- Come sta la piccola Kate? - chiese Norman con voce triste.
- E' stata messa in una casa di cura. - rispose il giornalista - Ma questo non è affar tuo. E' seguita costantemente da tutti quelli che le vogliono bene, e il suo ragazzo la sposerà ugualmente.
- Ecco vedi? - disse Norman - Questo ha il potere di convincermi che non ho sbagliato a fare quello che ho fatto. Quel porco meritava ciò che ha avuto.
- No, sbagli. Non puoi andare in giro a dare coltellate nella pancia della gente solo perché sei in-cazzato con loro.
- E perché no?
- Hai mai giocato a palla avvelenata Norman? - disse il giovane cronista - Ecco, quel gioco è molto simile alla vendetta consumata contro un assassino; chiunque lo tocchi rimane avvelenato.
- Anche se è un bastardo stupratore?
- Norman, tu non puoi arrogarti il diritto di essere l'Angelo Vendicatore. Sangue porta sangue, e sofferenza chiama altra sofferenza. Se Bert meritava di morire per quello che ha fatto, credi dav-vero che non sarebbe morto? Nessuno deve toccare Caino, ricordi Norman? Chiunque lo tocca dovrà rendere conto del suo errore. Se la povera Kate aveva diritto alla giustizia, ora, per mano tua, quel diritto ce l'ha anche Bert Foster, il suo stupratore. Chi uccide un assassino è un assassi-no anch'egli. Non fa altro che perpetuare un errore. La punizione più grande per un assassino è il rimorso che lo tortura per tutta la vita. Quello stesso rimorso che tu hai strappato dal cuore e dalla testa di Bert per inserirlo nel tuo cuore e nella tua testa e farti torturare da lui fino a che non rimedierai. Costituisciti Norman. Solo così potrai salvarti.
Norman cadde sulla sedia e cominciò a piangere. Quegli stessi diritti per cui aveva sempre lottato e in cui aveva creduto quando, in città americane, marciava contro la pena di morte, ora li aveva violati. Com'era successo? Ormai, quasi, non se lo ricordava.
Tirò su la testa per cercare gli occhi del giornalista, desideroso di essere perdonato, ma questi, alla chetichella, se n'era andato lasciandolo da solo a farsi divorare dal rimorso. Dopo qualche minuto si riprese. Fece una doccia e si preparò qualcosa da mangiare, sempre pensieroso.
Verso le prime luci della mattina maturò la decisione di fuggire. Fuggire lontano, da tutto e da tutti. Dirty non era ancora tornato, così decise di scappare anche da lui. Il libro, che stava per finire, sarebbe servito a chiedere perdono all'umanità, a chiedergli d'essere dimenticato. No, non lo avrebbe pubblicato a scopo di lucro, ma avrebbe lasciato tutti i proventi alla piccola Kate e alla sua famiglia.
Preparò velocemente i bagagli prendendo solo l'indispensabile, alcuni vestiti e la borsa coi soldi, e un minuto dopo era fuori dal portone. Si avventurò nei campi. Non ci mise molto ad arrivare in stazione, ma non prese il treno. Chiamò il taxi e si fece portare al porto di Brindisi. Decise di dirigersi prima di tutto in Albania.

DI NUOVO IN VIAGGIO

I.

Quel che riteniamo essere il nostro rapporto con l’umanità, può prendere strade diverse, alcune più tortuose di altre. Vediamo il mondo e i suoi abitanti come qualcosa che ci tocca da vicino, ma non ci prestiamo quasi mai a quella reciprocità che ogni rapporto stabile e vero prima di tutto dovrebbe avere, piuttosto usiamo il mondo in nostra funzione, secondo le priorità che nel mo-mento abbiamo. Questi canoni d’approccio s’inseriscono perfettamente nella visione che degli altri ci siamo fatti, che a volte somiglia a qualcosa di astratto, e altre, invece, a strumenti per cui l’usufrutto solo saltuariamente ci interessa. Molto dipende dal nostro stato d’animo. Non è raro reagire in due maniere diverse alla stessa ingiustizia, e non è raro credere di avere in quella stes-sa ingiustizia due ruoli diversi, opposti; in un’occasione menefreghisti, e in un’altra spassionati fi-lantropi.
Non so dire quale dei due comportamenti sia giusto, ma certamente il fatto di comportarsi in ma-niera opposta ci fa capire che in realtà nulla dipende dalla situazione in sé, ma piuttosto dallo stato d’animo che nel momento ha chi reagisce. Perché succede questo? Siamo forse vigliacchi, o al contrario impavidi, a corrente alternata?
Non propriamente. Molto spesso la nostra capacità d’astrazione ci impedisce di prendere a cuore situazioni che in altri casi non avremmo il coraggio d’ignorare. Non è un male, questo, perché se così non fosse vivremmo da cani gran parte della nostra esistenza, giacché siamo giornalmente circondati da carogne e carognate, e preoccupandocene non faremmo altro che soffocare inutil-mente il nostro cuore di drammi, accorciandoci la vita.
Dunque la nostra capacità di reazione è legata a corda doppia al nostro stato d’animo, stato d’ani-mo che può essere sovreccitato dall’interesse che in quell’ingiustizia abbiamo, e che in un altro caso può essere inibito dalla completa indifferenza.
Norman iniziò a pensare a come arrivare in Albania con quella borsa piena di soldi. Giunto al por-to aspettò che il Bar di fronte aprisse. Alle cinque giunse il padrone. Tirò su la saracinesca ed en-trato accese le luci del locale. Norman gli s'infilò dietro e azzardò una domanda al proprietario. Gli chiese se conosceva qualcuno disposto a portarlo dall'altra parte dell'Adriatico. Questi, dopo aver tergiversato mezzoretta e vedendo che Norman, non avendo ottenuto risposta e terminato il suo Bourbon, stava per andarsene, gli disse di attendere cinque minuti e andò a fare una telefonata. A chi, dall'altra parte del ricevitore, gli rispose parlò a voce bassa.
- Sì. Vuole partire immediatamente. - disse il barman al suo interlocutore telefonico - Offre cento milioni subito e in contanti. Va bene. - aggiunse l'uomo mettendo giù la cornetta.
- Ha detto di aspettare, arriva subito.
Lui annuì e si mise a sedere ad un tavolo. Naturalmente dopo aver ordinato un altro Bourbon. Non era un bel vedere. Un uomo ancora abbastanza giovane, seduto, alle otto del mattino, ad un tavolino con un Bourbon sopra, spettinato, con gli occhi rossi per la notte in bianco, e che si tra-scinava dietro due borse proprio come un venditore ambulante, tutto poteva essere tranne che uno scrittore borghese agiato.
Confortato a quel tavolo, pensando al futuro che lo attendeva, iniziò a richiamare alla memoria il passato. Gli tornarono in mente alcuni ricordi di quando aveva appena iniziato a scrivere. Rammentò che da principio aveva una certa difficoltà a digerire la sua scrittura, la sua calligrafia e gli errori commessi quando batteva a macchina. Ad accettare il numero dei punti (“Joyce ne mette venti per pagina, Proust uno ogni due”, si diceva), che quelle virgole fossero le “sue” vir-gole (“Pavese spesso mette la virgola dopo il soggetto, Gadda, alcune volte, i due punti prima”, considerava), a credere che ci fossero ragioni valide per la sua sintassi, che gli era sempre parsa sbagliata, per i periodi, eccessivamente corti, per alcune frasi che la sua mano liberava su carta lottando strenuamente col suo pensiero. Si rammaricava di non riuscire a pensare a frasi, ed il fatto di dover tradurre le immagini dei suoi pensieri in parole, lo spingeva ad invidiare chi, come molti scrittori, invece riusciva a farlo senza alcuna difficoltà. Col tempo se ne fece una ragione, e, non so se a torto, si convinse che quello che credeva sbagliato, difficilmente capibile e contorto, fosse il suo stile.
Poi pensò a sua madre, e la ricordò più giovane di come l'aveva vista l'ultima volta sul letto di morte, divorata dal cancro. Ricordò il suo strano modo di ridere, tutto per traverso, le volte che da piccolo, quando aveva fatto qualche marachella lo aveva picchiato col battipanni, e perfino il suo vestito blu a fiori, che non amava particolarmente, e che metteva solo per far piacere a suo marito, il padre di Norman. Ed ecco che proprio lui s'infilava, come spesso gli accadeva quando tentava di ritrovare sua madre nei ricordi, dentro quelle rimembranze, reclamando, burbero come sempre, un po' di considerazione. E allora, dato che già c'era, ripensò anche a suo padre. A quell'uomo che vedeva rientrare dal lavoro ancora oggi, nonostante fosse morto da dieci anni ormai. La sua tuta blu, che toglieva soltanto il Sabato, quando smetteva di lavorare, a mezzo-giorno, e come parlava della fabbrica, la Goodyear, dicendo “da noi” oppure “la mia fabbrica”, come se in realtà non fosse un operaio ma un membro del Consiglio d'Amministrazione. A volte riusciva addirittura a sentire ancora la puzza della gomma dei pneumatici che si portava insisten-temente addosso, e che comunque Norman preferiva a quella del suo alito, flaccido di tabacco.
Ripensò a Valentina, l'ultima ragazza che aveva avuto, così tremendamente ingenua da non ca-pire neppure quanto bella fosse. Ma ogni volta che ripensava a lei sua madre s'intrometteva den-tro quei ricordi, sebbene fosse così diversa e nulla la accomunasse all'ultimo amore di suo figlio.
Stratagemma freudiano o osmosi incestuosa? Ne sorrise.
L'amore che voleva a sua madre somigliava da vicino a quello che lo riempiva quando leggeva un libro, cosa c'entrava con Valentina?
Aveva evocato lei forse solo perché sentiva l'astinenza sessuale, e il fatto di avere quella donna nei pensieri un po' gliela calmava. Erano mesi che non toccava una donna. Non gli era successo da così tanto tempo che quasi si sentì vecchio e senza più possibilità fisiche.
Tutto il successo che aveva avuto lo rendeva ormai un personaggio mitico. La gente lo ricordava come durante i Festival si ricordano quegli artisti morti in povertà. Chissà, forse fra qualche anno avrebbe anche ricevuto un premio “alla carriera”, escamotage del mondo dell'arte per mostrare all'intera umanità che gli artisti sono diversi, che si ricordano dei loro morti. In realtà si sentiva, come scrisse Cèline, "un lampione messo su una strada dove ormai non passa più nessuno".
Come si rammaricava oggi di non aver sfruttato fino in fondo la sua popolarità per tentare di cambiare qualcosa. “Solo chi riesce a mutare qualche stato vigente rimane nelle memorie della gente”, sorrise. Aveva avuto in pugno un potere che oggi si rammaricava di non aver gestito me-glio. Era giovane, poteva spaccare i monti, prosciugare gli oceani, essere amato da milioni d'in-dividui non per un giro di giostra come può essere un libro, ma per aver migliorato la vita pratica delle persone, per aver dato, per aver amato.
Le nostalgie non afferrano le mani di chi ride, ma di chi piange. Non implorano mai il senso co-mune del gaudio, ma solo le sofferenze. Le nostalgie vengono a chi ha perso qualcosa. Un mare mosso d'Inverno, la pioggia che picchetta i vetri delle finestre, un ragazzo morto in una piazza, un pazzo che canta, un altro chiuso dietro un cancello, non provocano mai contrizioni in chi ha tutto, ma in chi non ha niente.
Ecco come si vedeva. Incompiangibile. Aveva avuto tutto dalla vita, e di quel tutto aveva goduto, ed ora che per il mondo era morto si era reso conto che la sua vita non è mai dipesa da quello che aveva. Pensò che la sua vita era stata un lungo questuare, e proprio come i questuanti aveva finito per farsi aiutare da un suo simile, un barbone che forse era più meritevole di lui. La sua ispirazione era stata presa a nolo, adesso lo capiva. Forse con l'atto d'infilare un coltello nelle carni di un uomo come lui, tutta la sua inventiva era evaporata, o forse si era solo trasferita nel cervello di un altro scrittore, giovane, passionale, che scrive per divertirsi e non perché deve ricercare qualcosa che non sa d'aver perso. Come lui. Come Bert. Come tutti i cialtroni che si spacciano per artisti ma che non sanno ridere di sé stessi, che non hanno mai pianto per una donna o per un brutto voto preso a scuola.
In quel tavolino pensò che avrebbe fatto meglio a bruciare tutti i suoi scritti prima che fossero divulgati. I lettori non sanno di godere per le vanità di uno scellerato che da loro viene innalzato ad originale, ad anticonformista, a contenitore di mille anime diverse. Un uomo con un'anima non uccide un altro uomo. Un uomo senz'anima non è un uomo.
Subito gli venne in mente Bert. Avrebbe voluto piangere, piangere per provare a sé stesso e a Dio che era pentito per ciò che aveva fatto, ma non ci riusciva. Bert non era un uomo, non com-pletamente. Era più una figura che lo legava ad un odio stupido, da bambino, un odio che finisce per divorare il suo proprietario, come quei cani col cranio troppo piccolo per sopportare l'onto-logia del loro cervello.
Guardò un uccellino che, sceso in picchiata da un albero vicino, saltellava intorno ad un casso-netto dell'immondizia sbecchettando qua e là briciole di scarti organici fuoriuscite da sacchetti maldestramente gettati. Ne sorrise, e subito riaffiorò nella sua mente lo stratagemma studiato per il finale di uno dei suoi libri migliori, “A pranzo da Mrs. Hawkins”, nel quale l'assassino en-trava e usciva senza armi addosso dai posti in cui commetteva gli omicidi, perché aveva am-maestrato una gazza a rifornirlo bellicamente quando ne aveva bisogno.
Inverosimile.
Com'erano inverosimili tutti gli altri gialli, che lui in gioventù sovranamente disprezzava, dove donne abbattevano decine di uomini nelle risse, dove i “nostri” erano sempre puntuali, e dove la fortuna ci vedeva benissimo e ogni volta andava a premiare i poveracci.
Come faceva la gente a mandare giù quelle esagerazioni? Ancora oggi se lo chiedeva. E come faceva la critica a considerarli dei “libri bellissimi”!
Lui, che ormai era considerato dal mondo intero l'anticonformista per antonomasia, si rendeva conto di aver fatto una sola azione davvero nobile e originale. Sei anni prima era stato premiato a Parigi. “Lo scrittore dell'anno”. Aveva ritirato il premio, ringraziato col solito rituale della “lin-guaccia”, e poi era andato via.
Uscito da quella kermesse non si era diretto in albergo, ma era andato a piedi fino al Père LaChaise, che era chiuso. Aveva scavalcato e deposto il premio appena ricevuto sulla tomba di Marcel Proust. Gli piaceva ricordare quel gesto perché non era stato premeditato ma istintivo, e poi perché rimase sconosciuto. Probabilmente quell'attestato di merito fu raccolto da qualcuno che l'aveva fatto incorniciare e dopo averlo appeso in salotto se ne vantava spacciandolo per pro-prio, ma a Norman non interessava. Lui era a Proust che l'aveva da-to.
Dopo una mezzora arrivò il “traghettatore”. Era un biondino sui venticinque anni, albanese. Aveva iniziato a fare il contrabbandiere portando in Italia carichi di sigarette dal Montenegro, ma poi si convertì alla tratta dei clandestini. Si guadagnava molto di più. Col suo italiano stentato si rivolse a Norman chiedendogli:
- Dove vuoi andare?
- In Albania, per il momento. - rispose Norman.
- Ho capito, ma dove? Al nord o al sud?
- Basta che mi scarichi vicino a Durazzo. Ho un appuntamento. – mentì Norman - Verso le otto di questa sera. Se riesci a portarmi di là..........................
- Si può fare, si può fare. A Durazzo allora.
- Per il compenso? Quanto vuoi?
- Quello che hai detto al barista mi va bene. Erano cento milioni vero? - chiese l'albanese.
- Non sono un po' troppi per attraversare un braccio di mare?
- Sei da solo. Se eravate in tre o quattro, o anche di più, ti sarebbe costato meno.
- Va bene. - disse Norman con una smorfia - Però voglio partire subito. Ho una certa fretta.
- Okay. Io sono Racak. - disse l'albanese allungando una mano.
- Piacere. - rispose Norman stringendola ma evitando di dire il suo nome. - Dai, andiamo?
- Vieni. Bisogna fare un paio di chilometri a piedi.
Norman non si fidava più di tanto. Sapeva che la mafia albanese è pericolosa. S'incamminarono sul lungo mare brindisino. Il vento era forte e spazzava la strada e i capelli dei due, ma procurava sollievo dal sole cocente, duro come un torrone dell'anno prima. Giunti davanti ad una spiaggia libera, andarono verso il mare incespicando sulla sabbia bollente. Norman sudava. Aveva con sé due bagagli, la valigia dei vestiti e quella dei soldi. Camminarono sulla sabbia fino all'imbocco di un'insenatura nella quale, fra due scogli, coperto da una specie di capanna, un'imbarcazione li aspettava ballando al ritmo del mare. Era un motoscafo nuovo, di quelli da competizione.
Racak disse che al massimo fra un'ora e mezza sarebbero stati dall'altra parte, a Durazzo. Caricò il serbatoio vuotandoci dentro due taniche di benzina, e, dopo averlo scrollato un pochino, lo accese. Il fumo nero, denso, della messa in moto si dipanò subito. Norman salì e si sistemò dietro. Racak partì, e cinque minuti dopo erano al largo, ad inseguire la linea sottile e vacua del-l'orizzonte che, come un sogno irraggiungibile, continuava a spostare il suo confine più in là. Norman abbandonò i bagagli dietro e si portò davanti, accanto al sedile di Racak.
- Se non sono troppo indiscreto, - disse l'albanese - mi vuoi dire cosa ci vai a fare in Albania? Quelli di là hanno come unico scopo della loro misera vita quello di raggiungere l'Italia e tu fai il percorso inverso?
- Sei indiscreto, se me lo chiedi. - sorrise Norman - Devo concludere un grosso affare. - mentì.
- Quale affare, sigarette?
- No, eroina. - rimentì Norman - Un paio di chili.
A queste parole l’albanese tacque. Certo, non era vero. Norman ave-va detto quella balla con la convinzione che se Racak avesse creduto di aver a che fare con un narcotrafficante, prima di fregarlo ci avrebbe pensato due volte. La mafia albanese è dura con chi manda a monte i loro affari.
Da quell'istante l'albanese non toccò più quell'argomento.
Il motoscafo fendeva l'acqua e il vento i loro capelli. L'eccessiva luce bruciava gli occhi di Norman e il calore del sole la sua faccia. Lo scintillio delle onde sembrava una nuvola di pigmenti bianchi cullata dal vento, e le onde del mare, basse e tuttavia mobili, parevano quasi voler divertire l'imbarcazione dei due naviganti. La calma del mare strideva con la forza del vento come un pezzente al ballo delle debuttanti. Incontrarono qualche peschereccio che lanciò contro di loro chiare minacce e volgari improperi destinati alle rispettive madri, perché stavano passando fra le reti, gettate la notte prima, piene di pesci all'uranio impoverito.
- Guarda là. - disse Racak a Norman indicando un motoscafo carico di persone infreddolite che andava in direzione opposta alla loro.
- Chi sono? - chiese Norman.
- Clandestini kosovari che vanno in Italia. - rispose l'albanese.
- Saranno una ventina. - constatò Norman - Ma ce la farà?
- Sì, anche se rischia di andare giù. Pagano un milione e mezzo a persona. Arrivati di là verranno scaricati ad una ventina di metri dalla spiaggia. Gli scafisti hanno paura di avvicinarsi troppo, rischiano di essere catturati dalla Guardia di Finanza italiana. Appena il motoscafo li molla torna indietro immediatamente, e loro dovranno fare a nuoto gli ultimi metri.
- E cosa ci vanno a fare in Italia? - disse Norman ingenuamente.
- A terra li attenderà un tran tran burocratico. Verranno messi in campi di accoglienza. Molti si fingono malati e si fanno ricoverare in ospedale convinti che in quel modo sarà più facile ottenere il Visto di Soggiorno, ma non è vero. Per almeno la metà di quelli che arrivano l'Italia ha già preparato il rimpatrio. Così avranno speso tutti i loro risparmi per niente. L'unica maniera per riuscire a non essere reimbarcati è scappare di notte dai campi di accoglienza e andare al nord, a fare la vita del clandestino.
- Ma perché vanno proprio in Italia? - insisté Norman.
- Perché guardano troppo la televisione. - sorrise Racak - Vedono i programmi della Tv italiana e si fanno l'idea che l'Italia sia una specie di Eldorado. Ma dopo i primi mesi capiscono di esser stati presi in giro sia dalla mafia albanese, sia dal governo italiano, sia dalla Tv, e allora molti fuggono cercando di raggiungere parenti e amici in Germani, Svizzera e Francia.
Norman seguì quel motoscafo stipato di poveracci fino a quando questi non fu lontano. Pensò che la mentalità del “lusso a credito”, l'ambizione sociale, sproporzionata rispetto alle proprie possi-bilità, fosse più pericolosa dell'eresia di un Papa. Molti rimangono affascinati dalla mondanità vista alla Tv, e si convincono che quella sia la vita vera, e che tutti quelli che non la fanno siano dei poveracci, solo un ingombro per il pianeta. Ma la verità è che si è perso il realismo di guardare in basso. Si guarda sempre e solo in alto, ed è così che si finisce nella merda.
Il racconto di Racak ricordò a Norman le scene di disperazione viste alla Tv in America, quando al confine messicano si assiepavano migliaia di speranze di vita. O quelle altre d'inizio novecento, quando le navi provenienti dall'Europa scaricavano sulle coste e sui porti dell'est statunitense centinaia di profughi, malati, sporchi, mal vestiti, mal nutriti, famiglie tenute insieme da decine di giri di spago, esattamente come le loro valigie di cartone nelle quali portavano gli avanzi della loro povertà. Ma in America c'era lavoro e possibilità per quelle migliaia di straccioni, mentre in Italia, e più in generale in Europa, la disoccupazione è il più grave problema che affligge le società.
Norman, sentendo queste storie di povertà, pensò che la frase di Kant, “Bisogna trattare l’uomo come un fine, mai come un mezzo”, non è mai stata così trascurata come lo è oggi. Andarsi incon-tro in questo tempo tremendo è sempre più difficile, e non per la “paura del diverso”, ma più che altro per il timore di perdere quel poco che si ha. L'idea di Economia, di Mercato, ha fatto retrocedere l'uomo nell'immaginaria scala delle priorità, e chi alimenta la guerra fra poveracci, la competizione fra morti di fame, è proprio l'Economia, che esacerbando la ricerca spasmodica del benessere fittizio sponsorizzato dalla Tv in una specie di osmosico scambio, porta il povero di mezzi, terrorizzato dall'essere lasciato indietro, ad accontentarsi e chiedere sempre meno, incoraggiando e alimentando una competizione verso il basso.
Dopo quasi due ore di viaggio giunsero davanti alla costa albanese.
Racak mise il motore al minimo e si avvicinò, come guadando, ad un gruppo di scogli non molto alti. Norman aprì la borsa e, preso in mano un mazzo di banconote, contò cento milioni e li porse a Racak. Sapeva d'essere stato “derubato”, ma se ne fregò. L'albanese si allargò in un sorriso, intascò il denaro e diede la mano a Norman. Poi accostò il motoscafo al gruppo di scogli in modo che l'americano potesse sbarcare. Una volta a terra gli lanciò i suoi bagagli, e, dopo aver virato, ripartì verso l'Italia salutando.


