domenica 27 dicembre 2009

STORIA MODERNA DELLE BRIGATE ROSSE - Marco aru


Capitolo v

IN FRANCIA

I primi ad accennare all’esistenza di una centrale eversiva a Parigi furono, nel 1974, Giulio Andreotti e Guido Giannettini […] Andreotti parlò di Parigi nel famoso articolo in cui affermava che coprire l’agente Giannettini “fu uno sbaglio grave” e Giannettini parlò diffusamente di questa centrale parigina in un memoriale che scrisse durante il volo verso l’Italia quando, anche in seguito all’intervista di Andreotti, decise di costituirsi all’ambasciata italiana a Buenos Aires. Nell’intervista Andreotti, rispondendo a una domanda del giornalista, disse: “Sono ancora convinto che una centrale fondamentale, che dirige l’attività dei sequestri politici per finanziare i piani d’eversione e che coordina lo sviluppo terroristico su scala anche europea, si trova a Parigi. Probabilmente sotto la sigla di un organismo rivoluzionario”. La polemica su Giannettini divenne rovente e il giornalista, che viveva a Buenos Aires, l’11 agosto 1974 si costituì all’ambasciata italiana di quella città. Nel volo verso Roma riempì quaranta pagine manoscritte nelle quali affermò, tra l’altro, che nei primi mesi del 1973 sarebbe stata costituita a Parigi una centrale terroristica di estrema sinistra controllata dai servizi segreti israeliani. Il suo nome in codice, secondo Giannettini, sarebbe stato Think-Tank. La prima vittima del Think-Tank sarebbe stata Luis Carrero Blanco, presidente del Consiglio spagnolo. Carrero_blancoSecondo Giannettini, gli atti di terrorismo organizzati da questa centrale – che avrebbe avuto connotazioni esteriori di sinistra – avrebbero risposto all’esigenza del Mossad e del governo israeliano di impedire che nei vari paesi prevalessero tendenze filoarabe e antiisraeliane. Strumenti del Mossad all’estero, secondo Giannettini, sarebbero stati i partiti socialisti e le formazioni rivoluzionarie della sinistra extraparlamentare […] Nella stessa estate del 1974 il giudice istruttore di Milano Gerardo D’Ambrosio acquisì anche una lettera-memorandum che Giannettini aveva indirizzato – egli afferma fin dal marzo 1973 – al generale Gian Adelio Maletti, all’epoca capo del reparto D del SID, nella quale elencava alcune fra le ricerche operative che egli avrebbe compiuto negli anni precedenti per conto del SID […] Nel memorandum si legge tra l’altro: “Estate 1967, sui retroscena degli interventi della CIA per le aperture a sinistra in Europa […] 1968, sulle centrali americana e britannica della internazionale della contestazione […] Inizio 1969, sui movimenti della sinistra extraparlamentare in Italia e sui suoi collegamenti internazionali […] 1973, su centrale clandestina di estrema sinistra operante sul vertice dell’Esercito italiano, in contatto con i servizi speciali di Brandt […] 1973, sull’internazionale della contestazione europea, suoi collegamenti e sue attività”. È il caso di ricordare che Mino Pecorelli nel 1977 pubblicò stralci di un documento attribuito allo SDECE, il servizio segreto francese, nel quale si sostiene la stessa tesi di Giannettini. Scriveva Pecorelli: “Nel 1973 a Bruxelles, dietro gli organismi ufficiali della Quarta Internazionale, è sorta una centrale rivoluzionaria mondiale che i servizi politico-militari occidentali hanno indicato con la sigla TT [Think-Tank]. In quella struttura operano congiuntamente trotzkisti filoamericani e israeliani del Mossad, l’agguerritissimo servizio segreto di Tel Aviv, al fine di impedire che in seno a movimenti extraparlamentari europei possa prevalere la componente filo-araba”. Le affermazioni di Giannettini e Pecorelli non hanno avuto conferme in atti giudiziari e pertanto possono solo essere registrate con il beneficio d’inventario, ma sulla basse delle successive dichiarazioni di brigatisti che hanno collaborato con la magistratura, sembrano emergere tre tentativi del Mossad di stabilire contatti con le Brigate Rosse, di cui i primi due furono sicuramente respinti. È peraltro da rilevare che anche sequestri di uomini politici o di industriali avvenuti in Sud America e attribuiti a gruppi di estrema sinistra presentano alti tassi di ambiguità. AramburuScrive a questo proposito Saverio Tutino: “Anche in Argentina la P2 aveva consolidato le proprie posizioni nell’ultima fase della presidenza Peron e – in seguito – della vedova Isabelita. Il terrorismo, partendo da meccanismi analoghi a quelli messi in funzione in Italia, fu manipolato o semplicemente favorito per creare le condizioni per l’assalto al potere da parte dei militari. In Italia sembra, invece, che si sia cercato di favorire un analogo processo per rafforzare certi settori politici, dove la P2 si rivelerà particolarmente poderosa. È parso ad alcuni che il terrorismo venisse utilizzato, anche a sua insaputa, per mantenere instabile la situazione politica, o meglio per stabilizzarne l’incertezza, la permeabilità alle azioni occulte, in una parola il disordine che favoriva le incursioni della finanza nuova, d’arrembaggio. I Sindona, i Calvi, gli Ortolani persero la battaglia, tanto in Italia quanto in Argentina, nonostante gli appoggi di una parte dei servizi anche di grandi potenze. E insieme con loro, nel giro di meno di dieci anni, la persero anche i “partiti armati” che erano sorti come su copia carbone in punti nevralgici della linea internazionale della P2”. Giorgio Galli fa propria la valutazione di Tutino e parla di un “confronto tra la sorte del presidente della DC Moro e quella dell’ex presidente argentino Aramburu, come lui sostenitore di una apertura alla sinistra, che si disse rapito dai Montoneros ma che secondo una testimonianza sarebbe morto in un ospedale gestito dai servizi argentini”. Vincenzo Vinciguerra, in un documento acquisito al processo di primo grado per l’attentato di Peteano, aggiunge interessanti tasselli: “Potrei ricordare tutti gli interventi compiuti dagli Stati Uniti in paesi latino-americani ed europei utilizzando metodi destabilizzanti dell’ordine pubblico al fine, sempre puntualmente conseguito, di ristabilire legge e ordine, ma non vorrei ripetere, moltiplicando gli esempi, quanto ho già detto sull’Argentina e sui Montoneros, i cui capi lavoravano per la giunta militare, mentre i loro militanti compivano attentati con le pastiglie di cianuro in bocca per evitare di cadere vivi, in caso di insuccesso, nelle mani della giunta […] David Graiver, banchiere di successo, fra le sue molteplici attività svolgeva anche quella di riciclatore del denaro che i Montoneros si procuravano con i sequestri di persone […] Graiver era un nome potente e dalle potenti amicizie, in Argentina, in Israele, negli Stati Uniti e anche in Europa, così che quando, a seguito del crollo finanziario, venne individuato come finanziatore dei Montoneros e si diede alla latitanza, la stampa argentina lo indicò solo come truffatore, fuggito per aver fatto bancarotta con i soldi dei suoi clienti. Si tacque anche sull’arresto di Jacobo Timmerman, israelita, direttore del quotidiano L’Opinion, anch’egli implicato nelle operazioni dei sequestri di persone compiuti dai Montoneros […] Non è un caso che l’azione montonera in Argentina giustificò il colpo di stato del 24 marzo 1976 e lo sciopero dei camionisti cileni, finanziati dalla CIA, abbia giustificato il colpo di stato dell’11 settembre 1973 ai danni di Salvador Allende” […] Con questo non si vuole certo affermare che i vari movimenti terroristici di sinistra siano prodotti artificiali, sorti per iniziativa dei servizi segreti statunitensi. L’esplosione dei movimenti studenteschi del Sessantotto in diversi paesi europei e negli Stati Uniti fu certamente prodotto di un’insofferenza giovanile verso governi ed élite politiche e accademiche ormai inadeguate a dare risposte alle esigenze che emergevano prepotentemente della società in evoluzione. Ma è da considerare