II.


Per fortuna di Norman nel posto in cui sbarcò non c'era anima viva. Così lanciò una moneta e scelse la direzione da prendere. Iniziò a camminare. Non sentiva la mancanza di un’automobile, nonostante fosse abituato a viaggiare col culo a riposo. Si stava disassuefacendo alla Tecnologia. La strada, che costeggiava il mare, era sterrata e affiancata verso l'interno da una misera cam-pagna fatta di rovi e cespugli bassi. Non si stava male, malgrado il sole picchiasse duro. I ricordi, senza che lui facesse nulla per evocarli, gli andarono incontro riportandogli indietro la figura snella e attraente della sua Valentina.

“Perché te ne sei andata?”, pensò Norman. “Non ti davo abbastanza? E cosa volevi ancora? I tuoi ventiquattro anni non avevano visto nulla della vita. Dicevi di amarmi da morire. Che risate mi facevo quando lo dicevi! Tu non capivi cos'era l'amore come non capivi cos'era la morte. Come tutti noi del resto. Non sono cose che si possono apprendere dai libri, quelli di cui tu mi accusavi d'essere appassionato, perché mi sottraevano il tempo da vivere con te. Però avevi ragione. Non ce lo può dire un Sarte, che cos'è la Morte. E neanche un Pavese, nonostante si sia suicidato. E neppure chi si è lasciato morir d'amore, poverino, come il mio preferito, Marcel Proust. Pe-rito. Coi suoi ricordi che l'han reso famoso, con la sua “memoria involontaria”. “Che Cristo un giorno si decida a spiegarci cos'è”, dicevi. Non ce lo può spiegare Curzio Malaparte, povero disilluso, per-ché lui ha lottato contro la morte sotto la sua deviazione peggiore, la privazione della libertà. Forse avevi ragione tu. Era questo il nostro rapporto, amor perduto. Una sfida lanciata alle convenzioni, alla vita, ai presunti nostri vizi e alle supposte virtù altrui. Perché un uomo della mia età fa scandalo se si mette con una ragazza più giovane di lui? E' sempre successo! Ma era l'invidia intorno a noi ad esacerbare gli animi nostri. Così le tue amiche ti hanno spronato a chiedere sempre di più. E fra le prime Kelly, che era gelosa di te, che mi voleva tutto per sé. Non avevi capito, amor perduto, che io sono un uomo diverso dagli altri, che non mi faccio mettere sotto, che piuttosto soffro, perché sono capace di soffrire. Quando l'hai capito era troppo tardi. Ormai avevi detto che te ne andavi, e, da testarda qual eri, non potevi più tornare indietro. L'orgoglio è il marciume dell'umanità, e anch'io ne sono gonfio.
“Sei carino”, mi avevi detto la sera che per la prima volta facemmo l’amore. Io ne sorrisi. Le donne che si mettono con te perché ti ritengono “carino”, dopo qualche mese ritengono “carino” qualcun altro.
Ricordi quando il pomeriggio del centenario della mia casa editrice mi hai detto di dimostrarti il mio amore? Volevi che facessi un colpo di testa, una stravaganza che da te non mi sarei mai aspettato. Scappare. Scappare via, scappare insieme, lontano. Ma perché? Non ti andava bene così? Se tu mi vedessi ora, amor perduto, rideresti come una matta, sempre ammesso che tu non lo stia già facendo.
Certo, da una donna più giovane dovevo aspettarmelo. Oggi siete diventate maestre nel com-plicarvi la vita. Ti ricordi quando ci siamo conosciuti? “Scusi signore”, mi dicesti, “si volti un momento, ha una macchia di gesso sul cappotto”. Mi ero appoggiato al muro dell'albergo dove lavoravi, e quel “signore” mi è rimasto nel cuore più della tua faccia. Ma mi avevi voltato per pulirmi con un colpo secco della mano, non per darmi una coltellata. Perché quel fuggire, per uno come me che è costretto a vivere da pantofolaio, questo voleva dire, la morte. Ecco, oggi lo puoi vedere. Non eravamo fatti per partire, in fondo lo sapevi benissimo anche tu. Eravamo fatti per restare, e forse siamo davvero rimasti.
Ti abbottonavi forte quel pomeriggio, e non capivi che ti volevo ancora. Ma tu mi chiedevi di più. Un rapporto stabile e tranquillo. Oh, che ingenua eri. Chiedere tranquillità ad uno come me, dal quale tutti si aspettano turpiloquio, risse e sproloqui. Quelli erano discorsi da fare ad altri uomini, amor perduto. Ti guardai e vidi che eri improvvisamente cresciuta. Sembravi una donna. Ci somigliavi troppo. Nel parlare, nel far l'amore, nel chiedere sempre di più, nelle tue gambe da donna. Troppo da donna.
Forse era una figlia che volevo, non un amante. Una bambina alla quale poter insegnare tutti i segreti della vita, cosa che con te non potevo più fare perché quasi ne sapevi più di me, doppia-tore dei tuoi anni.
- Vale, non scapperò mai con te. - risposi quel pomeriggio.
Il tuo visetto diventò scuro, i tuoi occhi si riempirono di lacrime, e per un breve istante tornasti ad essere quella bambina che mi aveva affascinato. Guardando le tue lacrime correre giù dal viso mi eccitai. Avrei voluto rifare l'amore, amor perduto. Un'altra volta. E ancora, ancora, fino a quando fa male, fino a quando riuscivi a mantenere quel visetto imbronciato di quindicenne. Ma le lacrime passano purtroppo, si asciugano, evaporano, si dissecano per sempre, e per un bel po' di tempo non se ne hanno più da versare. Come non ne ho più io per colpa tua. Come non ne ha più il mondo per colpa del mondo. Forse non avrei potuto amarti per tutta la vita, ed è per questo che non sono tornato indietro, quel pomeriggio. Non potevamo restare a quel “signore”? No, tu hai voluto coinvolgerti di più, hai voluto amarmi. A me non fa niente bene essere amato molto. L'avevo provato, una volta. E poi una seconda, e una terza. Non ne avevo più da dare, di amore. Ma tu volevi essere amata. Come se te lo dovessi. Io ero solo il tuo amante, non tuo pa-dre. I padri amano all'infinito. Perfino i padri degli assassini. Ma io non ero tuo padre. Un padre costruisce l'avvenire dei suoi figli, io potevo solo distruggertelo.
- Tu non mi ami. - mi hai detto.
Cosa potevo risponderti, amor mio perduto? Che non lo sapevo? Che forse avevi ragione, io non ti amavo? Avevo paura di ferirti. Io, che ti avevo visto così forte e che quel pomeriggio ebbi il timore di ucciderti con la semplice risposta delle mie labbra. Una semplice, piccola quanto atroce verità. Quella di non essere da me amata. Per lo meno non come volevi. Sono stato egoista? Ma cos'è l'egoismo se non la strada più breve per appagare i nostri più segreti desideri?
Sì, sono stato egoista. Come lo sono stati con me, niente di più. Si sa, qualcuno deve pagare. Spesso per colpe che non sono le sue. La vendetta è cieca, non tiene conto delle facce, delle persone. Non ha mira la vendetta. Coglie a casaccio. Così succede spesso che ricambiamo l'ingiu-stizia subita non alla persona che ce l'ha propinata, ma a qualcun altro. Un'innocente. Come noi. Come tutti. E' la legge della sopravvivenza. Per scaricare la nostra rabbia, il nostro rancore, la nostra incertezza, la nostra paura, qualcuno deve pur avere la sfortuna di caricarsele tutte quante sulle sue spalle. Per diventare ricchi qualcuno bisognerà pur depredare, così come per essere felici qualcuno si deve sacrificare, soffrendo al posto nostro. Purtroppo eri tu, Valentina mia, quel qualcuno.
L'amore complica le cose. Quando iniziasti ad innamorarti di me io capii di averti perso definiti-vamente. Non saresti più tornata ad essere l'oggetto che eri nei miei sogni perversi di quaran-tenne. Oggi ho capito di averti amata anch'io. Forse più di te, che avevi bisogno di fuggire con me per dimostrarmelo. Del resto dove mai saremmo potuti andare? In Inghilterra? Dove la Thatcher, di destra, aveva tolto il lavoro ai minatori, e Tony Blair, di sinistra, oggi finisce il lavoro sporco abbattendogli le case con le gru? Oppure fuggire insieme in Francia, per “farlo alla francese”, o in Spagna per eccitarci con le corride? O forse avremmo potuto restare in Italia, a guardare i governi che cadono. La bellezze di cinquantanove in cinquantacinque anni di demo-crazia. La media di uno ogni nove-dieci mesi. Cosa può cambiare un governo in dieci mesi? Nulla.
No, non ti avevo mai chiesto di amarmi Vale, Dio mi è testimone. Era il tuo corpo che volevo, non il tuo cuore. Almeno, all'inizio. Coi giorni desiderai anche il tuo spirito, forse perché in realtà era quello che m'interessava. Alla mia età non si sa che farsene dell'amore. L'impotenza è lì, sempre più vicina, che ti minaccia con la sua “estrema unzione”. Scusami, amor perduto, se non sono stato capace di amarti, ma sono solo un maschio, lasco, marcio. Forse un artista, a cui nessuno rinfaccia niente. Neanche la vita, neanche la morte.”



Pensando giunse in un paesino. Non badò al suo nome e vi entrò.
C'era un campo nomadi, e di fronte palazzi vecchi e fatiscenti, con, ai piedi, un campo di soldati italiani. Il terreno non era asfaltato, e coriandoli di polvere, spazzatura per cani, e pezzi di cespugli perduti dai rovi, venivano sballottati dal vento. Una musica cara e dolce arrivava dal campo dei soldati. Norman, camminando in quella miseria, riconobbe in quelle parole il dialetto napoletano.
Continuando a camminare superò la periferia, ed arrivò nel centro di quella piccola cittadina. Se ne accorse da come era fatto il terreno. Nonostante avesse larghe macchie di verde e buche profonde, era comunque asfaltato, e le facciate dei palazzi erano più nuove e curate di quelle viste pochi chilometri prima.
Dappertutto soldati dell’ONU davano un senso appropriato a quella Babele. Bambini stavano gio-cando a soccer in mezzo alla strada, fra incroci, tenendo d'occhio i semafori. Gli adulti non aveva-no niente da fare e bighellonavano, tristi e sorridenti, all'entrata di caverne che solo loro, ambi-ziosamente, potevano avere l'ottimismo per chiamare “Bar”. Ogni tanto passava qualche mac-chinone, proprietà di mafiosi del luogo o di politici corrotti. Pareva quasi che la popolazione fosse divisa in due; da una parte i poveri miserabili, quelli a cui nessuno pensa mai se non per com-piacersi altruisticamente, ai quali gli si rapisce la figlia tredicenne per mandarla a battere i mar-ciapiedi dell'Europa opulenta, e poi gli altri, i miserabili veri, che sfruttano i loro concittadini, che trafficano droga, armi, sigarette, automobili e clandestini. In tutti quei visi una sola compagna fedele; la paura. Paura portata dalla sfortuna di nascere qui, portata dall'impellenza di vivere.
Qualche anno fa si diceva che le città albanesi, Durazzo, Valona, Ti-rana, Argirocastro, Scutari, per la presenza dei soldati dell’ONU e delle organizzazioni umanitarie internazionali, fossero diventate quasi benestanti. Valona era soprannominata “la Saigon dei Balcani”, per la confusione, certo, ma anche per i traffici loschi che vi si svolgevano. Poi la guerra in Kossovo finì. Quasi tutti gli stranieri tornarono a casa, le televisioni spensero i riflettori, i soldati si spostarono dentro il Kossovo, e tutto tornò come prima, miseria compresa. Quell'Eden fittizio era svanito, così com'era iniziato, dal giorno alla notte, e la voglia di emigrare, dopo aver vissuto in una parvenza di benessere, si fece ancor più grande.
Si fermò in un chioschetto a prendere una Poca Roba.
- Sa mica se posso trovare un albergo? - chiese al padrone.
Questi gli indicò una strada lontana un centinaio di metri. Norman ringraziò e dopo aver fatto qualche passo si accostò ad un bambino con pantaloncini e maglietta della Juventus marroni di fango, e gli regalò la lattina di quel misterioso intruglio. Dopo pochi minuti aveva uno stuolo di bambini sporchi alle calcagna che gli chiedevano di tutto; spiccioli, sigarette, fiammiferi, qualcosa da bere o da mangiare, un oggetto qualsiasi da mostrare come trofeo. Qui la questua è una competizione senza esclusione di colpi. Dopo una decina di minuti di sopportazione, Norman lan-ciò al gruppetto un urlo leonesco, e questo si dileguò in un batter d'occhio. Ci vuol poco a spaven-tare i bambini, soprattutto se sei un assassino.
Consumò la strada verso l'albergo quasi fosse un centometrista. Arrivato nel luogo indicatogli dal padrone del chiosco, fece ruotare la testa alla ricerca di quell'albergo. Non ce n'era alcuno.
- Cosa sarebbero capaci di fare pur di vendere qualcosa a qualcuno! - disse Norman ad alta voce.
Poi guardò meglio dentro una stradina. Una porta piccola, marrone, senza vetri e con la vernice staccata, portava la scritta “otel”. Norman si allargò in un sorriso ed imboccò il vicoletto. Giunto davanti alla porta cercò un qualcosa che avvertisse il padrone che fuori c'era un cliente, ma non trovandola chiuse la mano a diede due pugni a quell'asse verticale che chiamare “porta” sarebbe stato da irrimediabile sognatore. Non venne nessuno. Ribussò. Più forte. Quando stava per chiamare a voce la porta si aprì. Un uomo dall'aspetto sporco e bisunto fece la sua comparsa sull'uscio mormorando qualcosa in una lingua scatarrata. Era l'albanese. Norman, mostrando i bagagli e parlando in un italiano da ristorante, disse:
- Cerco camera. Mi hanno detto che questo è albergo.
- Certo! Albergo, albergo! - rispose approssimativamente l'albanese - Vieni, vieni! Tu italiano? Italiani bravi! Italiani bravi!
- Sicuro! Sicuro! Italiano! - disse Norman varcando la soglia di quella stamberga.
L'uomo gli sembrò eccessivamente contento di averlo come cliente, poi, entrando in quella casa, capì il perché. Probabilmente l'appartamento era stato adibito ad albergo quando l'Albania fu trasformata in Quartier Generale delle truppe ONU, ma non era un vero e proprio albergo. Non lo era mai stato. Norman, infatti, vide che l'uomo per fargli posto cacciava da una camera due ragazzi e una bambina. Presumibilmente erano i suoi figli. Poi spedì una donna sciatta e lorda, sicuramente sua moglie, a riordinare la stanza. Quella signora doveva avere una quarantina d'anni, ma ne dimostrava almeno venti di più. Da queste parti la morte arriva di soppiatto. E' per questo che tutti, perfino delinquenti, trafficanti, assassini e poco di buono, sono religiosissimi.
Appena la camera fu pronta Norman la occupò. C'era un armadio, un lettino da carcerati, un ampio tavolo con televisore sopra, e due sedie. Non c'era da lavarsi, in quel posto. Così lasciò la sua roba nell'armadio e lo chiuse a chiave. Quindi pagò la camera all'uomo, con cinquanta dollari, l'affitto per una settimana, e uscì per cercare un posto nel quale lavarsi e una Banca in cui ver-sare i soldi che si trascinava dietro. Trovata la Banca e consumata una doccia fredda in una fe-tenzia che i padroni avevano la sfacciataggine di chiamare “Diurno”, andò in un ristorante italiano a mangiare.
Le insegne sfavillanti e luminose, e l'entrata di lusso, si ergevano in un paesino come quello da sembrare un iperbole, un'esagerazione, una cattedrale nel deserto.
Norman mangiò avidamente, nonostante la cucina di quel ristorante lasciasse a desiderare, bevve abbondantemente e, prima di andarsene, si fece vendere una bottiglia di Bourbon e dodici panini caldi imbottiti di salame. Tornato a quella specie di pensione ne tirò fuori due, che tenne per sé insieme alla bottiglia di Bourbon, e il resto lo mise sul tavolo intorno al quale era riunita la famiglia.
- Tenete, sono per voi. - disse un po' in soggezione - Io ho già mangiato e questi due mi bastano.
Tutti e cinque lo ringraziarono facendo larghi sorrisi e profonde lusinghe. Dopodiché entrò in camera sua. Era davvero squallida. Staccò la spina del telefono e lo adagiò per terra, da parte. Poi tirò fuori i panini e il Bourbon e mise tutto sul tavolo, spostato leggermente a destra. Avvicinò la lampada e l'accese. Quindi sistemò sul tavolo un pacco di fogli, due penne, e cominciò a scrivere. Una mezzora dopo l'albanese, dopo aver bussato, entrò nella sua camera.
- Italiano vuole compagnia? - disse tirando per un braccio sua figlia e mettendosela davanti - Ragazzina bella, pulita, giovane.
Norman lo fissò. Poi squadrò la figlia di quell'uomo dalla testa ai piedi. Aveva un camicione bian-co. Guardava in terra e non aveva l'aria d'esser consenziente. Se raggiungeva i quattordicianni era tanto. Caruccia. Coi capelli chiari e il viso spaurito, da cane bastonato.
- Vattene via, vecchio bastardo! - urlò Norman all'uomo.
Questi, scusandosi, si dileguò.
Stava faticosamente tentando di dimenticare, soprattutto lo stupro della giovane Kate, e que-st'uomo, sacco di merda col quale lui si era comportato egregiamente, gli offriva una bambina da scopare, e per giunta sua figlia!
Il rimorso era cocente e la ricerca interiore della pace difficile da raggiungere. Il dispiacere che proviamo per le azioni che abbiamo fatto si trasforma in rimorso prima e in pentimento poi solo se noi siamo capaci di portare a termine un lungo lavoro sulla coscienza, lavoro che non può pre-scindere dai nostri atti concreti. Ebbene, Norman non aveva fatto che fuggire, tentando non solo di evitare la punizione degli uomini, ma anche, e forse più, l'autopunizione della propria coscienza, che quando è sincera ci porta il rimorso e ci aiuta ad agguantare il pentimento.
Seduto al tavolo con una mano sulla fronte, all'improvviso ricordò le parole dello storico Dmitrij Lichaciov e gli venne da ridere:

“Il risultato negativo di una ricerca è anch'esso un risultato, anzi di solito il più indiscutibile.”

Ne sorrise. Il rimorso in fondo è già una pena. Una pena che anzi può essere aggiuntiva quando il nostro cervello ritiene che non abbiamo pagato abbastanza per il male fatto. In quel caso possiamo stare in galera decine d'anni che, una volta usciti, il nostro rimorso continuerà ad affiorare e a torturarci. Proprio ciò che succedeva a Norman, che in quanto a fio non ne aveva pagato alcuno. Il tentativo di rimandare, se non addirittura di eludere, il contrappasso, accre-sceva il suo rimorso fino a farlo diventare un supplizio insopportabile.
“Cosa dovrei fare?”, si disse. “Forse flagellarmi servirebbe a qualcosa?” Forse sarebbe servito a qualcosa costituirsi, ma il terrore della punizione è talmente forte da risucchiarci in quel vortice che gli individui nutriti di buon senso chiamano “cattiva strada”. E' così che si finisce male, non avendo il coraggio di sottoporsi al giudizio altrui, perché sappiamo bene che noi, al loro posto, giudicandoci, non avremmo alcuna pietà. Sappiamo con quale spirito abbiamo commesso quel delitto, e abbiamo quella visione chiara, visione che agli altri sfugge, per la quale possiamo con-dannarci impietosamente.
Chissà. Forse il tentativo di rimandare il contrappasso è solo la speranza che nessuno si sia accorto di niente, e che per questo la nostra coscienza riesca perdonarci e a dimenticare. Una plastica. Non solo facciale, ma cardiaca e cerebrale. Sostituirsi davanti agli uomini, da-vanti a Dio, ma soprattutto davanti a sé stessi.
Perdonatemi.
fine


III.


Norman improvvisamente sentì una risata dietro di lui.
Si voltò di scatto ma non vide nessuno. Eppure l'aveva sentita, non era stata una sua im-pressione. Si alzò di scatto dalla sedia ed indietreggiò fino alla finestra. Fissò la stanza per qualche minuto. Che stesse diventando pazzo? No, l'aveva proprio sentita, ne era sicuro.
Si sentiva stanco, sfinito. Tornò al tavolo e raccolse le pagine del suo scritto. Lo fissò, e per un istante gli sembrò che le parole uscissero dalla carta per svolazzare sospese nell'astratto della camera, per galleggiare nell'aria, attente a non farsi prendere. Sfioravano i mobili, si posavano sulla tenda come irrinunciabili farfalle, accarezzavano il suo viso simili a mani dolci di un bam-bino. No, amici cari, non erano cattive, piuttosto dispettose, come tutte le parole, che rifiutano di farsi omologare, e che in questo gesto di ribellione non aspettano noi per essere difese, si difendo-no da sé, perché, pur essendo consce della loro libertà, sanno di appartenere a tutti, e il loro esistere si completa proprio nel voler essere libere di non essere libere, l'esatto contrario di quel che fa l'umanità, sempre affannata a rincorrere nuove libertà.
Dopo alcuni minuti Norman si riebbe, e le parole tornarono al loro posto, dentro il manoscritto. Quando iniziò a batterlo per attestare alla meglio i fogli, sentì una mano sulla sua spalla.
- Bravo Norman! - disse una voce dietro di lui - Sei uno che mantiene le promesse.
Norman si sentì il cuore venir meno, ma quando si voltò vide che si trattava solo di Dirty. Gli abiti consunti, come sempre, il suo sorriso da “Masticabrodo”, la sua barba incolta, sporco da far schifo ma senza emanare il benché minimo odore. Sì sì, era proprio lui, il suo amico barbone.
- Chi ti ha fatto entrare? - chiese stupito Norman dopo essersi ripreso dallo spavento - Come hai fatto a trovarmi? Chi ti...........……
- Calmati Norman! - sorrise il barbone - Sembra che tu abbia visto il Diavolo in persona. Sei talmente preso dalla tua consapevole paura che non hai ancora capito che è pressoché impossi-bile sfuggirmi.
Dirty allargò ancor più il suo disadorno sorriso. Poi, calmo, si avvicinò al tavolo di Norman. Prese la bottiglia di Bourbon e ne ingollò la metà senza staccarsi dal suo collo. La rimise a posto e ap-poggiò una mano sul tavolo. Poi prese il manoscritto e lo accostò, riaddrizzandosi, alla faccia. Mantenne soddisfatta l'espressione del suo viso, e mosse gli occhi da cima a fondo.
- Hai finito. Splendido lavoro Norman. - disse asciugandosi le labbra dal Bourbon - Sapevo che avresti scritto un'opera d'arte.
- Avanti, fuori la tua richiesta. - chiese Norman rude per farsi corag-gio - Voglio proprio sentire...
- Ma non ho altre richieste da farti, amico mio. - rispose Dirty - Era questo libro che volevo, niente di più.
- Tutto qua? Non ci credo - disse Norman indeciso se essere felice o sospettoso - Vuoi farmi credere che tu mi sei stato dietro per tutto questo tempo, sei stato buono con me, mi hai salvato, e tutto solo per chiedermi questo libro?
- Quanto sei idiota Norman. - disse un'altra voce alle sue spalle.
Norman scostò la testa di fianco, per evitare l'ingombrante corpo di Dirty, e vide. Era il giovane cronista che, appoggiato al marmetto interno della finestra della sua camera, lo fissava con sguardo deluso e dispiaciuto.
- Ah, bene. Ci sei anche tu? Ma dov'eravate, sotto al letto….
- Lui non ti ha “salvato”, - disse il giovane cronista - lui non può essere “buono”. Andiamo Nor-man! Va bene che sei prosaico, ma non venirmi a dire che ancora non hai capito chi è in realtà quest'uomo!
Norman si voltò e fissò Dirty. Aveva le gote del colore di un beone, ma la pelle non sembrava ar-rossata dal sangue. I pochi capelli che portava sulla testa erano da anziano, più che bianchi ten-denti al giallo. Le sue mani piene di grinze erano quelle di chi aspetta il giorno dopo. Il suo sguardo era profondo come la fossa delle Antille, e il viso non lasciava trasparire nulla, né gioia, né dolore né tristezza.
Norman non ci voleva credere. Era possibile che fosse.......……….
- Chi sei? - chiese.
- Io sono il demone della tua bottiglia, Norman. - rispose Dirty sorridendo - Sono il massimo della bellezza fiera. Creato Cherubino perfetto e degno di adorazione come tu vorresti essere. Sono Colui al quale la gente non crede quando stupra, uccide, ruba, dichiara guerra, spaccia droga..….…...............Sono “l'Invisibile Male”, ma anche il compiacimento nella propria bravura, bellezza, in-telligenza. Sono Il Traditore per eccellenza, ma anche il padre di quell'ambizione che ti ha fatto diventare scrittore, il principio della menzogna, ma anche l'illusione delle verità che voi uomini amate propinarvi e che vi aiutano ad andare avanti. Io sono tutto e il contrario di tutto. Sono iperbole e sono eufemismo, sono ossimoro ed effimero, qualcosa che non esiste seppur reale, incarnazione delle vostre più basse inclinazioni, realtà nella morte e sogno nell'ambizione, vanità di donna e crudeltà di uomo, io sono ciò che gli uomini ormai non sospettano.......…........……
- ..............sei...............sei..................- balbettò Norman.
- Mi preferisci così? - e Dirty si mutò in Valentina - O forse così? - e si trasformò in Marcel Proust - Ah, certo, tu mi vuoi con corna, coda e forcone - e così divenne - ma ormai è desueto. - e ritornò ad essere Dirty.
Norman si alzò di scatto e cercò di scappare, ma la porta della stanza era chiusa e lui, per quanta forza mettesse nel tirarla, non riuscì ad aprirla.
- Hai visto? - disse il giovane cronista con le braccia incrociate sul petto - Avresti dovuto darmi retta e costituirti.
- Se lui è il Diavolo significa che tu sei.......….........- disse Norman.
- Non mi sprecherò in squallidi trasformismi. - disse il giornalista interrompendolo - Sì, sono il Figlio dell’Uomo.
- E allora cos'aspetti? Liberami dal maligno! - implorò Norman.
- Dal Maligno ci si deve liberare da soli, Norman. Io posso solo impedire a questo Satana di fare ciò che tanto tempo fa gli è stato vietato, incarnarsi, ma Satana l'hai fatto entrare tu nella tua vita, e tu te ne devi liberare. - concluse il giornalista.
- Lo so. - disse Norman - Evitando di costituirmi e scappando con lui. - concluse indicando Dirty.
- Oh no, ancor prima, Norman. Il Diavolo non può leggere i pensieri, solo noi, io, Dio e gli angeli, possiamo farlo. Loro non hanno questi poteri. Se tu sei scappato è perché volevi scappare. Nes-suno ti ha obbligato a farlo.
- Bella sfida impari! - si lamentò ironicamente Dirty.
- E allora come ha fatto ad entrare nella mia vita? - chiese il giallista evitando accuratamente di guardare verso Dirty.
- I demoni possono entrare nella vita degli individui se questi gli aprono una porta. Questa porta si può aprire solo facendo certe cose, sedute spiritiche, sortilegi, magie, o continuando a perpe-trare il male, perché ricordati Norman, gli spiriti dei morti non esistono e non possono rispondere alle evocazioni, alle sedute spiritiche. Quelli che lo fanno sono sempre i demoni, non le anime dei nostri cari defunti.
- Ma io non ho mai fatto sedute spiritiche, e non credo di aver fatto più male di quello che hanno fatto milioni di altri individui.
- Norman, cosa dici? Tu hai ucciso un uomo! - disse il cronista.
- Eh Norman, sì sì, hai ucciso un uomo. - ripeté Dirty ridendo.
- Bel cazzo di uomo! - rispose Norman - Un bastardo stupratore!
- Questo non lo puoi decidere tu, Norman. - disse il cronista con aria rassegnata.
- Come hai fatto a convincermi? - chiese Norman a Dirty voltandosi verso di lui per la prima volta.
- Sei ambizioso, come me. L'idea di finire in galera per il resto dei tuoi giorni non ti allettava particolarmente. Così ho fatto in modo che leggessi quella notizia, sul giornale, in bagno. Se tu avessi guar-dato la testata di quel quotidiano forse avresti osservato meglio anche tutto il resto. Quel pezzo di carta non era lì per caso.
- Il “New Star” scommetto. - chiese Norman.
- Certo. - sorrise Dirty.
- E perché vuoi il mio libro? A cosa ti serve? - insisté Norman.
- Questo non è affar tuo. Io ti ho “salvato” e tu devi mantenere la promessa. - disse Dirty che con uno scatto veloce mise il manoscritto sotto la giacca lacera.
- Bel cazzo di “salvatore”! - urlò Norman - Mi hai salvato dalla pena della galera per affogarmi nella merda del rimorso!
- Sì, ma quale rimorso hai? - chiese Dirty - Quello per aver ucciso uno stronzo qualunque come Bert Foster, o quello per non essere riuscito a salvare la piccola Kate dallo stupro di quel fanta-stico maiale?
Norman abbassò gli occhi. Le piastrelle spaccate del pavimento facevano involontari e arlecchi-nici disegni. La lampada stava perdendo tutto quel poco di potenza che in precedenza aveva permesso allo scrittore di buttare giù il finale del libro. Norman pensò ancora qualche secondo, poi, senza guardare in faccia i suoi “ospiti”, rispose:
- Non lo so ancora.
- E' per questo motivo che non sei ancora riuscito a pentirti. - disse il giovane cronista - Perché non hai ancora capito quale origine ha il dolore che senti dentro. Se vuoi te lo dico io: l'omicidio di Bert Foster.
- Quella merda umana! - gridò Norman arrabbiato.
- Non puoi giudicare un uomo dai libri che scrive, Norman! - lo rimproverò il giovane cronista.
- E chi l'ha detto? - rispose Norman alzando gli occhi da terra - Lo faccio con me, posso farlo anche con gli altri, non ti pare?
- Un uomo è qualcosa di più del lavoro che fa.
- Oggi è un tantino diverso. - s'intromise Dirty - Forse sei rimasto un po' indietro, Signore dei Signori, Buono dei Buoni.
- Con te non ci parlo! - disse a Dirty il giovane cronista.
- Credevo fossi più gentile. - intervenne Norman rompendo un momentaneo silenzio e rivolgen-dosi al giovane cronista - Allora ti chiedo una cosa: dove inizia e dove finisce la moralità di un uo-mo se non può neanche reagire alle carognate che si vede fare davanti?
Il giovane cronista fissò Norman ridendo. Poi disse:
- In “Delitto e Castigo” Raskolnikov uccide due persone. Chi era la colpevole e chi era l'inno-cente? Secondo lui è chiaro; la colpevole è la strozzina, e l'innocente sua sorella.
- Giusto. - intervenne Dirty.
- No, che non è giusto. - rispose il giovane cronista - Quello è solo il punto di vista del loro assas-sino. In realtà nessuna delle due donne merita la morte, ed è proprio il seguito del racconto a farcelo capire. Dostoevskij riveste il suo personaggio di una nobiltà d'animo talmente profonda che arrivati alla fine di quell'opera proviamo per lui una tenerezza infinita, perdendo di vista il fatto che abbiamo a che fare con un assassino. Questo vuol dire che, per quanto grandi essi siano, un uomo è sempre qualcosa di più degli errori che può commettere.
- In questo modo i potenti la faranno sempre franca. - disse Norman.
- L'uomo non è su questa terra per vendicarsi dei torti che riceve, - rispose il giornalista - e tan-tomeno di quelli che non riceve. Non può reagire alle carognate, come le chiami tu, senza diven-tare carogna esso stesso. “La vendetta è mia: io ricompenserò”, disse il padre.
- Eh già! - rispose Norman astioso - Un “Premio alla Bontà” per le anime sottoforma di bucati candidi e vesti linde, di cantici e di nuvolette bianche come la democrazia!
- “La democrazia è una necessità terrificante”, scrisse Chateau-briand. - inframmezzò Dirty ridendo.
- No! - s'infervorò il giornalista rispondendo a Norman - Ma piuttosto con la vita eterna su que-sta terra resa un paradiso, un posto libero da malattie, guerre, sofferenze e morte.
- Non ci crede più nessuno, non ci crede più nessuno! - sorrise Dirty muovendo le mani sul suo viso come per darsi sollievo da un caldo inesistente.
- In questo mondo ognuno è quello che fa. - disse Norman - Bert Foster ha stuprato e quindi è un violentatore, ergo, ha meritato ciò che gli è successo.
- Mi dispiace sentirti dire queste cose. - rispose il cronista - Perché se Bert Foster è un violen-tatore significa che tu sei un assassino. Ma non è così, Norman.
- O “un interventista umanitario”, direbbero in questo mondo. - disse il fittizio vecchio barbone reggendo il gioco a Norman.
- Appunto! E io che ho detto? - aggiunse il giornalista – Un assassino. E poi, caro Norman, guar-dami, sono l'unico che riesce a farsi sentire da milioni di persone senza neanche alzare la voce.
- Peccato che sia proprio “sentire” il vocabolo appropriato e non “ascoltare”. - disse Dirty - An-che Norman “sente” la musica da discoteca, e quasi sempre vorrebbe dare un pugno alla radio. Non negare, ti ho visto tante volte!
- “Chi ha orecchi per udire oda”. Le ho dette duemila anni fa queste cose, su! - disse il giovane cronista.
- Evidentemente viviamo in un mondo di sordi. - disse Norman - E poi io ho letto sulla Bibbia che il re Acab fu condannato a morte da Dio perché si rifiutò di uccidere il re assiro Ben Adad.
- Altri tempi con altre leggi e altre priorità. - rispose il giovane cronista – “Ogni cosa a suo tem-po”, scrisse Salomone. Io ho abolito la Legge del Taglione perché chiunque uccide un assassino diventa anch'egli un assassino, e se non si pente sinceramente è tagliato fuori dalla misericordia di Dio. Il Regno dei Cieli o l'Eternità sulla terra sono premi anche per chi si astiene dal reagire violentemente. Sempre, in ogni caso. Credi ch'io non avrei potuto combattere e vincere le guardie che mi arrestarono, e in quel modo salvarmi la vita? Eppure non lo feci!
- Piantala d'indottrinarlo! - protestò Dirty - Voi siete talmente lontano dagli uomini e da ciò che gli succede che non riuscite minimamente a capire che cosa vogliono davvero. Prova a chiedergli cosa pensa e quello che vuole, forse potresti perfino imparare qualcosa.
- Dai allora. - disse il giovane cronista - Parlaci delle tue cose, annoiami un po'.



LE COSE CHE PREFERISCO

I.

Si era trovato appisolato. Erano le tre di notte ed era spossato, così aveva finito per addormen-tarsi. O forse inconsciamente aveva creduto di cancellare quella situazione abbandonandosi ad un sonno rinfrancatore. Con la paura che aveva provato in principio, quando tutto gli era apparso chiaro, non lo aveva considerato possibile, e invece si era addormentato proprio come un neonato dopo aver succhiato il latte da sua mamma.
I due mitici personaggi si guardarono e risero. Poi il giovane cronista fece cenno a Dirty, e questo si avvicinò allo scrittore. Norman si sentì colpire forte ad una spalla. Con un pugno. Si svegliò, assonnato, stanco come se avesse dormito poco e niente. E così era, in effetti. Guardò l'orologio. Erano le tre e un quarto del mattino. Ecco perché si sentiva così stanco. Si alzò e andò al tavolo. Prese la bottiglia di Bourbon e ne ingollò un paio di sorsate. Quindi si accese una sigaretta. Fece una lunga boccata e guardò i due, Dirty sorridente, il giornalista a braccia conserte, che aspetta-vano un suo monologo.
- Stai per perdere la vita e ti addormenti? - disse il cronista.
- Sono stanco, sono giorni che non dormo. - disse Norman.
- Allora, - continuò Dirty sorridente come fosse pieno di certezze – dicci cosa ne pensi della verità, del mondo, della libertà, della vita.
Norman tornò a letto portandosi dietro la bottiglia di Bourbon. Si sedette sul bordo e iniziò a parlare alternando lo sguardo ora sull'uno ora sull'altro dei personaggi. Gli sembrava di essersi smarrito in un sogno, o in un lungo incubo, e aveva il sentore che assecondandolo forse lui l'avrebbe lasciato andare.
- L'unica idea che mi sono fatto è che oggi non esiste una verità assoluta. Esisteva, forse, ma quel che si è fatto è stato cercare di cambiarla, anche di poco, non importa, cambiarla a proprio van-taggio. Ogni uomo sa, o è in grado di sapere, la verità, e l'esistenza è tentare di vivere dentro le convinzioni che ci siamo fatte. Quando l'uomo non ci riesce allora si prefabbrica da sé un'altra verità, un po' come sto facendo io e come, in un certo senso, avete fatto anche voi, che gli per-metta di viverla eludendone milioni di altre.
- Bravo Norman! - disse Dirty - E' proprio così!
- Stai zitto! - lo rimbrottò il giornalista scuro in volto - No, Norman. La verità è una sola. O è bianca o è nera, o è maschio o è femmina. Ad un processo vale la verità che emerge dal dibatti-mento, e per quella sei giudicato, condannato o assolto. Ma è “una” verità, non tante. Credi che il giudizio di Dio sia così diverso da quello di un tribunale popolare o della sentenza di un Giudice? No, Norman. Sarà più giusto, ma non è diverso.
- Ma oggi, caro Signore, - disse Norman ossequioso - esistono gli omosessuali, i transessuali, il grigio, e in galera ci vanno solo i pove-racci, coloro che non hanno i mezzi per difendersi.
- Questo succede grazie a lui. - rispose il giovane cronista indicando Dirty - Un omosessuale non è nato senza sesso, e un transessuale se l'è cambiato. Tutti e due hanno tentato di eludere una verità fondamentale e assoluta. Un po' come fanno i potenti che compiono un crimine e vengono scoperti. Ma non è sempre stato così, e in futuro tornerà la giustizia vera, giusta. Quando dissi che “è più facile per un cammello passare attraverso la cruna di un ago piuttosto che riuscire ad entrare nel Regno dei Cieli”, non ho detto una cosa tanto per dire. Significava realmente che i ricchi non potranno salvarsi. Nel loro cuore anche loro hanno questo sentore, e quindi cercano di comprarsi quella giustizia che, sanno, non potranno comprarsi da Dio.
- Molti però ci provano. - intervenne Norman - Altrimenti cosa sarebbe la solidarietà del mondo?
- La solidarietà che vedi fatta su questa terra, caro Norman, quando è positiva non è altro che altruismo compiaciuto, quando è negativa serve per scaricarsi le tasse o per farsi pubblicità. La solidarietà, la carità che intendevo io, era quella fatta col cuore. “Non far sapere alla mano destra quello che fa la sinistra” era una maniera concreta per guadagnarsi davvero un tesoro nei Cieli. Ma oggi la solidarietà la si fa alla Tv. A questi ripeto: “Avete appieno la vostra ricompensa”. Davanti alle miserie umane fanno più solidarietà trenta secondi di lacrime sincere che scendono sul viso di un individuo chiuso nella propria camera, piuttosto che tutto il denaro offerto da rock star o da divi cinematografici.
- E qual è la volontà di Dio? - chiese Norman.
- Qualcosa che non si sta facendo. - rispose il giornalista - Chi ha mai detto di fare guerre e di uccidere? Chi ha mai detto di rubare, inquinare, violentare, rapinare, abortire, commettere adul-terio e affamare i poveri? Nessuno! Questi sono tutti colpevoli, e pagheranno con la loro vita la loro trasgressione. Come pagheranno tutti coloro che li hanno appoggiati nei loro atti criminali, perché ognuno renderà conto individualmente.
- E' colpa vostra se queste cose sono successe anche nei paesi cristiani, - intervenne Dirty che fi-no a quel momento era rimasto zitto - perché hai promulgato una strana e contorta idea di liber-tà, e gli individui ne hanno approfittato. Se perdoni una puttana, l'umanità, che in genere si ritiene essere meglio di una puttana, crederà che alla fine qualsiasi cosa gli verrà perdonata.
- Calma , calma. - rispose il giornalista - Io ho perdonato Maria di Magdala per i reati che aveva commesso, ma le ho anche detto di non peccare più. Qui non vale “perdonato una volta per-donato per sempre”. Primo punto. Secondo. Mi vuoi dire cosa c'entra la guerra con gli atti di una meretrice?
- La guerra l'avete fomentata voi fin dall'inizio con l'odio razziale, l'apartheid ebraica. E così, con gli anni, è rimasta un'arma per appianare le divergenze culturali. - disse Dirty.
- “Abbiamo fomentato l'odio razziale”? “Appianare le divergenze culturali”? Ma Israele serviva solo come preservatore morale delle Leggi di Dio in un mondo che di morale non aveva quasi nulla! Fu scelto quasi a caso! Quale odio razziale! Nella Bibbia sono descritti decine e decine d'atti di misericordia di Dio verso i gentili! Questo dimostra che “Dio non è parziale, ma chiunque pra-tichi la giustizi”, sia esso italiano, americano, iracheno, indiano o ebreo, “gli è accetto”.
- E perché esistono tutte queste nazioni e tutte queste religioni? - chiese Norman divertito dalla scenetta e incuriosito da ciò che stava sentendo.
- Le ragioni possono essere molteplici, ma quella principale è la lingua. Noi abbiamo avuto la necessità di mantenere intatta una verità, e una verità è più facile mantenerla tale e quale in un piccolo nucleo di persone. Per tale motivo scegliemmo Israele. Le genti, confusa la lingua a Ba-bele, si portarono dietro i loro falsi dèi e le loro superstizioni. Così nacquero tanti dèi e tante credenze quante erano le lingue parlate allora. Ma gli dèi, in realtà, erano sempre gli stessi, quei pochi inventati da Nimrod a Babele, con le loro presunte qualità, i loro presunti incarichi, e gli stessi poteri. Da Babilonia all'Assiria, dall'Egitto alla Persia, da Grecia a Roma, dall'America all'India, dalla Cina al Giappone, dal Africa all'Asia. Non è strano vedere similitudini fra religioni che invece si proclamano diverse. Perché succede questo? Perché in verità sono davvero una sola religione, partita da Babele, o Babilonia, e dispersa ai quattro angoli della terra. Non è per niente che nell'Apocalisse la falsa religione viene chiamata “Babilonia la Grande Meretrice”, per-ché tutto partì da lì, da Babele. Non è strano che lo stesso nome, Babele, abbia due significati spe-culari. In ebraico significa “confusione, caos”, in accadico, la lingua parlata da quei popoli antichi, vuol dire “Porta (Bab) di Dio (Ilu)”. Perché per noi, che sapevamo la verità, ciò che loro chiama-vano “Dio” era solo uno stato confusionale. In realtà dietro quelle religioni si è sempre nascosta una sola persona; Lui. – concluse il giovane cronista indicando Dirty.
- Non farti prendere in giro Norman. - disse Dirty.
- Mi stai dando del bugiardo per caso? - disse il cronista a Dirty.
- Ebbene.......…...............sì! - rispose il vecchio barbone dopo una breve esitazione.
- Ora mi hai stufato! - si arrabbiò il giornalista, e, senza muovere un dito, fece sparire Dirty men-tre ancora stava ridendo. Poi, rivolto a Norman, disse - Non ti stupire. Se l'è voluta lui. Del resto, fra breve tempo, lui e i suoi compagni saranno relegati in un luogo dal quale non potranno più nuocere.
- Puoi impedirmi l'incarnazione, - disse la voce di Dirty dall'invisibile - ma non puoi spegnere il volume della mia voce. Lascia parlare anche lui. Finiscila d'indottrinarlo! Ascolta ciò che gli uo-mini vogliono veramente!
Norman bevve un sorso di Bourbon e guardò l'unico che poteva vedere, il giovane cronista.
- Dai allora, spara. - disse questi.