molto probabile che le strutture di sicurezza di vari paesi, in contatto tra loro, abbiano ritenuto di prendere contromisure preventive […] Esaminiamo i documenti concernenti il convegno di Chiavari promosso nel novembre 1969 dal Collettivo Politico Metropolitano, che l’anno seguente avrebbe dato luogo alla fondazione delle Brigate Rosse. Su quella riunione il generale Dalla Chiesa consegnò alla Commissione Moro un dossier di oltre cento pagine, che fornisce interessanti informazioni anche sui successivi sviluppi dell’attività eversiva. Il convegno si svolse dal 1 al 4 novembre 1969 presso l’albergo Stella Maris di Chiavari, gestito dalla curia arcivescovile di Genova. L’apparente stranezza del fatto che un gruppo estremista, anche se non ancora terrorista, tenga il suo convegno fondativi in un albergo di proprietà della curia potrebbe avere una spiegazione nel fatto che a Genova vi è sempre stato un vivace movimento di cattolici del dissenso, in opposizione alla linea conservatrice della curia, guidata dal cardinale Siri. Nel suo rapporto il generale Dalla Chiesa cita i nomi di molti partecipanti. Purtroppo questi nominativi sono tratti dagli elenchi di coloro che pernottarono nell’albergo. Lo stesso generale rileva con rammarico che non furono annotati i nomi dei convegnisti liguri che a sera rientravano nelle proprie abitazioni. Aggiunge il generale: “In ciò deve forse ricercarsi uno dei motivi della relativa impermeabilità della colonna genovese delle BR”. Il documento evidenzia con chiarezza la partecipazione al convegno di tutti coloro che successivamente uscirono dalle BR e si trasferirono a Parigi, dove fondarono la ben nota scuola di lingue Hyperion, definita in un documento della questura di Roma “uno dei più importanti uffici di rappresentanza della CIA in Europa”. Tra essi ricordiamo: Corrado Simioni, Giovanni Mulinaris, Innocente Salvoni, Franco Troiano e Françoise Marie Tuscher, moglie di Salvoni. Vi era anche Mario Moretti, molto vicino al gruppo, che infatti si allontanò dalle BR, ma poi vi rientrò per assumere, dopo il 1974, un ruolo di rilievo. La figura di maggior spessore culturale era certamente Corrado Simioni. Egli ebbe un ruolo di un certo rilievo nella federazione giovanile del PSI all’epoca in cui vi militava anche Bettino Craxi […] Dopo il convegno, nell’estate del 1970 fu stampato e diffuso il numero zero del periodico Sinistra Proletaria, nel quale figuravano, tra i redattori e i collaboratori, Renato Curcio e Duccio Berio. Dunque a quella data il gruppo che faceva capo a Simioni era ancora all’interno delle nascenti Brigate Rosse. Ma Simioni già assumeva iniziative autonome. Aveva organizzato una specie di servizio d’ordine con il compito di eseguire azioni durante le manifestazioni: i gruppi di compagni si staccavano dal corteo, colpivano determinati obiettivi e poi rientravano mimetizzandosi in mezzo agli altri. La funzione di questo gruppo era quella di alzare il livello dello scontro. È la tecnica che verrà poi fatta propria da Autonomia Operaia nei cortei del 1977 […] Nel 1970 Simioni, Berio, Mulinaris e altri lasciarono il collettivo. La giustificazione formale era un dissenso sulle forme di lotta, sul passaggio alla clandestinità. Franceschini colloca la scissione tra ottobre e novembre del 1970 e la fa scaturire da una iniziativa di rottura da parte di Curcio e dello stesso Franceschini. Anni dopo quest’ultimo avrebbe ricordato la posizione del gruppo: a suo avviso “occorreva preparare una struttura segreta, infiltrata in tutti i gruppi dell’estrema sinistra, per il grande giorno che, data la scarsa maturità delle masse, non sarebbe arrivato prima della metà degli anni Settanta. Vagheggiavano una clandestinità assoluta, totale, niente sigle né rivendicazioni”. Mario Moretti fu per breve tempo con loro, poi tornò a ricongiungersi con Curcio e Franceschini nel marzo-aprile del 1971. Non è avventato pensare che Simioni abbia ritenuto