II.


- Io ho sempre creduto - iniziò Norman - che un uomo abbia il diritto di fare e credere quel che gli pare. In questo diritto rientrano anche i gusti, le capacità e le aspirazioni. E' a questo punto che la vita si complica. Le nostre libertà entrano in conflitto con le individuali libertà altrui. I nostri gusti, se non sono convenzionali, ci ghettizzano, ci isolano, ci creano il vuoto attorno. Altro che “mobbing”! Il mobbing è una forma di solidarietà, perché l'alternativa è il licenziamento. E poi, per sopravvivergli basta non fare del proprio lavoro l'unico scopo della nostra vita. Napo-leone divenne il Napoleone che tutti conosciamo anche grazie al mobbing, perché fu relegato in un ufficio di toponomastica, se così si può chiamare, e studiò tutte le mappe dei territori europei. Così, una volta tornato sul campo di battaglia, portava il nemico a combattere dove voleva lui, nel terreno che meglio conosceva e a lui favorevole.
- Napoleone, a buon ragione, fu chiamato “Anticristo”. - disse il gio-vane cronista.
- Comunque sia. Le difficoltà che ci portano i nostri gusti, le nostre aspirazioni e le nostre capa-cità, sono direttamente proporzionate alla scelta di vita che abbiamo fatto. Se abbiamo scelto la carriera è chiaro che dobbiamo metterci in competizione, e nella competizione tutto è lecito, non ci sono regole, e piangere perché qualcuno più astuto di noi ha trovato il modo per farci fuori, è vittimismo spiccio, poco scusabile e Incompiangibile.
- Da compiangere sono i disgraziati, i poveracci, i miserabili, coloro che sono ritenuti soltanto un ingombro. - disse il giovane cronista – Anche nei casi di cui parli tu si può incontrare qualcuno da compiangere. Chi è da compiangere lo è per il suo stato, e non secondo la pena che ci fa o secondo le contrizioni che causa al nostro animo. Poi?
- Ho sempre odiato i computers. Inibiscono le capacità espressive, astrattive e attive in ogni loro forma. Come la Tv. Basta mettersi al computer e hai tutto quel che vuoi senza muoverti dalla tua stanza. - disse Norman.
- Giusto. Bello. - gli rispose Dirty parlando dall'invisibile - Perché mai dovresti andare in Poli-nesia? E' la Polinesia che viene da te.
- Così non si viaggerà più, non conosceremo realmente quei paesi e le persone che li abitano, perché tutto sarà subordinato a ciò che altri vogliono farci vedere. Forse avremmo anche la Poli-nesia in casa, come dici tu, ma continueremo a non conoscerla affatto. Arriverà, un pomeriggio, girerà un po' nel nostro cervello tramite i nostri occhi, e poi se ne andrà via, un po' delusa per quello che ha trovato.
- E in Politica? - chiese il giornalista.
- Una volta ero appassionato di marce. - rise Norman - Manifestavo per tutto; contro la pena di morte, per la legalizzazione delle droghe leggere, contro l'inquinamento, contro i licenziamenti, per i diritti delle donne..…...…….Dopo tanti anni mi accorsi che le battaglie che facevo erano vane, nulla cambiava, nulla è cambiato mai. La società non può prescindere da quel che l'individuo sente nel profondo del suo cuore. I corporativismi non servono a nulla. Oggi ho capito che sono più maschiliste le femministe degli uomini, soprattutto degli uomini di oggi. Svevo ha scritto che in una compagnia femminile è considerata originale la donna che si comporta da uomo. Ebbene, è vero. La Politica in quanto corporazione, quella dei partiti e dei Parlamenti, è ricettacolo di trasformisti. La Socialdemocrazia è il Regno del Compromesso. Ma che deve fare allora un “sinistrato” come me che vede difendere le sue idee in campo morale dalla destra mussoliniana e in campo economico dalla sinistra stalinista? Così decisi di non votare più, e presi a vivere molto meglio.
- Ma sei rimasto escluso dalla vita sociale. - disse Dirty.
- E' vero, questo. Ma forse è stato proprio tale fatto a farmi vivere meglio. Vedere ogni volta che la storia si ripete diventa noioso. E' mai possibile che ci si sia dimenticati che fu un cattolico, Von Papen, a portare Hitler al potere? E' mai possibile che la tempestività mostrata dalla chiesa nello scomunicare Fidel Castro sia rimasta un episodio isolato se pensiamo che Hitler, Goebbels, Heickman, Mussolini e Pinochet non lo sono mai stati? E' mai possibile che si santifichi un “ta-gliatore di teste” con la scusa che i delitti che ha commesso non riguardano la sfera spirituale? Come se un Papa fosse un impiegato del catasto che finita la giornata chiude tutto e va a casa! E' mai possibile che l'Italia faceva affari col suo più grande nemico, l'Unione Sovietica, mentre il suo più grande alleato, gli Stati Uniti, gli metteva le bombe nelle piazze? Una volta l’Internazio-nalismo era considerato un atto di prevaricazione. Ma oggi, con la Globalizzazione, non si sta fa-cendo la stessa cosa?
- Avete voluto la bicicletta? - disse il giornalista - Ora pedalate!
- Ci si lamenta dell’immigrazione clandestina, - continuò Norman preso dalla foga - ma poi si fanno Leggi che permettono alle industrie dolciarie di fare cioccolato senza cacao, cancellando, in questo modo, una delle principali risorse dei paesi poveri. Insieme al caffè. Dopo la caduta del Muro di Berlino il prezzo del caffè, chissà per quali strade, è crollato. I ricchi dicono che tali fatti non sono risultati causati direttamente dalla globalizzazione e dalla ricchezza del mondo occi-dentale, ma oggi, nel pianeta, ci sono un miliardo di sotto nutriti e un miliardo di obesi. E’ solo una coincidenza?
- Tutto questo va bene, per carità, è vero. - disse Dirty - Ma non vorrai dirmi che non c'è proprio nulla di questo mondo che ti piaccia! Norman, cosa salveresti?
- Beh, senz'altro i film di Woody Allen. - rise Norman.
- E poi? Cos'altro? - chiese, anch'egli ridendo, il cronista.
- Salverei te. - rispose serio Norman - Te e la concretezza della tua utopia, pazzo che non sei altro. Ah, salverei anche queste parole: “Per molto tempo, sono andato a coricarmi presto la sera”, con cui inizia la più grande opera letteraria che sia mai stata scritta.
- E cosa butteresti? - chiese Dirty sorridendo malinconico.
- Sicuramente questa nuova sinistra, con la sua Socialdemocrazia. Se volevano diventare so-cialisti potevano prendere la tessera del partito socialista! E poi anche questa nuova destra, che troppo presto ha di--menticato Gentile e Balbo, Malaparte e Marinetti, per buttarsi a capofitto nell'ideale di Mercato. E proprio il Capitalismo butterei prima di ogni altra cosa. E' un fallimento maggiore del Comunismo, perché il comunismo era fallito già nelle sue premesse, in quanto lo stato d'animo delle persone non è quantificabile né monetizzabile, ma il Capitalismo, nel suo fre-netico compiacimento di vittoria, falsa vittoria, continua a mietere vittima a man bassa. Brucerei completamente, in modo che non lo si trovasse più, il “ribaltamento concettuale” con tutti i mostri che ha generato, partendo dall'evoluzione darwiniana, passando attraverso la Psicoanalisi, la Sociologia, e arrivando al '68, la “Grande Parata degli Incolti”, che gridando “vietato vietare” hanno creduto davvero di potersi impadronire definitivamente della Cultura. Schiera di “gatti neri adolescenzializzati” che hanno scambiato il “petting” con la lotta di classe, e hanno finito per trasformarsi in “gatti bianchi” tutti scuola di partito e posto fisso. Che hanno confuso la Psico-analisi col “Vangelo secondo Freud”, che dopo aver letto “Siddartha” di Herman Hesse si sono autoproclamati colti, e che facendo una già vecchia lotta per un'insana libertà hanno favorito l'apertura di mercati autoritari nei quali i soliti noti capitalisti hanno monopolizzato. Ma del Comunismo salverei certamente Gramsci e Benedetto Croce.
- Va bene Norman, - disse il giovane cronista - ma la vita di un individuo non è solo guardare quello che fanno gli altri. Che cosa hai imparato dai tuoi anni? Quali sono le cose di cui il tuo cuore non riesce a fare a meno? Cosa preferisci?
Norman voltò la testa. Poi si alzò ed aprì la finestra. Rimase cinque minuti a fissare il buio di quella notte albanese. Il vento, un po' più forte del giorno prima, muovendo lo scenario, alberi, foglie morte e panni stesi, ricorda che in un mondo di fantasmi c'è ancora qualcosa di vivo, e passando fra le inferriate dei cortili e le ultime foglie appese agli alberi per noia o per amore della vita, dà forma e plasma una musica fissa, ossessionante, sempre uguale.
E' la colonna sonora della vita.
Norman si sentì un evaso, un evaso cosciente che questa volta sarà ripreso e condannato a morte. Un soldato che combatte una guerra persa, come “la Leva Clausewitz” che difese Berlino dagli alleati.
Alzò lo sguardo per fissare il cielo, e gli venne voglia di credere che non era vero niente. Le stelle sono uguali sotto il cielo dei ricchi e sotto il cielo dei poveri, sotto quello degli uomini liberi e sotto quello degli schiavi, sotto il cielo dei santi e sotto quello degli assassini. Rise far sé. “Si è moralisti quando si è infelici”, scrisse Proust. Ma poi la realtà lo fece riavere. “Magari fosse così”, si disse. C'è chi per vedere un cielo intero ha pagato con la vita, e chi ha pagato con la vita soltanto l'averlo desiderato. Quante antenne, come spilli aguzzi, hanno cercato di ferirlo, e nemmeno chi ha abitato gli attici si è sentito, anche solo per un momento, parte d'esso. Quanti aerei sono andati a svegliare Dio senza ch’egli se ne curasse! E quanti drogati hanno messo le ali degli angeli e sono volati lassù, presso Dio, a pettinargli i capelli di lana bianca, candida, per poi essere afferrati per i piedi e gettati nel Tartaro.
Una lacrima cadde libera sulla sua guancia. Lui la lasciò andare giù per asciugarla quando stava per abbandonare la sua faccia. Si voltò e tornò dentro. Il giornalista gli mise una mano sulla spalla senza proferir parola.
- Ricordo che da piccolo mi piaceva guardare fuori dalla finestra quando pioveva. - riprese Norman - A pensarci bene mi piace ancora oggi. Adoro uscire quando nevica, prendermi quella cascata di coriandoli ghiacciati sulla testa, sui capelli, sperando, illudendomi d'essere pazzo. E il mare d'Inverno, che malinconia! Mi ricorda Pavese su un Po uggioso. Ho conservato i tascabili de “Alla ricerca del Tempo perduto” di Proust che compravo ad uno ad uno quando avevo ventanni, molti dei quali hanno ancora le pagine macchiate dalle mie lacrime. Non me ne separerei per nulla al mondo. A tredicianni amavo l'odore delle feste di paese, quello sprigionato dai carrozzoni che friggevano frittelle dolci che facevano malissimo al fegato, ma che noi mangiavamo ugualmente perché senza le frittelle la festa non era festa. Oggi l'ho dimenticato, quell'odore. E poi le sbronze coi compagni di Liceo, quando ognuno di noi aspettava febbrilmente la chiamata per il servizio militare, ansiosi di rifiutare la divisa e, per questo, di essere arrestati. Ricordo i pianti per le prime ragazzine, e poi per i morti del Biafra. Peccato non essere più così veri, oggi. Forse fu già in quel tempo che qualcosa dentro di me si ruppe. Io non ero kennediano, ero contro tutta la politica di allora, ma la libertà del nemico è la tua libertà, e quando scopri che al nemico è stata tolta significa che se non sei d'accordo verrà tolta anche a te. Quello che avevo creduto es-sere il mio mondo, pian piano si stava sgretolando.
- Ma no, non è così Norman. - disse il giovane cronista per rincuorarlo - Forse ti aspettavi troppo dagli uomini, tutto qua. Ricordo che una volta, ad una folla di gente che piangeva perché le era stato tolto un amico, dissi che la sua scomparsa era motivo di grande gioia, perché lui era riuscito a morire integro, e il loro pianto non era che frutto delle loro aspettative. Che cosa, dunque, credevi di vedere, caro Norman, nel deserto di questo mondo? Grandi ideali adempiersi? Che il potente alla fine si sarebbe stancato di calpestare il misero? Purtroppo i potenti passano la mano, e ad un potente che crescendo capisce, ne arriva uno giovane smanioso di arricchirsi e di farsi largo fra le strette maglie dell'umanità.
- E' giusto. - commentò Dirty dall'invisibile - La libertà, la democrazia, sono anche questo genere di possibilità e di comportamenti. Perché qualcuno prosperi è necessario che qualcun altro faccia la fame.
- Questa è oligarchia, non democrazia. - rispose il cronista - Le pari opportunità sono un van-taggio per chi opportunità ne ha già e una vessazione per chi non ne ha né mai ne ha avute, così che sarà sempre il più ricco, con più mezzi, a soppiantare il più povero. Ma questo si chiama ladrocinio, non giustizia.
- Io ho visto solo brave persone. - aggiunse Dirty.
Norman, seduto sul letto, teneva la testa bassa. Stava piangendo. Il giovane cronista gli si avvi-cinò e allungò una mano sui suoi capelli. Poi si chinò e gli disse:
- So perché stai piangendo. Le tue opportunità le hai buttate via come si butta via la spazzatura al mattino, uscendo per andare al lavoro. Norman, Valentina ti amava davvero.
- E allora perché se n'è andata?
- Perché voleva sentirsi sicura, protetta. Ma tu hai confuso la sua richiesta d'amore con un'ar-rampicata sociale. Sai perché questo ti è successo? Hai avuto troppe donne in vita tua, Norman, e non riesci più a distinguere l'amore vero dal sesso, dalla vita comoda, dall'ambizione.
- Non ci credo. - rispose lo scrittore - Se una persona ama davvero non se ne va.
Il giovane cronista guardò Norman con espressione compassionevole. Quest’uomo, che a quella festa mondana lo aveva trattato da pezzente, adesso era l’ombra di sé stesso. Dimagrito, sporco, vestito male, con la barba lunga e gli occhi rossi dal pianto e dal sonno. Il ragazzo provò un indi-cibile pena. Allungò una mano verso la finestra e il vetro si trasformò in una specie di televisore. Valentina apparve. Era in camera sua, nella casa dei suoi genitori. Aveva in dosso un pigiama e, sdraiata sul suo lettino, piangeva.
- Guarda Norman. - disse il giornalista.

III.