più utile che Moretti rientrasse nelle BR. Ricorda Franceschini: “Se dovessi datare l’inizio dell’escalation della violenza brigatista, direi che coincide proprio con l’arrivo di Moretti. Lui ci spinge continuamente ad alzare il tiro. Con lui, compiamo il salto di qualità organizzando il nostro primo sequestro di persona, quello di Idalgo Macchiarini, dirigente Sit-Siemens. È lui a proporre di attuare un sequestro, è lui sostanzialmente che ci indica l’obiettivo ed è lui ad organizzare il tutto. L’operazione Macchiarini sancisce sino in fondo l’ingresso di Moretti nel gruppo dirigente delle BR” […] Del Superclan l’opinione pubblica ignorò persino l’esistenza fino al 1979, quando il giudice Calogero tentò di indagare sulla scuola parigina Hyperion. Ancora oggi non sappiamo cosa abbiano fatto Simioni e i suoi amici tra il 1971 e il 1974, anno nel quale si sarebbero tutti trasferiti a Parigi per aprire una nuova fase della loro attività [...] A quella data gran parte del gruppo si trasferisce a Parigi. Qui, improvvisamente, tutti si scoprono amanti del teatro e delle lingue straniere; infatti fondano una scuola di lingue che si chiama dapprima Agorà e poi Hyperion. Ufficialmente, la fondatrice è Giulia Archer, convivente di Corrado Simioni. In realtà i promotori dell’iniziativa sono lo stesso Simioni, Mulinaris, Berio, Salvoni e la moglie di quest’ultimo, Françoise Tuscher. Scopo ufficiale dell’istituto è quello di favorire la diffusione della cultura attraverso lo studio delle lingue. Hyperion, inoltre, organizza convegni, viaggi, rappresentazioni teatrali e corsi di recitazione. Tutta queste attività apparve solo come un’attraente facciata al giudice Pietro Calogero che alla fine del 1978, mentre indagava sull’Autonomia organizzata di Padova, chiese alla questura di Roma di prendere contatti con la polizia francese per svolgere un’indagine riservata sul gruppo. Ma il 24 aprile 1979 il Corriere della Sera pubblicò un ampio e dettagliato articolo dal titolo “Secondo i servizi segreti era a Parigi il quartier generale delle Brigate Rosse”. La sera stessa, durante la trasmissione Notturno dall’Italia della RAI, la notizia veniva ripresa, si parlava di collegamenti anche in altre città europee e, contestualmente, si faceva il nome di Toni Negri, oltre a quelli di Simioni, Mulinaris e Berio […] La fuga di notizie nel giro di pochi giorni provocò l’interruzione delle indagini; la polizia francese infatti comunicò ai funzionari romani che l’inopportuna fuga di notizie li poneva in forte imbarazzo, per cui interrompevano ogni collaborazione. Poiché ogni organo di polizia non può compiere indagini all’estero se non tramite l’Interpol o in collaborazione con la polizia locale, anche gli uomini della questura di Roma si videro costretti a sospendere ogni attività […] Abb_pierreLa vicenda Hyperion sembrò concludersi nel peggiore dei modi, con indagini strangolate e una campagna innocentista che coinvolse non solo una parte cospicua della sinistra francese e settori della sinistra italiana, ma fu caratterizzata anche dall’intervento pesante dell’abbé Pierre, fondatore del movimento Emmaus e animatore di molte iniziative in favore di poveri e diseredati. Dopo una carriera prestigiosa nelle file della Resistenza, si era candidato alle elezioni per l’Assemblea costituente ed era stato eletto come indipendente nelle liste del Mouvement républicain populaire del generale de Gaulle. Nel corso del suo mandato era però entrato in contrasto con i parlamentari dell’MRP ed era passato al gruppo della sinistra indipendente. Nelle elezioni del 1951 non fu rieletto e si dedicò ad attività di aiuto e sostegno dei poveri e di coloro che erano privi di alloggio. Nel 1954 fondò l’organizzazione Compagnons d’Emmaus, un insieme di comunità presenti in trentacinque paesi. Forte del suo prestigio lo spese tutto per sostenere l’innocenza degli uomini dell’Hyperion. È un dato di fatto giudiziariamente accertato che la fotografia di Innocente Salvoni, comparsa durante il sequestro Moro in un elenco di venti terroristi sospettati di aver partecipato al sequestro, fu poi tolta dall’elenco dopo una visita dell’abbé Pierre a Roma presso la sede della Democrazia Cristiana […] Innocente Salvoni è coniugato con Françoise Marie Tuscher, cittadina svizzera figlia della sorella dell’abate. I due coniugi furono indicati fin dal 1972 quali maggiori animatori del gruppo di estrema sinistra Superclan, organizzazione di Milano che in quel periodo era composto da elementi provenienti da vari movimenti extraparlamentari e, in modo più specifico, dalle Brigate Rosse. Ma su Innocente Salvoni pendevano ben più corposi sospetti: due testimoni che si trovavano casualmente a passare in via Fani quando Aldo Moro fu rapito e la sua scorta sterminata riconobbero Salvoni come una delle due persone che avevano accompagnato a un bar Franco Bonisoli che, per l’emozione del momento, si era sentito male. In realtà, proprio nel periodo del sequestro Moro, l’Hyperion aprì tre sedi di rappresentanza in Italia: due a Roma (una in via Nicotera 26, in un palazzo che ospitava anche sedi di copertura del SISMI e in viale Angelico 38, dove prese alloggio Corrado Simioni) e una a Milano, in via Albani 33 […] Sulla vicenda Hyperion, dopo l’improvvida fuga di notizie dell’aprile 1979, sembrava caduto il silenzio, ma fin dal 1981, dapprima in conversazioni con il generale Dalla Chiesa e poi in verbali d’interrogatorio dinanzi a magistrati di tutta Italia, vari aderenti alle BR che avevano scelto di collaborare con la magistratura rivelarono molti particolari inediti sul possibile ruolo eversivo degli uomini che gravitavano intorno alla scuola di lingue. Michele Galati e Antonio Savasta citarono Corrado Simioni, Duccio Berio e Vanni Mulinaris come le persone che insieme a Mario Moretti avevano gestito i rapporti internazionali e i canali riservati utili per l’acquisizione di armi da paesi esteri […] Le dichiarazioni di Galati, di Savasta e di altri collaboratori di giustizia portarono, il 2 febbraio 1982, all’arresto di Mulinaris. L’abbé Pierre tornò a Roma ed ebbe molti altri incontri ad alto livello. Furono aperte due inchieste, ma alla fine tutti gli imputati furono prosciolti […] Tutte le persone citate devono dunque essere considerate innocenti. Ma è indubbio che la vicenda ha conservato ampi margini di ambiguità: le testimonianze dei brigatisti italiani erano precise e concordanti. C’è inoltre da ricordare che i contatti con il gruppo parigino furono sempre mantenuti solo al massimo livello: Mario Moretti per molti anni e, dopo il suo arresto, Giovanni Senzani. Chi e perché ha protetto per un ventennio e oltre gli esponenti di Autonomia a Parigi? Chi ha avuto interesse che per decenni esistesse una scuola di lingue dietro il cui paravento operavano uomini che hanno gestito il traffico d’armi a favore delle Brigate Rosse? Su questo punto sono molto precise le dichiarazioni di Mauro Del Prete, già convivente in Italia di Rita Cauli, poi entrata a far parte dell’Hyperion. Del Prete, anche a seguito dei colloqui con la compagna del brigatista Marongiu, rivela che “attraverso il Partito Socialista Francese, anche i latitanti inquisiti in Italia per fatti di banda armata e altro, fruirono di permessi di soggiorno: i fuoriusciti erano assistiti in Francia da una struttura o rete costituita anche da Antonio Bellavita, sin dall’atto in cui il predetto riparò a Parigi”. Giovanni Codini, che ha fatto parte del gruppo dell’Hyperion, interrogato dal giudice Mastelloni, ha dichiarato a sua volta: “L’Hyperion contava su amicizie politiche del tipo di quelle riferentesi a Chaban-Delmas, gollista, mediate dall’Abbé Pierre”. MitterrandUno dei magistrati che ha analizzato più a fondo il nodo politico-strategico che si cela dietro la scuola di lingue è Rosario Priore. Gli abbiamo chiesto una valutazione: “L’Hyperion, un