Dove sei amor mio? Mi manchi. Dovevo tenerti con me, quella sera. Invece ti ho fatto andare incontro............Non ho avuto la forza di trattenerti. Come, a volte, non ho avuto quella di lasciarti.
La colpa è delle tue donne, quelle donne che ti hanno strappato a me. Cosa c'entravano loro con noi, Norman? Perché non hai capito quanto ti amavo? Tanto. Tanto. Così tanto da passare sopra ai tuoi tradimenti. Perfino con la mia migliore amica mi hai tradita. E con quell'altra vacca, la signora Killroy, la madre di Deborah, la mia collega di lavoro. Anche lei non vedeva di buon occhio il nostro rapporto. Sapeva che sarebbe andata a finir male.
Chi ti ha strappato a me, amor mio? Forse è stata proprio lei, la signora Killroy? Linda? Non credo. Anche perché per lei sarebbe stato più semplice venire con te di nascosto. Non aveva particolari obblighi nei tuoi confronti. Linda da te voleva solo sesso, niente di più. Io volevo il tuo cuore. Lei voleva sentirsi giovane, io giovane lo sono già.
Dove sei, amor mio? Mi manchi, Norman, mi manchi! Il tuo odore mi manca, mi manca la tua voce, le tue mani sul mio seno, strette strette, a pizzicarmi i capezzoli. Mi manca il tuo sesso. Sei riuscito a farmi fare quello che volevi. E pensare che quando mi sono messa con te non ne sapevo nulla di arti amatorie. Tutto ti sei preso, geloso che altri uomini, in un futuro più o meno lontano, potessero scoprire panorami nascosti.
Io ti dicevo sempre di no, all'inizio dei tuoi approcci, ma tu sapevi che non ci avrei messo troppo tempo a cedere. Così cedetti la prima volta, davanti, dentro la dispensa dell'albergo. Non mi chiedesti proprio nulla allora. Mi togliesti la gonna e le mutandine. Io non trovavo la forza per fermarti. Chissà, probabilmente non lo volevo proprio.
- Stai calma, - dicevi - qua non ci vede nessuno.
Non provai nulla. La preoccupazione era troppa. La paura di essere visti, di essere licenziata, di mettermi con un farfallone come te, di restare incinta.......…......………..
Ansimavo, e tu con quella spada che avevi fra le gambe continuavi a ferirmi nella carne. Nel cuore. Ripetutamente. Facendo dei grugniti come i porci in mezzo al fango. Quante volte l'ab-biamo fatto di nascosto, Norman? Dicevi che era la paura che ci scoprissero ad eccitarti quando mi vedevi, ma tu non avevi paura di niente, è per questo che hai fatto la fine che hai fatto.
Poi cominciai ad assaporare il gusto del peccato, la paura d'essere scoperti. Tu volevi fare tutto così, con un senso di sfida insito. Dopo pochi giorni mi obbligasti ai rapporti orali. Ero schifata, all'inizio, e tu ti arrabbiavi. La prima volta che lo feci mi venne un conato di vomito e dovetti correre in bagno. Tu non dicesti nulla. Mi abbracciasti forte forte, facendomi davvero tua. Come nessun altro potrà farmi mai sentire.
- Tranquilla - dicevi con quella tua aria da disilluso conclamato - non ti preoccupare, ci si abitua a tutto.
Dove sei amor mio? Mi sento vuota senza di te. Vuota come una scatola vuota. Dentro mi sembra di non avere più niente. Sono stata tentata dal suicidio, sai? Non volevo più vivere senza di te. Ma poi mi hanno spiegato che quando si muore non si è più consci di nulla, e allora ho pensato che non avrei più potuto ricordati e ci ho rinunciato.
Non passò molto tempo che la spugna dell'amore ci assorbì completamente, e fummo portati in quel luogo anonimo dove un gesto vale l'altro, dove le parole assumono mille significati e nessuno, dove l'abitudine da tutto per scontato e piano piano appiattisce. E' in quel posto tremendo che si finisce per sostituire l'amore con la stima e il sesso coi “buonanotte cara”. Forse feci male a venir a vivere da te. Gli incontri clandestini si trasformarono in cose consuete, ed io cominciai a dispe-rarmi perché capii che per te ero desiderabile in quanto novità, che il tuo amore era qualcosa di passeggero, come un temporale estivo. I “debiti”, che tu all'inizio eri impaziente di ridare, diven-tarono taciti accordi dove ognuno rimette i peccati e le manchevolezze dell'altro. Forse il perdono è la Tomba dell'Amore, e io ti ho perdonato un mondo di tradimenti. Non potevo fare diversa-mente. Ti amavo. I vizi e le gelosie erano una costante nella nostra vita, e io ci passavo sopra, an-che se a volte mi è sembrato di morir di gelosia.
E Kelly, la mia amica, che ha voluto ferirmi il cuore quella volta che abbiamo litigato, dicendomi che tu non mi amavi perché eri innamorato di lei, e che prima di tornare in albergo, la sera, passavi a casa sua e facevate l'amore una, due, tre volte. Per quanti giorni ho sperato che non fosse vero, e fu quando lei mi ha assicurato di aver detto quelle cose per farmi dispetto che mi resi conto che invece aveva detto la verità.
Dove sei amor mio? Fino a dove sei arrivato con la tua brama di vita? Davi tutto alle altre, a quelle donne malvagie che ti volevano solo per levarti a me. Ero la tua donna, la tua bambina che faceva tutto quello che le chiedevi. Ricordo quando la sera andavamo al parco, e dopo aver fatto l'amore restavamo sdraiati sull'erba a viverci un pochino. Eravamo a pochi metri da casa mia, ma con te vicino non avevo più paura che mio padre, forse geloso di te, ci scoprisse. Tu parlavi sempre, in continuazione, e io ti chiedevo di stare zitto un momento, perché volevo immaginarmi di sentire il rumore delle stelle. Subito mi tacciavi d'ignoranza, dicendo che le stelle non fanno alcun rumore. Io te ne chiedevo ragione, e tu mi rispondevi che il meccanismo della propagazione del suono sta nella trasmissione delle vibrazioni prodotte dalla sorgente, ma che per giungere al-l'orecchio ha bisogno di un mezzo elastico che faccia da conduttore, che generalmente è l'aria, e siccome nello spazio aria non ce n'è non si può formare alcun tipo di rumore.
Sì Norman, senza saperlo avevi la capacità di distruggere i sogni. Eri così saccente, certe volte, che mi facevi venire i nervi. Era con te vicino che sentivo quel rumore inesistente, Norman!
Erano passati pochi mesi e già sentivo che il tuo amore per me stava scemando.
- Forse per riuscire ad amare compiutamente abbiamo bisogno di uccidere di continuo nostro pa-dre, di macellarlo e mangiarne i pezzi. - mi dicesti un giorno - Quegli stessi pezzi che poi ritro-veremo più avanti, durante il percorso tortuoso della nostra vita, e che sono la nostra stessa resi-stenza alla morte. Sì, compiere l'atto puro di una religione pagana, un rito, un'eucarestia canni-balesca, una cerimonia propiziatoria nella quale si uccide il padre per uccidere Dio, e dove si divorano i suoi pezzi per acquistarne la forza, la vita, l'anima, il suo posto. Esattamente come fece nostro padre col suo. E' la nostra voglia di eternità, questo meccanismo che c'incolla così alla vita, e che ci fa aggrappare disperatamente ai “nostri pezzetti bruciati”,
Non so se tu avevi ragione e io torto, non ho mai creduto all'innatezza delle cose, né che i nostri gesti siano determinati da un passato più o meno casuale. Chissà, mio dolce amore, se dopo quello che è successo hai cambiato idea. La Psicologia non è che un modo per tenerci stretti il nostro agnosticismo, ma sappiamo bene d'aver bisogno di un Dio, come e forse più dei credenti. E' per questo che non riusciamo ad essere atei come vorremmo, ma ,agnostici, lasciamo uno spiraglio aperto perché Dio, quel Dio in cui c’impegniamo di non credere, possa passarci attraverso e raggiungerci.
Sì Norman, non sapevi di essere un po' ipocrita.
Ricordi quando mi hai voluta dietro? Non sapevo che fare. Avevo iniziato a praticare sesso assi-duamente solo con te, ma tu dicevi che ero ormai donna. Forse lo dicevi solo per potermi usare a tuo piacimento, lo avevo capito già allora, ma non me ne importava. Il “tuo culetto”, mi chiamavi. Che dolore provai! Ti pregai di smettere, ma tu dicesti che ormai era fatta. Che sofferenza. Da far venire le lacrime. Subito dopo mi sentii sollevata per aver superato un'altra prova. Oh come ti amavo! Anche se mi facevi fare cose che gli altri uomini non mi avevano mai chiesto. Dicevi che quello era “saper amare il proprio uomo”. Che mascalzone! Non era vero, lo sapevo, ma allora credevo veramente che anche quello fosse un modo per dimostrarti il mio amore. Darsi tutta, completamente.
I primi tempi eri famelico. Pantagruele ti chiamavo. Per te ogni posto era quello giusto. Ricordi quando lo facemmo a casa mia con mio padre e mia madre nell'altra stanza? Che buffo eri. Che buffa ero. A gambe larghe sul letto stretto della mia cameretta, il vestito tirato su, a formare una confusione di tessuto sotto il mio collo, e la mia testa preoccupata verso la porta. Quella fu l'unica volta a casa dei miei, anche perché tu in quella casa non volevi venirci. Ti sembrava d'impe-gnarti più di quanto volessi.
Ricordo quando ti presentai a mio padre, e la faccia che fece quando vide che avevi pochi anni meno di lui. Poco prima che uscissimo me lo rimproverò, dicendomi che avrei finito per soffrire. Bisogna ascoltarli i padri, anche se sono gelosi.
E tutti i tuoi tradimenti Norman, dove li metto? Cosa ci faccio? E' difficile dimenticarli mentre mi sforzo di richiamare alla memoria il tuo viso. Anche se poi finisco sempre per perdonarti.
Dove sei amor mio? Mi manca il tuo gusto, la tua lingua, quella che negli ultimi tempi riservavi alla mia amica. Che sensazioni allucinanti mi facevi provare quando mi leccavi. Tu sei nato per far l'amore. Ti piaceva proprio leccarmi, e non ti risparmiavi. La prima volta che me lo hai fatto subito non riuscivo a provare alcun tipo di piacere, e tu sei rimasto lì, fra le mie gambe, con la testa che si muoveva, con la bocca, e non ti sei staccato finché non ti ho detto che mi piaceva. Oh Norman com'eri bravo! Un formichiere eri. Non ne troverò mai più uno bravo come te.
La nostra fine è iniziata quando ti ho chiesto qualcosa in più. Kelly mi diceva che se mi amavi davvero mi avresti sposata. E io le ho creduto, mi sembrava una cosa normale. Ma tu non hai capito quello che volevo. Hai pensato che volessi strapparti al tuo mondo, mentre invece era al mio mondo che volevo tu mi strappassi.
Chi ti ha tolto a me amor mio? Tutte le tue donne non potevano amarti come ti amavo io. Solo chi ama veramente riesce a passare sopra ai tradimenti. Ognuna di loro ti voleva per sé. Colpa dei loro fidanzati, dei loro mariti, che non sanno tenere a bada le loro cagne in calore, che non sanno dargliene abbastanza.
Cosa volevo essere? Non l'ho ancora capito, ancora non lo so. Forse la bambolina da sventolare davanti ai tuoi amici, snob, bislacchi e pieni di corna. O magari un tuo possedimento, una casa-linga che il marito ha dimenticato in cucina. O la tua figlioletta da mettere su una sedia e far bal-lare per ingraziarla agli invitati di una festa. O forse la tua puttana. Quello che m'importava era placare la voglia dei miei occhi di vederti, delle mie mani di toccarti, delle mie gambe di stringerti per sempre, sottraendoti alle grinfie delle altre donne.
Con quante donne sei stato amor mio? Cinquanta? O forse cento? Quanto mi hai fatta soffrire. Sì, perché io, nonostante la mia giovane età, non sono una ragazza di quelle moderne. Sono gelosa, e sopportavo i tuoi tradimenti solo perché avevo una gran paura di perderti. Tu eri il mio Principe Azzurro. Un Principe Azzurro che ha mille Addormentate nel Bosco da svegliare con un tenero bacio. Le mettevi in fila, probabilmente, per riconoscere quella che poteva venire a letto con te da quella con la quale non c'erano speranze. Non è tanto una questione d'essere pinzochera, ma proprio una sorta di violenza che sentivo dentro, e che battezzavo gelosia, che mi faceva star male fisicamente. Odiavo, e forse odio ancora, tutte quelle donne, anche se la maggior parte di loro neanche conosco. M'infuriavo non appena pensavo che quello che facevi a me lo facevi anche a mille altre, che i buchi del mio corpo che avevi violato non erano un mio personale primato. Ero forse egoista? Chissà, forse sì. Ma non per me. Mi sentivo come se fossi un prolungamento del tuo corpo. Quando facevamo l'amore, facendoti venire, era come se mi masturbassi. Sentivo che eravamo una sola cosa. Ma tu la pensavi diversamente.
Avevi capito chi eri amor mio? Non ne sono così sicura. Forse credevi di essere una specie di Messia sceso sulla terra a dar piacere alle donne. A tutte le donne, senza alcuna differenza fra me, fidanzata ventiquattrenne, Marta, tua cugina, parente diretta, Kelly, la più grande amica della tua fidanzata, e la cinquantenne signora Killroy, Linda, come ti scappò di chiamarla un giorno, rivelandomi, senza volerlo, che fra te e lei c'era molta più confidenza di quanto credessi.
- E' solo la madre di un'amica del mio amore. - dicevi.
Che sfacciato! Che bugiardo eri amor mio. E io ci passavo sopra. Per non farti arrabbiare, per non farmi mettere i musi, il broncio, quel broncio da ragazzino che avrei voluto strappare a morsi, da quanto mi eccitava.
Eri un bambino in queste cose. Sì, eri tu ad essere bambino. Perché, la fanciullezza la si denota solo dall'età? E i tuoi bronci? La tua immaturità? La tua continua voglia di far l'amore? I tuoi pruriti che ti portavano a tenermi le mani addosso in ogni istante? Che cos'erano? Non erano comportamenti da adolescente in calore? E quando mi costringevi a far l'amore davanti a Kelly?
- Dai! Ci ha visti tante volte! - dicevi.
Volevi farmi fare tutte quelle porcherie per sentirti adulto, mentre invece era proprio per la tua bramosia di fare quelle porcherie che restavi bambino. Negli ultimi tempi eri sfacciato, irrive-rente, menefreghista. Se passava una donna non ti facevi nessuno scrupolo a fissarla, anche se al tuo fianco c'ero io. E le mie amiche, le mie colleghe di lavoro, quelle dell'albergo, dicevano:
- Ma non lo vedi come ti tratta? Lascialo!
Loro non potevano immaginare perché ti comportavi così. Avevi paura ch'io ti prendessi non so bene cosa. Forse la tua convinzione d'essere libero. O forse la tua vita.
Dove sei amor mio? Forse nel vento, dove i fantasmi di chi non riesce a trovar pace fanno il nido. Forse sei proprio qui, accanto a me. Perché non riesco più ad amarti come quando ti vedevo? Come quando eravamo insieme? Come quando mi tradivi?
Sono stati quei tuoi libri a farti diventare così incosciente? Da quando ti proclamarono scrittore dell'anno e la gente iniziò a fermarti per strada e chiederti gli autografi, noi non parlammo più molto. Mi sentivi troppo distante per farmi partecipe del tuo successo. Iniziasti ad essere saccente, a vantarti di cose che avevano scritto gli altri. Parlavi di James Joyce come si parla di un amico, e citavi Cèline, "Le persone s'incontrano per autobus che non si prendono alla stessa ora", quasi come se quelle frasi fossero frammenti di discorsi fatti la sera prima. E come ti arrab-biavi quando qualcuno diceva che Bert Foster non era poi così male!
Che discorsi oziosi amor mio. Cose che non servivano a niente e a nessuno. Ti eri allontanato. Non ti piaceva più parlar d'amore, di sentimenti, del nostro rapporto. Quando ne parlavi usavi sem-pre le parole degli altri, di scrittori morti e sepolti, come quel tuo grande mito, Marcel Proust, che citavi sempre usandolo come “chiosa” delle tue elucubrazioni.
E poi avevi riniziato ad occuparti di politica. Cosa c'entravi tu con quel modo di viversi addosso? Cosa c'entravi con le politiche umanitarie, con l'Europa Unita, con la globalizzazione, coi com-puters e con Internet? Discorsi da ingenui che allontanano le persone dalla vita vera. E poi il Comunismo. Cosa c'entravi tu col Comunismo? E' facile diventare comunisti quando il comunismo non esiste più! E' facile prendere le distanze dalle sue miserie passate trattenendo solo il buono e buttando via il cattivo che forse è “fattore e conservatore” di quel buono che si trattiene. Dicevi che non era colpa dei comunisti. Dicevi che una delle più grandi disgrazie che possono capitare alle idee è quella di cadere nelle mani degli studiosi, degli esperti, dei laureati. Dicevi che non c'è scuola che tenga per quel che riguarda le questioni di cuore. E' vero, quella tua passione non durò tanto, ma quel poco di tempo sembrava essere bastato per trasformarti in un disilluso concla-mato e terminale.
In fondo sei sempre stato un sognatore, amor mio. Un sognatore con la voglia di cambiare qual-cosa, anche se non sapevi bene cosa. Perché hai smesso Norman? I tuoi sogni amorosi esta-siavano anche me, lo sai. Ma tu, da un giorno all'altro, iniziasti a parlar di futuro, un futuro senza di me, suppongo. Si muore quando ci si prende troppo sul serio, Norman, e tu non avevi mezze misure. Non esiste il futuro. Il tempo per essere felici era allora, e il luogo era proprio quello dov'eravamo noi. Il futuro è solo una scusa per chi non vuole fare le cose e rimanda.
Che forza avevi, amor mio. Eri talmente convinto di quello che dicevi che riuscivi a persuadermi ogni volta. Perché sono andata via quella sera? Avrei dovuto fermarmi e restare con te, accom-pagnarti a quella festa mondana, e una volta tornati a casa fare l'amore per tutta la notte. Ridendo.
Quanto abbiamo riso insieme Norman. Ho continuato a ridere fino a quella sera, anche se motivi per piangere me ne davi un sacco e una sporta. Eri tu che guidavi la carovana, per questo non hai voluto im-pegnarti con me. Tu hai sempre scelto, non ti è mai capitato di farti scegliere, come non ti è mai successo di farti cambiare. Eri tu che cambiavi gli altri, con la tua irresistibile forza di quarantenne, colto o rissoso attaccabrighe che fossi.
E ora cosa ci faccio col tuo ricordo amor mio? A cosa mi serve? A riempire il mio cuscino di lacrime calde, salate, che mi rammentano il gusto del tuo seme? Che ci faccio adesso con la mia camera? A cosa mi serve quello specchio se tu non ci sei più? E questo letto, maledetto, che come un promemoria indelebile e fisso mi tortura la carne riportandomi indietro il tuo volto, i tuoi capelli nella mia bocca, la tua bocca fra le mie gambe che mi fa sentire viva, la tua testa che si muove su di me, i tuoi denti che mi mordono il seno, devo bruciarlo? E il tuo sesso, quarantadue anni di vigore, veicolo di piacere per me e cento altre, come potrò più dimenticarlo?
“C'è sempre qualcosa con cui consolarsi per chi esce sconfitto dalle guerre”, dicevi. E cosa c'è per me, amor mio? Nulla. Eppure ho per-so. Lo dice questa carne, lo dice questa bocca.
Forse il mio premio è il ricordo che mi hai lasciato, è quel vuoto che mi farà crescere definitiva-mente, che mi costringerà a seminare qualcosa per aver poi qualcosa da raccogliere.
Perché ti ho tolto dai miei occhi quella sera? “Il desiderio non esiste se non lo possiamo applicare all'immagine di ciò che desideriamo”, dicevi. Ma io non immaginavo che non ti avrei più rivisto. Oggi ho capito che avevi ragione, perché non ti sento più come prima. Stai piano piano scivolando fuori di me, dalla mia memoria. Perché hai ucciso Bert Foster? Tu eri più grande di lui, lo sape-vano tutti, non c'era bisogno di fare quel che hai fatto. Ti sei cancellato dalla lavagna della mia vita, ti sei sottratto alla forza delle mie braccia, hai asciugato la saliva che mi lasciavi sulla bocca. Questo che sto vivendo è un altro mondo, un'altra vita, senza di te.
- La vita non dipende da quello che hai.
Quando parlavi così non ti riconoscevo. Non mi piaceva granché la tua nuova versione. Mi ero innamorata dello scrittore superficiale che a letto usava il turpiloquio, non del fatalista che eri diventato. Chi era questo idealista che si era impossessato di te? Capii che i tuoi erano solo vaghi cedimenti, momenti di sconforto, perché poi ti riprendevi, ma avevo paura delle tue trasfor-mazioni. Lo so, il richia-mo della disillusione è più forte di qualsiasi cosa, ma c'ero io con te, non ti avrei mai abbandonato.
Mentre questa pioggia riga il vetro della mia finestra proprio come le lacrime rigano il mio viso, e il mondo si sta già dimenticando della tua esistenza, quel che mi preoccupa di più è se domani riuscirò ancora a ricordare la tua faccia. Forse non ne sarò capace, amor mio, e, se questo acca-drà, ti chiedo già oggi di perdonarmi.

IV.

Norman si ritrovò in ginocchio davanti al vetro della finestra. Piangeva, anche se l'impressione era quella di non aver capito molto. Erano appena le cinque del mattino e a lui sembrava d'aver vissuto un'avventura lunga un anno.
Cos'erano quelle immagini che il giovane cronista gli avevano fatto vedere? Cosa significavano? Sicuramente non la stessa cosa per tutti e due i personaggi.
Norman aveva avuto il sentore che Dirty fingesse di stare al gioco, ma che in realtà lo stesse subendo. Chissà, forse in quel momento avrebbe voluto trovarsi da tutt'altra parte, a tentare giovani adolescenti o preti bavosi. Il giovane cronista, invece, pareva avere un obiettivo, anche se al nostro giallista pentito sfuggiva. Norman, fino a quel momento, probabilmente perché troppo preso dalle chiacchiere, aveva vissuto il tutto come si vive un incubo reale, di quelli che solo al nostro risveglio riconosciamo tali. Poi, riprendendosi non solo dal suo stato d'abbattimento ma anche da una sorta d'intorpidimento mentale, da una fossilizzazione delle sue capacità astrattive, rifletté e capì. Fissò il giovane cronista che, sorridente, ricambiò la sua fulminante occhiata.
- Su Norman - disse - non c'è nulla di cui aver paura. Fai quello che, sai, bisogna fare. Combatti i tuoi timori e affronta la vita come viene.
- Io l'affronto come viene, - rispose Norman - ma guarda caso quando viene da me è brutta, travestita da Befana inguardabile, portatrice di carbonifere sofferenze. Chissà, non è inverosimile che in realtà sia questo che mi spetta.
- Non dargli retta, Norman. - disse Dirty dall'invisibile - Questo vuol farti costituire. A me non interessa più nulla, il libro l'hai scritto e me lo hai dato, ma lui non ti sta dicendo tutta la verità, credimi.
- Mi stai dando del “bugiardo” un'altra volta! - disse il giovane cronista alquanto arrabbiato - Basta! Voi, portatelo via!
- Arrivederci Norman. - disse Dirty ridendo - Ci vedremo presto.
Norman, che girava la testa a destra e a manca seguendo l'ordine consecutivo dei rumori che sentiva arrivare, era sbalestrato, non capiva nulla. Il viso del giovane cronista era paonazzo di rabbia, ma appena i rumori finirono si voltò verso Norman ritrovando la sua pacatezza e la sua solita espressione bonaria.
- Mi vuoi dire cosa sta succedendo? - chiese Norman.
- A cosa ti riferisci? A tutti questi rumori che senti?
- E a cosa se no? Non vedo un cazzo!
- Niente di speciale. - disse il giornalista - Il tuo amico mi ha stufato, e allora ho chiamato un po' di rinforzi, qual che centinaio di angeli, e l'ho costretto ad andare via.
- E' vero quello che ha detto?
- A quali delle cose che ha detto ti riferisci? Ne ha detto tante!
- Che vuoi convincermi a costituirmi.
- Certo che è vero. - rispose il giovane cronista.
- Perché dovrei farlo?
- Per salvarti dalla cattiva strada che hai intrapreso, Norman.
- E finire i miei giorni in galera? Grazie, non ci tengo.
- Non è mica detto. Potresti patteggiare e cavartela col minimo della pena prevista.
- Ho capito, ho capito. Ma dimmi, perché dovrei arrendermi dal momento che sono già al sicuro dalla giustizia?
- La giustizia non appartiene a questo mondo. Un colpevole non può essere al sicuro dalla giu-stizia mai, perché essa ha la possibilità di raggiungerlo in capo al mondo. Costituisciti.
- Io ho già fatto la mia scelta. - rispose serio Norman – Voglio continuare ad essere un uomo libe-ro.
- Libertà! - sbottò il giovane cronista - Non ne hai visto abbastanza di significati che quel vocabo-lo ha? Non ti è bastato vivere in questo mondo per capirlo? La libertà non esiste, non è mai esi-stita. Da sem-pre ti hanno lasciato libero di fare quello che dicevano i potenti, e questa non è libertà. Anche per noi è così. O sei schiavo di Dio o sei schiavo di Satana. Lo sai perché i martiri sono considerati tali? Rispondimi Norman.
- Mah, penso perché hanno testimoniato con la loro morte la fede che avevano. - rispose lo scrit-tore.
- Fino alla loro morte, Norman, e non “con la loro morte”. C'è differenza. E cos'hanno testimo-niato? La libertà di credere in Dio? O cos'altro? Dimmelo su.
- Hanno testimoniato le loro idee.
- E sai cosa se ne faceva Dio delle loro idee?
- Che cosa? - chiese Norman un po' ingenuamente.
- Dai, non farmi essere volgare. - rispose il giovane cronista girando la testa da un lato - E' troppo poco, Norman. Risposta incompleta. Forza che ci arrivi.
- La volontà di seguire le Leggi di Dio nella buona e nella cattiva sorte. - disse il giallista.
- Altrimenti? Quali altre leggi avrebbero seguito?
- Quelle di chi li metteva a morte.
- E quindi di chi?
- Mah.......................del mondo forse.....................
- E' poco, Norman.
- Basta! Dimmelo tu!
- Ti ho appena detto: “O sei schiavo di Dio o sei schiavo di Satana”. I cristiani veri, come tutti i cittadini del mondo, vogliono essere uomini e donne liberi. Ma non vogliono essere liberi dalle Leggi morali di Dio, perché vorrebbe dire essere schiavi del Diavolo. “Il mondo giace sotto il po-tere del malvagio”, ricordi? “Libertà” è una bella parola, ma nessuno può essere davvero libero. Voi uomini siete dei bambini che vanno seguiti costantemente, altrimenti finite sotto la schiavitù di Satana e fate danni incommensurabili. “Io non faccio parte del mondo come voi non fate parte del mondo”, rammenti Norman? Far parte del mondo significa prendere parte agli affari del Dia-volo.
- Certo, certo che lo ricordo. - rispose Norman fiacco e a voce bassa.
- E allora? Cosa significa? I veri cristiani, pur rispettando le leggi dello Stato in cui vivono, non devono prendere parte alle attività del mondo, perché questo vorrebbe dire caricare su sé stessi responsabilità di un calice che non gli spetta, che spetta di bere al Diavolo. O sei con me o sei contro di me. Non c'è altra scelta, Norman.
- Ma se avere una parte col mondo significa avere una parte col Diavolo, allora perché vuoi farmi costituire? E' come se mi consegnassi al Diavolo!
- No! Perché ciò che hai fatto è un delitto per il mondo quanto per Dio. Anzi più per Dio, perché fu lui, e non il mondo, a dire "Non devi uccidere". Dammi retta Norman, è meglio che tu paga adesso quello che ti spetta. Il rimorso lacera le carni, spesso porta alla morte. E poi da latitante che razza di vita faresti? Saresti un fuggitivo fino alla morte.
- In maniera e quantità diverse siamo tutti dei fuggitivi.
- Questa è Filosofia Norman, non vita reale.
- Lo so, anche Dirty me lo diceva spesso. Ma chissà che non serva a qualcosa. - commentò Nor-man speranzoso.
- E a cosa? Ad arrampicarsi sugli specchi. "Farò perire la sapienza dei saggi, e spazzerò via l'intelligenza degli intellettuali", disse Dio ai suoi profeti. Nessuno sarà in grado di stare fiero davanti a lui se non colui del quale Dio si è compiaciuto
- E' da scemi! Ormai l'ho fatta franca! - urlò Norman disperato.
- E allora gioisci Norman! Poiché la stoltezza di Dio ha più valore della saggezza degli uomini, e ciò che dagli uomini è considerata “stupidità” presso Dio è rettitudine e virtù. Su Norman, prepara i bagagli. Tu non sei un assassino, non lo sei mai stato, non diventarlo ora.
Norman si alzò dal letto e bevve l'ultimo goccio di Bourbon. Abbassata la bottiglia il giornalista era sparito. Guardò l'orologio. Erano le cinque del mattino. Fu un attimo. Prese la valigia e ci mise tutta la sua roba dentro. Si pettinò e, con la borsa in spalla, uscì dalla camera. La famiglia alba-nese si era alzata di buon'ora. Con poche parole e qualche gesto fece capire che andava via. I cin-que lo salutarono riverenti e lo accompagnarono alla porta. Fatti pochi passi tornò indietro e chiamò la bambina. Aveva in tasca quasi tre milioni, per tornare a Genova sarebbero bastati. Tirò fuori il libretto al portatore che la Banca gli aveva rilasciato quando versò quella piccola for-tuna, e lo mise in mano alla bambina.
- Mi raccomando, fallo vedere solo a tua madre. - disse.
La bambina, con ancora addosso il camicione bianco, lo guardò seria e spaurita come sempre. Norman le diede un bacio su una guancia e riprese il suo cammino con perplessità, chiedendosi ancora cos'era successo quella notte.
La bambina sorrise senza rispondere al suo saluto.

COME ESAU'


I.


“La democrazia è il peggior sistema politico esclusi tutti gli altri”. Queste parole, dette da Wiston Churchill, vennero in mente a Nor-man mentre entrava alla stazione di Brindisi. Lo statista inglese poteva anche avere ragione, ma lui non considerava la “teocrazia” come un sistema politico possibile. E perché mai? Perché la convinzione che la religione sia misticismo trasforma la realtà di Dio in una favola, in mito, in racconto fantastico. Forse per colpa delle religioni conven-zionali. Ma la fede, la religione, la “credenza in Dio”, dev'essere deduttiva non mistica. Per esempio. C'è gente che pur credendo in Dio non crede all'esistenza dell'anima. E questo ragiona-mento è semplice e naturale; l'anima non esiste perché “non batte colpo”, mentre la presenza e l'esistenza di Dio si deduce dalle cose fatte, perché si vedono.
Norman era convinto che il pentimento fosse uno stato d'animo che si raggiunge insieme, o im-mediatamente dopo, al rimorso, che fosse, insomma, una specie di “osmosi penitenziale”. Il cuore passa alla coscienza il suo dispiacere per i reati commessi, e questa, come un prete in un con-fessionale, gli restituisce ciò che secondo lei è la pena adeguata: il rimorso.
Quell'oggi Norman si domandava; il livello di gravità del contrappasso è direttamente propor-zionato, e proporzionabile, alla causa? Si sente più o meno rimorso in base al delitto che si è com-messo? E il rimorso è già una pena?
Il pentimento è l'accettazione del contraddittorio, è il risultato che il rimorso raggiunge per-mettendoci di autogiudicarci e di comprendere che abbiamo sbagliato. Una specie di giustizia in-terna. Ma a cosa e confrontabile? E’ universale? E quanto c'entra la società, il mondo in cui viviamo, la sua educazione, le regole che si è imposto, i suoi luoghi comuni, la condizione del sin-golo individuo, in tutto questo?
I musulmani non mangiano il maiale, i cristiani sì. Quando ognuno dei due individui di religione diversa mangia il maiale, la sua coscienza reagisce in modi differenti; per il musulmano è una grave trasgressione, per il cristiano soltanto un cibo come un altro. Allora, si diceva Norman, si deve considerare il reato non in base alle Leggi secolari che lo Stato e la società si sono dati e nei quali il reato è stato consumato, ma coi parametri a cui la coscienza dell'individuo che lo ha com-messo è abituata.
La nostra educazione è indirizzata in maniera che quando sbagliamo per prima è la nostra coscienza a farcelo capire. Quindi, tale processo potrebbe voler dire che più rimorso si ha più si è sbagliato. E il pentimento è l'accettazione da parte dell'individuo di quel che la sua coscienza gli rinfaccia. Ma quando contestualizziamo?
Norman sentiva che il rimorso lo stava divorando. Ma il pentimento, che pure era concreto, era una pena che il suo cervello, e la sua persona tutta, stavano già pagando? E per cosa era pentito?
No, Norman non era pentito o dispiaciuto per aver ucciso Bert Foster, o meglio, era pentito d'aver tolto la vita ad un uomo come lui, che respirava, che aveva ricordi e affetti, ma che questi fosse Bert Foster non gli interessava minimamente, anzi, pensare che era proprio quella la persona a cui aveva tolto la vita era l'unico sollievo, l'unico mezzo per alleviare il cocente rimorso che provava, e che, quando non rendeva impersonale la vittima, lo torturava indicibilmente.
- Per Genova. Sola andata, grazie. - disse rivolto al bigliettaio della piccola stazione di Brindisi.
Questi lo guardò bonariamente, con un sorriso triste su una faccia fastidiosamente melliflua e compassionevole. Norman ne rimase sospettoso. Ma forse era una sua impressione.
Il “Raskolnikov” di Dostoevskij crede di essere osservato in ogni occasione, e in quel racconto si capisce chiaramente che la sua scopofobia è dovuta al rimorso causatogli da quel che ha com-messo. Norman, che credeva assai poco al valore della confessione, quel giorno, in treno, rivalutò la figura dell'analista, dello Psicologo che scruta, indaga, che è portato sempre e comunque al per-dono, e che permette un contrappasso più semplice e meno frustrante in denaro.
“Ma non sarebbe più facile pagare col denaro? “, si disse, “Un milione di qua, un milione di là....................Offendi una persona cara? Cinque milioni. Offendi qualcuno di cui non t'importa nulla? Tre-centomila lire. Che poi ritornano, perché anche tu puoi essere offeso. Un baratto. “Il Grande Mercato delle Pene”. E se togli la vita?”
Non trovò adeguato risarcimento, nei suoi pensieri.
Sovente si sente dire in giro che colui il quale commette un reato, per quanto efferato possa esse-re, non si merita l’appellativo di “mostro”. Molti asseriscono che questo “battesimo” è solo uno stratagemma per esorcizzare le nostre paure, così che indicando come “mostro” un assassino crediamo di toglierci ogni responsabilità. Ma essere buonisti non risolve la questione. Mostro è chi compie mostruosità, così come chi tira su dei muri è muratore e chi dice stronzate è uno stronzo. Certo, quel muratore sarà anche un padre di famiglia, un tifoso di una squadra di Calcio, un appassionato di pesca, ma è anche un muratore, così come chi compie mostruosità, oltre ad essere dell’altro, è, forse soltanto in uno spicchio della sua vita, un mostro.
Dopo parecchie ore di viaggio giunse infine a destinazione, a Genova. Scese dal treno e uscì dalla stazione. Tutto era uguale. L'Hotel Hilton era sempre lì, ingordo, affamato di turisti, piedistallo di un grattacielo molle, catacresico, un trampolino fittizio verso l'immensità di Dio. All'improvviso le scene di quella sera riaffiorarono nella sua mente. Il carrello da cucina, il coltello, tutto quel sangue, la povera Kate, la corsa verso l'ospedale, il Bourbon in quel Bar, Dirty.…........
Continuò a camminare e raggiunse un posto di Polizia. Guardò l'orologio. Erano le cinque del pomeriggio. “Un ultimo Bourbon”, si disse ad alta voce. Si allontanò di qualche decina di metri e, attraversando la strada, entrò in un Bar. Ordinò un Bourbon e si sedette a un tavolino. Chissà, forse inconsciamente sperava che un altro Dirty, che fosse il Diavolo o il “salvatore”, arrivasse e portasse in lui quella frenesia, quell'irrazionalità che la prima volta gli aveva fatto decidere per la fuga, ma non arrivò nessuno.
Rimuginando pensò di essere un coniglio, uno che non vuole assumersi nessuna responsabilità nelle sue scelte solo per poter dare poi la colpa ad altri nell'eventualità che avesse commesso qualche crimine, qualche scemenza, o, comunque, della cattiva strada che aveva intrapreso. Ma non si sentì preoccupato per questo, anzi ne sorrise benevolo.
- Pare proprio che anch'io sia passato dalla parte dei gatti neri finti, - sorrise - del personaggio superficiale di “On the road”, che faccia di tutto per deresponsabilizzarmi. O forse voglio solo so-stituire la responsabilità della galera per omicidio con quella della latitanza. Una suffragetta. Una donna moderna, in carriera, alla quale non interessa più avere le responsabilità della madre educatrice e della moglie innamorata, ma quelle del marito, dell'operaio, dell'impiegato, del di-rigente.
Finito il Bourbon si recò alla Cassa e pagò. Poi, dato che non succe-deva niente, uscì dal Bar e si accese una sigaretta. Passò un autobus. Norman lo guardò. Fu tentato di prenderlo, ma la sua poca lena e l'indecisione glielo impedirono, e allora lo lasciò scappar via. Guardò il posto di Polizia, dall'altra parte della strada. Ci pensò. Non se la sentiva. Non ancora.
Senza una ragione visibile gli venne in mente Esaù, che vendette la sua primogenitura per un piatto di lenticchie. Anche lui tentava di piangere per dimostrare un pentimento che ancora non aveva raggiunto, e anche lui non ci riusciva.
Ipocrisia. Pentimento. E' strano come questi due sentimenti, questi due stati d'animo, dipendano reciprocamente uno dall'altro, come non abbiano un confine visibile. Sovente accade che quando ci comportiamo da ipocriti e poi ci pentiamo, passando attraverso stati d'animo molto diversi fra loro, crediamo di essere più puliti, e che il mondo se ne accorga e ritorni ad apprezzarci. In realtà siamo solo vittime di un'autoconvincimento, un'automanipolazione del nostro intelletto, perché fuori, intorno a noi, nulla è cambiato, e basta solo che ce ne capiti l'occasione per farci ritornare la tentazione di mentire e di mentirci, per ricascare in quello stato ipocrita da cui eravamo partiti. La frontiera, il confine, si è spostato nuovamente in avanti, e a noi pare così naturale che spesso non ci rendiamo neanche conto del nostro ritrovato stato mentale. Generalmente, se non siamo troppo egoisti, raggiungiamo il pentimento vero solo quando vediamo da vicino quello che abbia-mo causato col nostro comportamento, il risultato della nostra ipocrisia. Se neanche allora venia-mo scossi da un moto di rimorso, significa che non c'è rimedio ai nostri egoismi, al nostro odio, alla nostra ipocrisia.
Solo se ci pentiamo riusciamo a rimproverarci certe azioni, ma non è detto che sia sempre un fatto degno di nota. Accade così che siamo ipocriti a corrente alternata. Che ridere. Non siamo capaci neppure di essere ipocriti, almeno, non fino in fondo, non come lo stato vigente delle cose richiederebbe per rilasciarci la “patente di carogne”. Non siamo capaci di odiare, non in modo preciso, cioè senza troppa fatica. E allora succede che abbandoniamo pezzi di egoismo, che la-sciamo cadere sotto la tavola imbandita briciole di rabbia, di gelosia furba e d'ingenua cattiveria. Ci facciamo persuadere dal nostro cuore ad odiare di meno, e così finiamo per pentirci. Ma lo fac-ciamo solo perché abbiamo paura d'essere scoperti, paura dell'estremo giudizio, d'essere condan-nati, e quindi anche questo pentimento, sebbene sia reale per noi e anche per gli altri, sfocia ancora in una squallida ipocrisia, proprio la stessa ipocrisia da cui ci eravamo illusi di scampare pentendoci. Ma è proprio il motivo di quel pentimento a farci tornare ipocriti. In questo modo diamo vita ad un circolo vizioso senza capo né coda, senza via d'uscita, senza speranza né rimedio.
Queste considerazioni affollarono la mente di Norman fino ad offuscargli la vista, ad intoppargli il cervello. Allora capì che più di ogni altra cosa, più che scrittore, più che assassino, più che alco-lizzato, più che viaggiatore, più che menefreghista, più che vanitoso, più che egoista, più che casi-nista, più che ricco, più che solo, più che uomo, Norman Bates era un ipocrita, uno che piangeva quando vedeva da vicino quello che aveva causato agli uomini e a sé stesso, ma che appena di-stante da quelle disgrazie si dimentica tutto, la sofferenza, le lacrime, perfino la sua sofferenza, perfino le sue lacrime.
- Non c'è limite al peggio. - si ribadì convinto.
E' incredibile come le nostre capacità astrattive ci portino a valutare diversamente due situazioni identiche solo perché in una siamo coinvolti noi. La nostra capacità di giudicare, di confrontare, di paragonare, di fare differenze, ne risente, e noi ci persuadiamo d'essere diversi dagli altri, sep-pur uguali nei delitti, perché a quei criminali, a tutti coloro che hanno commesso un reato o sol-tanto un'azione meschina, mancavano le ragioni per compierla; non erano noi. Noi possiamo far tutto, perché avremo sempre e comunque la benevolenza di un Giudice supremo che ci giudi-cherà. Noi stessi.
Norman, appoggiato allo stipite della porta del Bar, vide passare un altro autobus. La fermata era a pochi metri da lui, ma lo lasciò andar via ugualmente. Non sapeva minimamente cosa stava aspettando. Forse che la salvezza gli andasse incontro e lo soffocasse con le sue enormi tette, co-me una “mamma felliniana” vezzeggia il suo bambino. O forse attendeva solo la Morte, unico contrappasso possibile per ciò che aveva commesso. La morte stessa, intendiamoci, non qualcu-no che lo “mettesse a morte”, perché l'animo dell'ipocrita non ammette d'esser vittima dello stes-so reato che ha commesso lui.
Forse soltanto in quella via, accanto a quel Bar, si rese conto di essere una contraddizione vi-vente, una mezza figura retorica, un ossimoro che cammina, con le gambe tanto lunghe da poter fare un passo avanti e uno indietro e ogni volta finire un po' più in là rispetto all'orma lasciata in precedenza. Ma il guaio delle orme è che rimangono. Come fare per cancellarle? Forse provare a fermare questa persona che sta passando, con una scusa qualunque. Chiedergli se ci fa accendere la sigaretta, “perché sa, ero in ritardo e sono uscito di casa dimenticando l'accendino”, e cogliere, da una parola che inavvertitamente gli scappa, una soluzione definitiva. E se ci risponde a mono-sillabi o con un laconico “si”? Non tutto è perduto. Possiamo cercare d'interpretarlo, sentirne l'inflessione, catturarne l'accento, addirittura analizzare il suo alito e scoprire perché puzza e di cosa, imprimere in noi il suo sguardo quando risponde e dargli un significato logico, che abbia a che fare con noi e col nostro status di ricercati. Del resto in questo paese, politica insegna, dire “si” o “no” non basta più, è necessario spiegare il senso e le motivazioni di quei “si” e di quei “no”, studiarsi la storia politica, da dove vengono e perché, le ragioni degli uni e le ragioni degli altri.
- Scusi, ha mica da farmi accendere la sigaretta? - chiese Norman ad un passante. Questi annuì distrattamente, senza guardarlo, e, frugan-do nelle tasche della giacca, tirò fuori un'accendino di plastica. Provò una, due, tre volte, ed ecco che la fiamma sbocciò. Basta insistere, le risposte ar-rivano.
- Grazie mille. - disse Norman con un sorriso di circostanza.
L'uomo riprese il suo cammino senza dire una parola, come se fino a quel momento fosse stato fermo davanti al rosso di un semaforo. Norman lo guardò di spalle, mentre si allontanava.
- Neanche “prego” mi ha detto.
Allora, dal momento che non aveva avuta l'opportunità, data dall'acciarino avventizio, di vestire i panni dell'esegeta, prese fiato e fece una breve corsa per non farsi scappare il terzo autobus.

II.

A volte pare che il mondo cammini a testa in giù, come un'equilibrista, un saltimbanco, un buffone. Questa palla sorniona che rotola nell’Universo, e che sembra capitata lì per caso, a volte pare solo perpetuare un errore, o, come quei piazzisti che non capiscono d’importunare con le lo-ro insistenze, un fastidio che soltanto la nostra buona educazione non gli fa notare. Bisognerebbe avere la sfacciataggine di mandarlo al diavolo una volta per tutte, questo porco, e cercare altri mondi più adatti a ciò che sentiamo dentro, a quel che succede.
Salito sul autobus Norman vide il controllore e subito si preoccupò di alzare la voce e dirgli:
- L'ho preso al volo! Posso fare il biglietto qui, sul autobus?
- Sssssh! Non mi secchi! - rispose il signore parlando sottovoce - Non vede che sto ascoltando questo ragazzo?
Infatti, nel mezzo di un capannello di persone intente ad ascoltarlo, c'era un ragazzo che stava raccontando una strana storia, che lui diceva esser quella della sua vita. Anche Norman si avvicinò al gruppo di persone e si mise ad ascoltare quel racconto.
Il ragazzo sembrava trasandato, forse un tossicodipendente o un barbone. Aveva la pelle olivastra, limacciosa, e i suoi occhi verdi, che in quella faccia erano chiaramente fuori posto, sem-bravano presi a nolo. Aveva le mani lunghe e le dita sottili. Non sembrava esperto di qualcosa, ma parlava ugualmente come un insegnante; veloce e in modo corretto.