tempo Agorà, oggi Kiron – e la scelta dei nomi già ne indicherebbe a sufficienza l’essenza e le finalità – è il luogo, fisico e non, dell’incontro delle eversioni e delle insorgenze, a prescindere dalle ragioni e dai torti. Il luogo del confronto delle lotte armate, del gotha delle organizzazioni che la praticano, dalle periferie del pianeta alle metropoli. E quindi della conflittualità al tempo della guerra fredda e oltre. E perciò delle presenze di tutti quei servizi più o meno mimetizzati, degli Stati interessati a monitorare, di più, a pilotare le evoluzioni di quei movimenti, organizzazioni e persino istituzioni che si incontravano e dibattevano presso quel luogo. È in questa agorà, dopo anni di contatti informali, che le nostre BR furono immediatamente convocate – dopo i successi della campagna di primavera ’78, con l’attacco al cuore dello Stato e l’operazione Moro – osannate per capacità e potenza militare e richieste di maggior impegno sul piano internazionale […] Tutto questo in territorio di Francia, terra d’asilo per eccellenza quanto meno dall’Ottocento, rafforzata in questa ideologia e politica dalla dottrina Mitterrand. Costui avrà tentato di mettere questa particolarissima situazione di fatto, cioè la concentrazione di tutte queste forze, al servizio del proprio paese, concependo su queste basi un grande disegno politico. E a questi disegni non poteva restare estranea, considerata la militanza del presidente in quel periodo della sua vita, un’area certamente non istituzionale del partito e dell’Internazionale socialista, che di certo saranno stati a conoscenza dei fatti e avranno tentato di trarne vantaggio. Queste considerazioni sarebbero potute rimanere delle pure ipotesi se non avessimo trovato in certi brigatisti delle tesi che le confermavano. Un terzo giocatore tra USA e URSS, tra capitalismo e comunismo, una grande entità socialista radicata in Europa, con un asse tra la Francia e tutti quei paesi socialisti o socialdemocratici del Centro e Nord Europa. Una entità che tenta di farsi strada tra i due giganti, occupando spazi e perseguendo una propria politica e propri interessi. Specularmene, situazioni del tutto analoghe anche all’interno dei singoli Stati, in particolare in Italia. E quindi una conseguente chiave di lettura della politica italiana di quel periodo: l’avvicinamento tra DC e PCI, il tentativo di compromesso storico, l’avversione a esso del PSI, che ne sarebbe rimasto schiacciato”. Sul problema rappresentato dall’Hyperion l’ex ministro dell’Interno Virginio Rognoni rese una deposizione dinanzi alla Commissione Moro che lascia chiaramente intravedere divergenze all’interno del governo francese. Egli disse: “Qui devo dire che, trovandomi sia a livello di riunione di ministri dell’Interno della Comunità Europea sia in incontri bilaterali con i ministri francesi, ripetutamente, fino a rischiare di essere noioso e ripetitivo, ho posto il problema dell’Hyperion. La Francia si è sempre eclissata su questo problema, nel senso che inchieste amministrative sono state fatte, ma non è risultato mai nulla. È poi nota la posizione francese su alcuni dei soggetti passivi di questi mandati di cattura (Simioni, Berio, Pace, Scalzone ed altri). Si trattava di dare una mano al ministro degli Interni Gaston Defferre, il quale in incontri sul tipo di quelli ricordati prima, mi assicurava essere suo preciso intendimento assecondare la richiesta del nostro Paese, contro una diversa opinione che nel gabinetto francese si esprimeva e si esprime tuttora, in particolare da parte del ministro della Giustizia. Però, su questo aspetto la situazione è bloccata” […] Quali gruppi estremisti operavano concretamente a Parigi? Dalla documentazione a suo tempo raccolta da Calogero nel 1979, emergeva un legame consolidato tra il professor Antonio Negri, lo psicanalista Felix Guattari e il terrorista Antonio Bellavita. Ma la figura di maggior interesse era quella