"Ricordo che vennero ad abitare nel nostro quartiere verso la fine degli anni settanta. All’epoca i loro figli erano quasi tutti piccoli. La signora Carmela era una di quelle donnone che avrei visto meglio a fare la guardia in un carcere femminile. Aveva due spalle da portuale, due tette che sarebbero state da considerare armi improprie, una parlata da vicoli di Napoli, certamente bella ma alquanto gutturale, e un culo che tradiva le sue origini contadine, un po' formoso ma ancora duro come una tegola sulla testa.
Papà Pino, al secolo Giuseppe Iacopone, era il classico cacciaballe. Se tu avevi conosciuto Mara-dona lui aveva un fratello calzolaio che gli aveva fatto le scarpe, in tutti i sensi, e una sorella di cui il Pibe de Oro era follemente innamorato. Perennemente disoccupato gli piaceva comunque parlar di lavoro, “per ricordare i bei tempi andati” diceva, ma soprattutto discutere di Politica.
Questa coppia di squinternati aveva una decina di figli, stimati fino all'87. Il mio preferito, amico per la pelle, era Carlo, il colto di casa Iacopone. Eravamo molto uniti. Fu con lui che iniziai a farmi, ma non ci univa solo la droga. Eravamo tutti e due appassionati di Letteratura, di Calcio e delle sue sorelle. In realtà non erano proprio le sue sorelle, perché Carlo era figlio solo di suo padre, anche se la signora Carmela, sua matrigna, lo trattava come gli altri figli. Di sorelle ne aveva la bellezza di cinque. Due facevano la “vita”, una era sposata ed era andata a vivere in un'altra città, e le altre due abitavano con la famiglia. Con una di queste Carlo mi disse di avere frequenti rapporti carnali. Io subito mi stupii, ma quando ebbi modo di conoscere l'intera famiglia capii che una cosa del genere, in quel casino, poteva anche essere normale.
Carlo era simpatico. Come ho già detto avevamo gli stessi gusti, e i gusti sono la cosa più im-portante nella vita degli individui”.

Tutti dissero che era vero, compreso Norman.

“Insomma, eravamo due compari. Un giorno si mise in testa di spacciare eroina. Io ero d'accordo e iniziai ad aiutarlo. Gli facevo da galoppino e da palo quando andavamo a caricare la droga. A finire in galera o morti d'overdose non ci pensavamo, e a smettere neanche a parlarne. Non spacciavamo perché volevamo sfidare la Legge o altre simili cazzate, ma per mantenerci la scim-mia e un certo modo di esistere che ormai era la nostra vita. Smettere avrebbe voluto dire rico-minciare da capo, rinascere nel vero senso della parola, come un neonato impara a parlare, a camminare o a mangiare da solo, e noi eravamo troppo stanchi e consumati dentro per ritornare a vivere senza quel rito del buco che ormai era diventato un gesto naturale come mettersi le scarpe o cacare.
Il drogato, più che altro, è un soggetto smarrito che non sa trovarsi un luogo o un gruppo d'ag-gregazione perché non si sente rappresentato, come pensiero e come persona, da ciò che lo circonda. Il drogato non ha il passo della società, che va così veloce, lui ha bisogno di più tempo. Il drogato è un reduce dei tempi migliori dell'adolescenza. Almeno, in genere è così.
Noi eravamo stati catapultati dai campetti di calcio di periferia, che man mano si svuotavano, ai cortei delle piazze, senza un nesso visibile che ci coinvolgesse debitamente, senza nessuno che ci spiegasse il perché bisognava crescere o perché bisognava cambiare e in quale direzione farlo. Perché il mondo non ci aspetta? Ci chiedevamo. Ma chi è che vuol farsi raggiungere, oggi? Perché si cresce?
Che parola stupida!
Noi eravamo convinti che quelli che si aggregano hanno bisogno di sentirsi "massa" perché nella massa è più facile tirare la pietra e nascondere la mano, perché nella massa è più semplice mascherare le proprie pochezze. Ma quanto più di loro eravamo coraggiosi noi? L'unica cosa di cui eravamo consci era che volevamo rifiutare il mondo. Volevamo sentirci liberi di fare i nostri comodi, ma siccome il mondo, ipocrita, non ce lo permetteva, allora noi l'abbiamo rifiutato, allontanandocene definitivamente".

- Bravi! - dissero i passeggeri tutti insieme.
“Pensa te”, pensò Norman, “sono ritenuti bravi perché hanno rifiutato il mondo. Come se l'unica strada per rifiutarlo fosse drogarsi! Se sapessero che io è ventanni che lo rifiuto, cosa mi farebbero? Presidente della Repubblica? E poi di nuovo con la libertà no, eh! Non se ne può più, non se ne può più!”

"Poi arrivò la galera. Una sera andammo a caricare la droga e Carlo litigò con l'Esposito, il pusher, così questo non voleva più dargli l'eroina. Preso da un raptus, Carlo gli diede una coltellata nello stomaco, e lui se ne andò in pochi secondi.
Ora che sono nel vento, tutte le volte che ripenso a quel ragazzo mi sento come una pianta, come una pietra, senza vita alcuna. Spero di non incontrarlo mai, qui. Da come è morto dovrebbe esse-re riuscito a farsi accettare dentro senza problemi. L'unico esposto alle intemperie da qui all'eter-nità sono io”.

Norman guardò il controllore con un sorriso sulla faccia. “Dio mio”, pensò, “proprio un pazzo cacciaballe doveva capitarci, eh? E guarda come lo ascoltano! Va bene assecondarlo, ma così si è suoi complici”.

“Dopo qualche giorno la Polizia venne a casa nostra e ci arrestò. Finimmo in galera. Carlo divenne famoso come “l'accoltellatore di Piazza Garibaldi”, io, pur finendo in galera con lui, rimasi nel-l'anonimato. La galera! Per tanto tempo ne avevamo parlato, e ora provavamo davvero quello che era.
Oggi sento che il vento mi trasporta, e, insieme a tutti voi, mi chiedo se è necessaria questa specie di “non-vita”, se per noi non fosse stato meglio che l'aldilà non fosse esistito. Ma ora, qui, tutto si rassomiglia, e perfino i viventi, in mezzo ai quali viviamo, non si accorgono di noi, della nostra esistenza, di ciò che siamo, del nostro mondo, della nostra sofferenza. Quel che più mi infastidisce di questo stato è l'assoluta confusione che tutti noi facciamo fra presente, passato e futuro. Non esiste tempo, qui. Tutto si risolve in un trascinarsi senza scopo".

Norman, al quale per un istante parve di aver già sentito quei nomi, fissò un viaggiante, sul cui gli era capitato di posare il suo sguardo, facendo una smorfia come per dire: “Ma lasciamolo per-dere! Non lo vedete che è pazzo?”

“Della galera non voglio parlare. Quelli che escono dicono che aiuta a crescere, a capire, a vivere. Quelli che entrano che aiuta a morire. Comunque io non cambiai. Chi cambiò fu Carlo. Divenne duro, aspro, mai disposto a lasciar perdere e rissoso. A lui avevano dato quindicianni, ma non ne fece più di cinque. E così io, che in quell’omicidio avevo solo responsabilità oggettive. Una volta fuori c'era chi ci guardava male e chi ci esaltava. Io avevo perso casa. La mia padrona, vedendo che non uscivo più, l'affittò ad una famiglia per bene. Fu allora che Carlo mi venne incontro ospitandomi a casa sua. La famiglia Iacopone, in quei cinque anni, era cambiata. Papà Pino era morto, investito da un camion. La famiglia prese dei bei soldini che l'aiutarono ad andare avanti. La signora Carmela però dovette andare a lavorare, anche perché le due sorelle di Carlo ave-vano iniziato anche loro a bucarsi.
Carlo volle subito rimettersi a spacciare. Trovò da caricare a credito e ci rimettemmo in piazza. Le sue intenzioni, che erano quelle di spacciare senza farsi, si volatilizzarono in un paio di giorni. Così riprendemmo a bucarci. Io non avevo problemi con la droga, a parte la scimmia, ma Carlo dava segni di non sopportarla più molto bene. Stava impazzendo, piano piano, stava impazzendo. Me ne resi conto definitivamente quando, una notte che mi svegliai in astinenza e lo cercai per farmi dare un po' di roba, lo trovai in camera con la sua matrigna. Non stavano parlando. Certo, non era la sua vera madre, ma penso che un po' di rispetto ci voglia anche nei confronti dei geni-tori adottivi! Qualche giorno dopo seppi che continuava ad andare a letto anche con Grazia, la più grande delle due sorelle che vivevano con noi. A me non interessava, intendiamoci, io ero lì per aiutarlo a spacciare e per farmi gratis, ma il suo stato iniziava a preoccuparmi. Ben presto il mio amico divenne sempre più sgarbato, e la nostra amicizia cominciò a scemare. Fra noi scese una sorta di gelo.
Un gelo molto simile a quello che sento ora. Vedete? Batto i denti come un mendicante che al-l'aperto delle strade elemosina la vita. Nonostante siamo in molti e ci passiamo accanto, affollan-do l'aria, non abbiamo il diritto di volerci bene. Amare non ci è permesso che nei ricordi. Ognuno di noi, è certo, nasconde qualche atroce verità, e, anche quando racconta come sto facendo io, non si saprà mai se quello che dice è vero oppure no. Molti di voi, come me, si chiedono quanto tutto questo durerà, se sarà una condizione passeggera o l'eternità. Nessuno vi dirà nulla. Per puni-zione o per negligenza, non so. Forse perché ignari anche loro. E' questa la morte? Io ho smesso di chiedermelo. Chissà, forse sì. Una grande sala d'aspetto dove nessuno può far nulla, non può preoccuparsi di come sta, di com'è vestito, di come si sente. Non ci vediamo allo specchio se non con le forme e le sembianze di qualcun altro, ma soprattutto non possiamo amare. Credo che sia perché ciascuno di noi si porta dietro lo stato d'animo col quale se n'è andato ed è arrivato qui, in questo luogo in cui si aspetta, per l'eternità, soltanto d'essere chiamati”.

Norman si stancò. Era nervoso e non capiva perché. Poi afferrò un viaggiante ad un braccio e, spostandosi di un metro e parlandogli nell'orecchio, gli domandò:
- Ma cosa sta dicendo? Perché gli date retta? E' un pazzo!
Questi lo ascoltò e, con un sorriso compassionevole, gli diede un buffetto su una guancia. Poi, con gli occhi lucidi, rispose:
- Ascoltalo, è una bella esperienza, e imparerai molte cose interessanti.

"Carlo peggiorò sempre più, e piuttosto alla svelta. Ci davano un sacco di roba da vendere e lui si faceva ormai come una fogna. Si era comprato anche una pistola, e la tirava fuori continuamente facendo il gradasso.
Martina, la sorella più piccola, nel frattempo aveva smesso di chiederci l'eroina e usciva sempre più spesso. Mi ero innamorato di lei, ma aveva un fidanzato, anche se si faceva, e a me non ri-volgeva neppure lo sguardo. Comunque sia. Noi ci chiedemmo il perché di questo suo cam-biamento, e indagando venimmo a sapere che stava frequentando una comunità per smettere di drogarsi. Ci risi sopra e sbagliai. Almeno lei ci stava provando.
Un giorno torno a casa e trovo la Polizia dentro il portone e il palazzo circondato da curiosi. "Alè", mi dissi, "hanno arrestato Carlo". L'avevano arrestato, ma non perché spacciava, era molto peg-gio.
Da qualche tempo si era convinto che la sua matrigna, la sua amante, lo tradiva con un altro uomo. Così la minacciava continuamente con la pistola. Lei mi aveva già detto d'aver paura, ma a me sembrava inverosimile che Carlo volesse farle del male. Quel giorno era tornato a casa con la maniacale perversione di far andare a letto insieme la signora Carmela e Grazia. Ma Grazia era sua figlia naturale, e lei si era rifiutata. Allora Carlo, sicuramente preso da un raptus, gli sparò contro due colpi di pistola. Morì subito. Poi cercò Grazia, che nel frattempo si era nascosta. La trovò e sparò addosso a lei altri due colpi. Ne aveva ancora due, nel tamburo della sua trentotto. Uscì. Forse aveva l'intenzione di uccidere anche Martina, o forse me. Per fortuna la Polizia arrivò in cinque minuti, e lui si trovò ammanettato alla ringhiera della scala del suo portone.
E' strano come ora, qui, io non riesca a provare assolutamente nulla, fisicamente. Certo, i sen-timenti ci sono ancora, ma pare trasmettano le conseguenze fisiche a qualcun altro. Talvolta sen-to che potrei ancora provare amore o odio, ma il mio corpo, come se fosse un pozzo senza fondo, non riesce a trattenerli, e così lascia scivolare via tutto, sia i sentimenti che il dolore che essi mi provocano.
Di tanto in tanto le emozioni di tutta una vita vengono a tormentarmi ma, senza ch'io ne abbia colpa o merito, non riescono nel loro intento, e quando cerco di trattenere queste sensazioni è come se volessi perpetuare il male che ho fatto, il motivo per cui sono qui. Allora ritorno ad esse-re parte del panorama, invisibile, senza potenza alcuna e senza il diritto di mostrarmi agli altri. Tutto quel che posso fare, essendo nel vento, è soffiare.
Vedo le persone. Qualche volta ci passo attraverso, altre, per un riflesso condizionato, le scanso. Tutto mi è chiaro, ora. Questo non è il Purgatorio, e neppure l'Inferno, ma qualcosa che non esiste. Un non meglio precisato “stato provvisorio”. Quello che più spero è che non sia una siste-mazione definitiva. Non lo sopporterei. Non vi sembra che la nostra condizione sia molto simile a ciò che consideriamo essere la vita normale? La gente ti passa accanto, ti sale sopra, sovente ti calpesta, e tu non puoi farci niente. Subisci. Anche qua ci tocca di subire. Solo quando piove mi sento un po' più vivo. Per quanto anche allora non ci sia fisicità, mi sembra di essere più parte del mondo, della vita, di quello che succede, e a volte penso che sia giusto che tutto questo sia capi-tato a me".

Era proprio ciò che provava Norman. Il suo cuore iniziò a battere forte, ma, prima d'iniziare a fare domande, ascoltò la fine di quella storia. Anche se forse non c'era molto da chiedere, forse aveva capito proprio bene.

“Andai a casa e mi preparai un buco. Per tenermi calmo. Ero davvero sconvolto. Martina rientrò dall'ospedale e mi disse che sapeva tutto. Io le chiesi di non lasciarmi, e lei rispose che stava partendo per la comunità, che aveva già i bagagli pronti. Mi disse che voleva salvarsi, e non fare la fine che avevano fatto gli altri. Io le chiesi di portarmi con lei.
- Se vuoi fare questo passo chi aiuta me può aiutare anche te. – ri-spose lei - Ma devi essere tu a volerlo. Nessuno può decidere per te. Questo lo sai, vero?
- Sì. - risposi io - Voglio farlo, non voglio morire.
- Prepara la tua roba, allora. Fai presto, non ho molto tempo. Il treno parte fra meno di un'ora. Ah, dimenticavo. Non portarti dietro niente. Sai di cosa parlo. Perché prima di entrare in Comunità ti perquisiscono, e se ti trovano della roba addosso la buttano via. Quindi è inutile, fa-resti solo una brutta figura.
- Certo Martina. Martina, - le dissi fra le lacrime - volevo dirti che ti amo. Insieme ce la faremo.
- Io non ti amo, ma se ti serve per sopravvivere, cullati pure nella speranza che un giorno potremmo metterci insieme. Del resto non ho mai detto che non mi piaci. Ora vai, sbrigati.
Tutto questo ce lo sussurrammo piano, in un lasso di tempo che pareva non finir mai. Ero con-tento di andare incontro ad una nuova sfida, la vita. La vita come la concepisce il mondo, come la vivono gli altri, tutti. Per la prima volta stavo per assaporarla, se c'era d'assaporarla. Quindi mi dissi:
- Mi preparo l'ultimo buco e poi vado.
Entrai in bagno e mi chiusi dentro. Feci tutto con una calma nuova, che mi era sconosciuta prima, qualcosa che non avevo mai provato. “Forse, chissà, la vita normale”, pensavo, “può esser fatta anche per uno come me”, e nel contempo mi cercavo la vena. “Del resto chi non ha mai sba-gliato”, mi dicevo, “e poi si è ritirato su? Forse potrei anche essere avvantaggiato dalla vita che ho fatto. Chi, della gente comune, può aver sofferto quello che ho sofferto io? Sì, più niente mi può toccare, ora.…………..…………TUM……….....…......... TUM..................TUM...................TUM...……………….............una................volta.........ristabilito..............sarà...…................tutto.....……........più...........facile.................TUM...…....................TUM..............................TUM...............….......………….affronterò..................la…… vita ....................come........….…...........chiunque............altro..........................ma..............…...ma........ora..........ora............sono….. stanco....…. mi.....................riposo..….un..........momento......………....poi....vado....….Martina...............Martina……….mi..............sta aspettando......... mi sta............... cosa...……......... cosa........... succede? .................chi ….è..............questa..….gente?........devo...............alzarmi................… ……devo.....………………...........alzarmi.......non.........................ce…. .....................la………faccio...............Dio...........non..............ce................la.....…............faccio........................................Martina............…..
Guardai quella povera carcassa d'uomo ch'ero stato mentre i portantini la portavano via. Martina pianse, la vidi. Mi trovai, insensibile, a guardare il mio corpo dall'alto, da una decina di metri. Non avevo l'aria di voler salire in alto, fino al cielo, e dopo qualche tempo imparai a restare a terra. Poi salii su quest'autobus, e da allora sono qui e aspetto”.

Norman si guardò intorno. Molti stavano piangendo, altri gli davano pacche sulla spalla, altri an-cora dicevano quanto era stato sfortunato, perché quando aveva deciso di smettere, quell'ultimo buco gli era stato fatale.
Il giallista girava la testa a destra e a manca, incredulo. Non capiva cosa era successo, era sbi-gottito. “Perché tutta questa gente da retta ad un pazzo?”, si chiese.
- Scusate, - disse interrompendo quella malinconica profusione commemorativa - io ho una storia ancora più triste della sua da raccontare. Se volete inizio.
- Certo. - disse il ragazzo - Siamo qua per questo. E' il solo modo per far passare il tempo, qui.
Gli fecero posto accanto a quel ragazzo e il capannello di persone si richiuse. Norman Bates tor-nava ad essere un narratore.

III.

Norman iniziò il suo racconto. Narrò del premio letterario, della serata mondana, della giovane Kate, dell'omicidio, di Dirty il barbone, del viaggio verso la clinica, della plastica, del giovane cronista, dello scafista, della fuga in Albania, delle visioni e del ritorno a Genova, sul luogo del delitto. Quando finì, come per la storia di quel ragazzo, si aspettava che tutti si mettessero a piangere per lui e lo rincuorassero, ma non avvenne nulla di tutto questo.
- Allora? - disse Norman stupito per la serietà dei “gitanti” – Guardate che ho finito! Cosa ne pensate? Non vi sembra una storia abbastanza triste?
- Non ne pensiamo nulla, Norman. - rispose il ragazzo – Dimmi una cosa, tu ti rendi conto di dove ti trovi?
- Certo, ho preso un autobus pieno di pazzi. - rispose Norman.
A queste parole tutto l'autobus scoppiò in una risata. Molti piangevano dal ridere, c'era chi si era sdraiato in terra e si sbellicava tirando pugni sul pavimento, e chi si era letteralmente pisciato sotto dalle risate. Poi il ragazzo, calmati i convulsi, disse:
- Norman, la tua storia qua la sanno tutti.
- E come fanno a saperla? - chiese Norman arrossendo.
- Per la stessa ragione per cui io, anche se tu non ti sei presentato, so come ti chiami. Questa sto-ria, almeno fino all'omicidio, ce l'ha raccontata un tuo amico. Lorenzo, vai a svegliare quel tizio che dorme laggiù, vicino ad Angelo. - disse il ragazzo trattenendo a stento una risata.
Un tipo si alzò dal suo posto e, senza sorreggersi agli appositi sostegni, salì in cima all'autobus, dove c'era l'autista. Toccò sulla spalla un uomo che dormiva tutto rannicchiato, e questi sobbal-zando si destò. Assonnato si voltò e, con la bocca impastata, disse:
- E non si può neanche più dormire adesso!
- Vieni, c'è un tuo amico che ti vuole parlare. - disse Lorenzo.
- Un mio amico? E chi è? - chiese l'uomo alzandosi.
Percorse l'autobus a ritroso, e man mano che si avvicinava a Norman il capannello di gente si apriva per farlo passare. Quando gli ultimi uomini si spostarono i due, vedendosi, si riconobbero.
- Norman! - gridò l'uomo.
- Bert Foster! Figlio di puttana! - esclamò Norman saltando alla gola del suo rivale. Subito i due contendenti furono separati, ma appena i passeggeri li lasciarono andare di nuovo si afferrarono per la giacca. Norman picchiò sodo. Anche Bert picchiò sodo. All'improvviso il nostro giallista si accorse che i pugni di Bert non gli procuravano alcun dolore. Aveva sempre creduto che il suo rivale in Letteratura fosse un “Pappamolla”, ma a quel livello era davvero troppo.
- Potete darvele di santa ragione per l'eternità, - disse l'uomo che era in fondo all'autobus e che Norman aveva creduto essere l'autista – tanto non risolverete niente. Se non la finite vi faccio scendere tutti e due. E poi mi meraviglio di lei, signor Foster. Quest'uomo è appena arrivato e non sa le regole, ma lei è con noi già da qualche ora! Lo sa che non è possibile far del male a qualcuno, no? E allora cosa si picchia a fare!
- Lo sa chi è quest'uomo, Angelo? - disse Bert nero di rabbia e continuando a tenere Norman per il bavero della giacca - E' quel grandissimo bastardo che mi ha piantato un coltello lungo trenta centimetri nella pancia! Secondo lei dovrei stare tranquillo?
- E allora? - rispose l'autista - Se è già arrivato qui qualcosa vorrà pur dire, no?
- Sto diventando pazzo. - si disse Norman ad alta voce – Qualcuno mi vuole spiegare che cazzo succede? Non ci capisco più niente!
- Sssssh! Su, si calmi lei. - disse l'autista.
- E lei non dovrebbe stare al posto di guida? - disse Norman.
- “Posto di guida”? - ripeté l'autista sgomento - Ah sì, quello. E' solo un divertimento. E poi non si preoccupi, ho messo il pilota automatico. Sa com'è, non vorrei mai che ci andassimo ad ammazza-re!
Tutto l'autobus scoppiò a ridere.
- Ma che cazzo ridete? Me lo volete spiegare? - chiese Norman interrogando i passeggeri.
- Su, si calmi. - disse l'autista - venga con me, al posto di...............guida. Voi due, non vedete che è un caso d'emergenza? Lasciateci il posto! Venga, si segga qui che le spiego tutto.
Norman, titubante e fissando il suo interlocutore autista, si avvicinò a piccoli passi. Gli sembrava davvero di stare in una gabbia di matti, e che l'autista fosse l'unico sano. Compreso lui.
- Cos'ha capito fino a adesso? - chiese l'autista.
- Praticamente niente! Mi volete dire che razza di autobus è questo? - chiese Norman.
- Vede, signor Bates, questo non è propriamente un autobus, ma più una fermata provvisoria, una stazione di transito. Non si lasci ingannare dalle immagini che passano ai finestrini, non sono autentiche. Ce l'ha presente il cinema? Ecco, il processo è molto simile.
- Ma io ero certo d'aver preso un autobus! - urlò Norman al quale stava montando la disperazio-ne.
- E lo dice a me? Ho dovuto simulare tre passaggi perché lei si decidesse a saltar su! Mi avevano avvisato che non aveva ancora convertito il suo stato mentale, ma davvero ho creduto che non sarebbe mai riuscito a salire. - concluse l'autista.
- E quale sarebbe il mio “stato mentale”? - chiese Norman.
- E' una sensazione strana che hanno molti assassini, e che è dovuta al fatto che non riescono a pentirsi perché non hanno la forza né la capacità mentale di applicare il loro rimorso alla persona a cui hanno fatto del male. Per colpa della Tv questo succede sempre più spesso.
- Significa che non riesco a pentirmi sinceramente?
- Esatto! Vede che a piccoli passi ci arriviamo? Con lei la faccenda si è ulteriormente complicata perché ha incontrato il....……….....….. ............sì, quel tipo, il barbone...…............……
- Dirty? - chiese Norman.
- Sì, Dirty. Lei ha finito per andare all'opposto. Invece che ricercare il pentimento lo ha voluto fuggire, e il rimorso che non è riuscito a sviluppare in pentimento divenne per lei come una specie di droga di cui non riusciva più a fare a meno. Lei ha perso la coscienza, signor Bates, senza alcun dolore. Ma ora per fortuna è qui.
- Ma allora i passaggi erano simulati? - chiese Norman.
- Sì. Mi hanno avvisato che lei si stava facendo vincere un’altra volta dalla tentazione di fuggire, e così sono passato a prenderla. Meglio qui sopra che in giro a far danni a sé stesso.
- Ma tutto questo cosa vuol dire?
- Come “cosa vuol dire”! - ripeté il finto autista - Lei ha sentito storie, ha avuto visioni spavente-voli, ha perfino lottato con la sua vittima, eccolo lì, Bert Foster, e ancora non ha capito cosa gli è successo?
- Ma io.................veramente.............. - balbettò Norman.
- Ebbene signor Bates, le comunico ufficialmente che lei................ ....….......è più morto del profeta Isaia. - disse l'autista facendo un lungo respiro come per prendere la rincorsa.
Norman non si sentì poi così male. Tossicchiò leggermente, poi guardò il suo nemico, Bert Foster, dall'altra parte dell'autobus. Sì sì, era proprio lui, non c'erano dubbi. “Le cose sono tre”, pensò, “o sono pazzo, o sto sognando, o sono morto davvero”. Non si sentiva così male per essere un cada-vere fresco fresco.
- E questo autobus dove va? - chiese di nuovo.
- Allora non ha capito nulla! - rispose spazientito il finto autista - Non va da nessuna parte! E' partito ma non arriva. Viaggia senza meta, se così vuole credere. E' solo un rifugio per le vittime dell'incapacità da parte dei loro assassini di applicare agli esseri umani che hanno ucciso il loro rimorso. Vede? Bert Foster è qui perché lei non è capace di far questo.
- Quindi se sono morto........................a proposito, come sono morto?
- Di morte violenta, sicuramente. Ma non sono autorizzato a dirle come. - rispose l'autista.
- Ma se me l'ha appena detto!
- Perché le ho detto che è morto di morte violenta? Tutti qua sono morti di morte violenta. An-che perché la natura non può avere rimorsi, mica è una persona! Quando si muore in modo natu-rale si va subito su, sempre se non si rimane giù.
- All'Inferno o su un autobus come questo? - chiese Norman.
- No, su un autobus come questo o sotto terra, signor Bates. L'Inferno è un'invenzione degli uomini. Anche perché punire gli individui con un Inferno di fuoco eterno solo per aver fatto il male sulla terra per pochi anni, anche se questi sono tutta la loro vita, che di fronte all'eternità non è nulla, è contrario a qualsiasi senso di giustizia. E poi lei se lo immagina il Diavolo col forcone in mano, le corna e la coda? Andiamo, siamo seri! Il Diavolo sarà anche cattivo, ma mica è un buffone!
- Già. Questo è vero. - concordò Norman - Ma quel ragazzo che prima raccontava non l'ha ucciso nessuno, come fa ad essere liberato dal pentimento del suo assassino?
- Il suo assassino è lui stesso, - rispose l'autista - perché è morto di un'overdose auto iniettatasi. Il suo problema è che durante tutta la sua vita non ha avuto mai pietà per la persona che era, e ora trova difficile riuscire a pentirsi per qualcosa che lo riguarda. Si è come reso “impersonale a sé stesso”.
Norman rimase pensieroso. I viaggianti avevano ripreso ad occuparsi dei fatti loro, e solo di tanto in tanto lanciavano qualche occhiata. Le immagini scorrevano nei finestrini, e gli fecero lacrimare gli occhi. Non sapeva cosa fare, e per guadagnare tempo ripeté la domanda:
- Ancora non mi ha detto dove siamo diretti.
- E' un'ora che glielo sto dicendo! - rispose sbottando l'autista - Da nessuna parte! Giriamo, se così vuol credere, in attesa che i responsabili delle vostre morti si pentano.
- Cioè? Perché io trovi una sistemazione definitiva il mio assassino dovrebbe pentirsi? - chiese Norman arrabbiato e anche un po' preoc-cupato - Ma se non so neanche chi è!
- Questo ha poca importanza. Il pentimento di quell'uomo non dipende da lei. E poi per lei è più complicato, perché prima deve pentirsi lei d'aver ucciso Bert Foster.
- E cos'è? La “catena di Sant’Antonio”? - sbottò sgomento Norman - Cosa dovrei fare?
- Perché riesca a pentirsi non lo so. Per ora, e fino a quando non ci riuscirà, deve restare qua. Quando vede sparire il signor Foster significa che lei è riuscito a pentirsi e può iniziare a sperare che si penta anche il suo assassino.
Norman fece fare un giro di trecentosessanta gradi ai suoi occhi. Ora tutti i passeggeri lo guardavano, chi sorridendo bonariamente, chi con un ghigno sulla faccia. Pensò. Bert era Bert, lui era lui, e quel ragazzo non somigliava per nulla ad un mistificatore.
- Su, si rassegni, non c'è altra via di scampo. - disse “l'autista”.
Lo scrittore guardò il tizio con la testa reclinata, stanca. Tutto prese a girare vorticosamente, e Norman dovette tenersi per non cadere a terra.
Se le cose stavano davvero in quella maniera, non c’era molto da dire. Norman si era reso conto che quel che gli aveva detto l’autista non era distante dalla realtà. Anche lui aveva provato le sensazioni di quel ragazzo, anche lui aveva fatto le sue stesse considerazioni, e guardando tutta la sua storia da quel punto di vista molto diventava spiegabile. Nonostante questo però non riusciva a rassegnarsi all'idea di non esistere più. Fece un lungo respiro, tirò su la testa per fissare il suo interlocutore, e poi disse:
- Si può sempre fare così. - e alzatosi dalla sedia si lanciò contro il finestrino frantumandolo e riuscendo a fuggire da sopra quell'autobus.

IV.


Norman si rialzò da terra, diede un paio di colpi alla giacca per ripulirla dal sudiciume della strada, e sorrise guardando l'autobus allontanarsi continuando la sua corsa. Poi si voltò cercando di riconoscere il luogo nel quale il tempo e la sua azione avventata lo avevano situato. Non ci mise molto a capire che si trovava esattamente nel medesimo posto dal quale era salito su quel-l'autobus.
Pensò grattandosi la testa. Era nella situazione di chi si è perso, di chi si è risvegliato da un lungo letargo, da un sonno riposante, nei panni di chi è or ora rinvenuto. C'era il Bar, di fronte a lui, e una volta voltatosi vide davanti a sé il portone del posto di Polizia. Non si era mai mosso di un metro. Ma allora, durante tutto quel tempo, dov'era stato? Quale sorta di giri aveva fatto quella specie di autobus fittizio?
Subito ripensò al racconto del ragazzo, a Bert, a quel che gli aveva detto l'autista. Si diede un pizzicotto, così, per provare. Non sentì male ma non si svegliò da alcun sonno.
- Me ne devo andare di qui. - si disse ad alta voce - Cambiando posto forse recupererò la situa-zione. Sono i luoghi comuni che ci legano alla realtà, altrimenti ogni cosa sarebbe nuova e origi-nale.
Prese a camminare. Senza direzione, a casaccio. Passò in un marciapiedi numerato, metro per metro, da locali di ogni tipo; panifici, negozi d'abbigliamento, di computers, orologiai, ferramenta, salumai, Bar e tabacchini. Poi si fermò davanti alla vetrina doppia di un negozio d'elettrodome-stici.
Una lunga fila di televisori accesi ravvivava surrettiziamente la realtà. In uno ventidue nababbi correvano dietro ad un pallone urlando e scalciando come cani in una spiaggia. Al suo fianco un eroe americano invadeva da solo un improbabile pianeta di un inverosimile galassia. In un altro ancora un gruppo rock faceva solidarietà ai bambini del Bangladesh, ricettacolo di questue del momento, regalandogli il loro ultimo compact disc. Più in là quelli del Grande Fratello esibivano le loro nullità, e in quello accanto un talk show veniva elettrizzato da una rissa fra un critico d'arte eterosessuale e un transessuale coi capelli verdi a strisce blu.
Norman, in quel frangente, ebbe perfino nostalgia della Tv americana. Poi passò alla vetrina accanto. C'era un altro televisore acceso. Ormai, in questo paese, se “il gallo invita il sole” non lo fa più perché esso “elenchi i gelsi” come scriveva Gadda, ma perché illumini le vetrine con le tecnologie dentro.
Stavano dando il “Premio dei Premi”, una kermesse letteraria, in diretta mondiale. Gus Turner presentava tutti gli invitati. A ciascuno di loro veniva consegnato un premio risibile e trascura-bilissimo. Ognuno prendeva la sua icona e prima di andare via salutava ringraziando. Ad un cer-to punto Norman sentì la sua pelle accapponarsi. La Tv gracchiava riportando le parole di Gus Turner.
- Ed ora, signore e signori, il libro dell'anno. Prego il signor Marco Aru di salire sul palco, grazie. (applausi) Ecco, buonasera signor Aru. Al signor Aru viene assegnato il “Premio dei Premi” di quest'anno. (applausi) Calma, calma. Dunque, dicevo - continuò Gus Turner - il signor Aru viene premiato per il suo primo libro, “La cattiva strada”, tratto da un recente fatto di cronaca. (applausi). Vi prego, vi prego su. Motivazione: “Per aver saputo mettere a nudo le contraddizioni del pentimento”. Complimenti signor Aru. (applausi)
- Grazie, grazie. - dice l'uomo. Poi, fra gli applausi della platea, ritira il premio e se ne va.
Norman rimase a bocca aperta.
- Sorpreso Norman? - disse una voce da sopra la sua spalla.
Norman si voltò adagio, con circospezione. “Un'altra strana visione potrebbe essermi fatale”, pensò.
- Non ti preoccupare, Norman. - continuò la voce del giovane cronista parlandogli nell’orecchio - E' solo un altro dei nostri trucchetti. In realtà quest'avvenimento accadrà fra un anno. In questo momento il tuo libro sta venendo, come dire?, sì, “rielaborato”.
- Ma questo è plagio! - strillò Norman arrabbiato - Perché Dirty mi ha fatto una cosa del genere? Perché ha dato il mio libro a quel ragazzo? Se c'era qualcuno che doveva pubblicarlo quello ero io!
- Tu hai mantenuto la promessa, no? - disse il giovane cronista - Il Diavolo ti ha aiutato, anzi, ha fatto finta di farlo, proprio per avere in cambio il tuo libro e poterlo dare a quel ragazzo.
- Ma perché? - urlò Norman - Perché proprio a quel ragazzo? Potevo, anzi, dovevo pubblicarlo io! E' mio il libro, oh!
- Perché era il prezzo da pagare per avere la sua anima, Norman. - rispose il giornalista - E non è un caso che quel libro sia finito nelle mani di quel ragazzo. Hai visto chi è Norman? Lo riconosci?
- No, non mi sembra di riconoscerlo. - rispose Norman dopo essersi avvicinato al televisore e averlo guardato meglio - Chi è?
- Guardalo ancora. - lo esortò il giovane cronista - Tu lo conosci, lo hai già incontrato, purtroppo per te.
- Non lo riconosco! Chi è? Dimmelo!
- E' il poliziotto che ti ha sparato in quel Bar la sera che hai ucciso Bert.
Norman rimase in silenzio. Come se avesse ritrovato la Stele di Rosetta, in un secondo solo capì ogni cosa.
- Sì Norman. - continuò il giovane cronista - Tu sei morto, sei morto quella sera stessa, che poi sarebbero poco più di due ore fa, in quel Bar, dopo aver portato la povera Kate all'ospedale.
- Come sarebbe a dire “poco più di due ore fa”? - chiese Norman - E tutto quello che ho fatto? Tutto ciò che ho vissuto? Dov'è andato a finire?
- E' tutto nella tua testa e nella testa di chi te lo ha fatto vivere, Norman, il Diavolo. - rispose il giornalista.
- Ma io ho parlato con delle persone, ho speso dei soldi! Ho perfino fatto una plastica facciale! - gridò Norman disperato.
- Guardati Norman, guardati nella vetrina. - disse il giornalista.
Norman si voltò verso il vetro che lo rifletteva insieme ad automobili e passanti, e s'accorse di avere di nuovo il suo volto.
- Cosa vuol dire? - chiese balbettando e toccandosi la faccia.
- Significa che il Diavolo aveva bisogno del tuo libro per comprare l'anima di quel ragazzo, e che con una serie di giochetti ti ha convinto a scriverlo. Il vecchio giornale su cui, nel bagno di quel Bar, tu leggesti la notizia di quella condanna per un reato simile al tuo, lettura che ti spinse a scappare. Il viaggio in treno, un treno identico all'autobus dal quale sei saltato giù poco fa. E poi la plastica, tutta una messa in scena del Diavolo e di alcuni dei suoi demoni, la nebbia finta alla stazione......….............E comunque è stata la tua voglia di farla franca ad aprire le porte al Diavolo.
- Calma, calma. - disse Norman - E il barista del porto? Racak, lo scafista albanese? Loro chi era-no?
- Tutti demoni. - rispose il giornalista - Esattamente come i personaggi del paese dove mi hai in-contrato e l'affitta camere di Genova.
- E la famiglia albanese che mi ha ospitato?
- Quelli eravamo noi. Avevamo deciso di darti una mano. Tu non sai quale gioia mi hai dato quando hai rifiutato la bambina che quel mio angelo ti ha offerto, e quando le hai regalato il tuo libretto bancario! Non valeva nulla per noi, è vero, ma tu eri ad un passo dalla liberazione, dal pentimento sincero. Poi, arrivato davanti al posto di Polizia, hai deciso di scappare di nuovo..........
- Ma quale senso ha consegnarmi alla giustizia se sono già morto? - chiese Norman ancora incre-dulo.
- Per il sistema di questo mondo nessuno.
- E allora? Perché hai provato in tutti i modi a farmi costituire se non ha nessun senso? - chiese Norman.
- Perché solo così potevi salvarti. - rispose il giovane cronista - Avrebbe voluto dire che ti eri pentito davvero, e che eri pronto per passare alla fase successiva. Solo in questo modo puoi essere giudicato ed uscire dal tuo stato di non-morte.
- Ma tu mi hai fatto fare tutto il viaggio a ritroso! - protestò Norman - Vuoi dire che è stata tutta fatica sprecata?
- Lo è perché tu non ti sei costituito.
Norman abbassò la testa e cominciò a piangere.
- Grazie, - disse in lacrime - grazie tante. Tutto questo sbattimento, tutta questa fatica, e poi sono già morto.
- E' in vita che si diventa onorabili, Norman. - disse il giovane cronista - La vita è il banco di pro-va per un altro tipo di esistenza, più lunga, eterna. In quell'eternità ci entrerà solo chi ha assor-bita e fatta sua una certa mentalità. Tu, come molti, hai creduto che la fama ti avrebbe permesso di vivere in eterno, e forse, per l'idea d'eternità che ti sei fatto, è davvero così, infatti potrai pro-lungare il tuo ricordo anche grazie al successo di quel libro e di quel ragazzo. Ma il guaio per te è che l'eternità non è quello che pensi. Non è un'idea, non è il ricordo che gli altri possono avere di te, l'esser rammentato per l'arte e per le cose che si è fatti, ma mangiare, bere, ridere e scherza-re, amare e avere figli, imparare a fare quel che si vuole, a suonare, a cantare, a costruire.............. -......................................ma non potrò ubriacarmi, fare sesso come e con chi voglio, scrivere ciò che desidero................
- E' proprio questa la mentalità da sostituire, Norman! In cambio dell'eternità qualcosa dovrai pur dare! E poi la vita è qualcosa di più del piacere e della possibilità di peccare. - disse il giovane cronista.
- Cosa mi costituisco a fare se poi la mia salvezza dipende da un altra persona? - chiese Norman in lacrime.
- Anche la vostra vita, così come l'avete impostata, dipende da persone che quasi mai siete voi. Lo so, è Filosofia, questa. Ma non bisogna mai fare “qualcosa per”, ma farla se ce lo sentiamo dentro, se il nostro spirito ci spinge a farla. Diversamente ciò a cui diamo vita è solo un atto inu-tile, ipocrisia. Dammi retta Norman. La fama, il successo, non possono darti quello che in verità cerchi. – disse il giovane cronista facendo una breve pausa - Ma perché per voi uomini è così difficile credere all'immortalità del corpo che si vede, e così facile credere in quella delle idee, che invece non si vedono? Se tu conoscessi Dio capiresti che la vita non dipende da quello che hai, dall'apprezzamento del mondo, ma dall'apprezzamento di Dio, l'unico che può fare qualcosa per te.
- E ora? Cosa faccio? - domandò Norman piangendo.
Ma nessuno gli rispose più. Il giornalista, come le altre volte, se n'era andato, lasciando Norman solo e confuso. Subito sentì addosso la paura dell'abbandono, della solitudine. Sentì freddo. Si coprì. Alzò la testa e, con un occhio chiuso, guardò il cielo. Il sole brillava caldo, le nuvole dan-zavano intorno ai suoi raggi facendo un effetto stroboscopico. Una persona gli passò accanto. Lui allungò una mano per toccarla, ma questa gli passò attraverso senza accorgersi di nulla. Allora la ritrasse spaventato. Il cuore saltava nel suo petto, e le gambe iniziarono a tremare. Si sedette sul bordo del marciapiede e pianse. Era senza alcun vigore, senza alcuna speranza. Si rese conto di essere condannato ad un'irrealtà nella quale era invisibile, un miraggio, e che non poteva deter-minare in alcun modo.
Dopo una decina di minuti asciugò le lacrime. Poi abbassò lo sguardo sulle sue scarpe. Aveva camminato molto, erano lacere e stanche, bucate e da gettar via. Prese a guardare la scena che gli si srotolava dinanzi, e di cui lui non poteva più far parte. Un'automobile che passa, un altra ferma ad un semaforo, due bambini che tengono stretta la mano della loro madre, un cane che urina su una ruota..............…….
Passati una manciata di minuti sorrise. Poi rise sempre più forte, fino a lacrimare. Calmati i con-vulsi si rialzò.
Malgrado tutto non si sentiva assolutamente perso. Si stirò facendo un lungo respiro, quindi spazzolò i pantaloni bisunti. Infilò un dito in bocca, come gli aveva insegnato suo padre quand'era piccolo, e lo ritrasse subito. Allungò il braccio dinanzi a sé, diritto, e scelse la direzione da prende-re. Dopodiché mise le mani in tasca e cominciò a camminare. Doveva pensarci. Era pur sempre uno scrittore, e un'idea, strada facendo, gli sarebbe venuta.

FINE