di Jean Louis Baudet. Siamo a un livello che il giudice Mastelloni definisce organico e funzionale a branche dei servizi di sicurezza francesi e dell’OLP. Chi è Jean Louis Baudet? Nato a Mentone nel 1952 e residente a Parigi, fu arrestato il 17 novembre 1983, dopo che una perquisizione in casa sua aveva evidenziato armi, esplosivo e un centinaio di documenti falsi o da contraffare. Al momento dell’arresto, mentre era ancora in corso la perquisizione, Baudet aveva chiesto al funzionario di polizia di poter telefonare a uno dei più stretti collaboratori del presidente della Repubblica François Mitterrand […] Dall’Eliseo giunsero smentite solo sul punto specifico dell’esistenza di una cellula interna allo stesso Eliseo in contatto con movimenti estremisti. I legali di Baudet sostennero la tesi che settori della polizia avessero montato un caso in funzione antisocialista e preannunciarono contro il giudice Rosario Priore che indagava su questa vicenda, una querela che poi “dimenticarono” di presentare. Nel frattempo, infatti, era stato arrestato a Roma Giovanni Senzani, e alcuni dei brigatisti a lui più vicini non solo confermarono i contatti tra Baudet e il capo del “partito guerriglia”, ma rivelarono che proprio Baudet avrebbe dovuto portare dei bazooka dalla Francia che sarebbero stati usati contro la sede della DC all’Eur e contro il ministro di Grazia e Giustizia. Baudet e Senzani avevano fatto anche un sopralluogo nelle vicinanze dei due obiettivi, ma poi quest’ultimo era stato arrestato e tutto era andato a monte […] Nel verbale di perquisizione nel corso dell’arresto di Baudet egli chiede di far telefonare al “signor François de Grossouvre”. Chi era costui? Dice il giudice Priore: “Fu un uomo per tutte le stagioni: vorrebbe essere una definizione negativa, ma potrebbe essere anche positiva. È stato chiamato “moschettiere del re” e “guardia del cardinale”. Le informazioni su di lui appaiono immediatamente contraddittorie. Sarà sufficiente rammentare il suo passato, che affonda le sue radici nel governo di Vichy, attraversa la Resistenza, anche se non sappiamo quando vi aderì, pare solo nell’estate del 1944, per approdare poi alla Francia della Quarta Repubblica. C’è invece chi sostiene che abbia servito con intelligenza e vigore gli interessi della Francia, anche quando si scontrava violentemente con gli Stati Uniti. Le sue iniziative, il suo attivismo, crearono invidie e dissapori all’interno dell’Eliseo. La sua morte, proprio all’interno di quel palazzo dove lui aveva acquisito un potere immenso, avvenne ufficialmente per suicidio. Pochi credono alla tesi ufficiale. Più d’uno ha chiesto la costituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta sulle vicende della ‘cellula antiterrorismo’ dell’Eliseo. A tutt’oggi non se ne è fatto nulla”. In una ricerca condotta dallo studioso svizzero Daniele Ganser sulle strutture Stay Behind si leggono altri particolari: “Forse il membro più famoso dell’esercito segreto anticomunista francese della Rosa dei Venti fu François de Grossouvre che, nel 1981, divenne consigliere per le operazioni segrete del presidente socialista Mitterrand. Durante la seconda guerra mondiale,Grossouvre era stato arruolato in una milizia fascista che sosteneva Vichy, ma dichiarò in seguito di esservisi infiltrato per conto della Resistenza. Nel dopoguerra il servizio segreto militare l’aveva reclutato per l’esercito segreto della Rosa dei Venti… Come consigliere speciale del presidente Mitterrand, Grossouvre tornò a manovrare la guerra segreta all’inizio degli anni Ottanta, ma fu sollevato dalle sue principali responsabilità nel 1985. Il suo stile troppo spregiudicato era diventato intollerabile per i più seri colleghi di Mitterrand… Quando Grossouvre morì, la sua partecipazione alla guerra clandestina non era più un segreto… All’età di 76 anni si era drammaticamente sparato un colpo di pistola all’interno dell’Eliseo, il 7 aprile 1994”.

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QUATTRO GATTI

Milano_1977_uccisione_vicebrigadierL’anno che va dalla morte di Tobagi (28 maggio ’80) all’arresto di Moretti (4 aprile ’81) è tra i meno chiari della storia delle BR. Matura la separazione che si consumerà subito dopo tra l’Esecutivo e la colonna Walter Alasia. Emerge il problema degli infiltrati. Moretti appare rassegnato alla fine della parabola iniziata tre anni prima (con la scoperta del covo di via Gradoli e la “trattativa” con i servizi). Nell’aprile ’80, mentre si prepara l’attentato a Tobagi (l’Arma lo apprende da un infiltrato), la stampa dà notizia di un’altra infiltrazione: si tratta della confessione del brigatista Marino Pallotto (12 aprile) che fa arrestare membri di un gruppo armato di cui fa parte e che è collegato alla colonna romana delle BR, operante a Monte Mario. Entratovi alla fine del ’78, vi aveva trovato Paolo Santini, arrestato con lui il 28 dicembre ’79. il 9 gennaio Santini “dichiara al giudice di aver agito su incarico dei carabinieri del nucleo operativo di Roma. Sostiene di aver sempre informato il colonnello Cornacchia. La sua versione è confermata dal colonnello, per cui il giudice ne ordina la scarcerazione”. Il colonnello, comandante del nucleo investigativo di Roma, è iscritto alla P2; è tra i primi ad accorrere in via Fani, partecipa alle indagini, nel ’79 compie i primi accertamenti sull’omicidio Pecorelli, ammetterà davanti alla Commissione Moro di disporre di un infiltrato nelle BR, forse lo stesso Santini, in realtà facente parte di un gruppo fiancheggiatore. Pallotto si suicida in carcere, Santini è in libertà, negli stessi giorni l’Arma dispone di un altro infiltrato nel gruppo che sta per uccidere Tobagi: Rocco Ricciardi, postino a Varese, confidente dal 24 marzo ’79. egli ammetterà di essere un confidente, di aver fatto arrestare militanti, di aver preannunciato l’omicidio di Guido Galli ma non quello di Tobagi. Si permetterà di criticare “leggerezze sul mio conto anche da parte dell’onorevole Scalfari che ha fatto il mio nome in Parlamento, esponendomi a rappresaglie e mettendo così in pericolo anche i miei familiari”. Ma che abbia informato sull’omicidio è ampiamente documentato. I precedenti delle infiltrazioni risalgono alle Formazioni Comuniste Combattenti, dalle quali deriva la “Brigata 28 marzo” (la data di via Fracchia), guidata da Marco Barbone (“Barboncino”). Le FCC erano state fondate da Alunni, col quale collaborava il ventenne Barbone. Dopo l’arresto di Alunni (settembre ’78), che il gruppo abbia potuto tranquillamente operare a Milano – dove le forze di sicurezza erano state in grado di colpire ininterrottamente il partito armato, dai giorni di Feltrinelli alla distruzione della colonna BR nel maggio ’72 – lascia supporre che fosse comunque sotto controllo. Si tratta di un gruppo raccogliticcio, che Barbone descriverà così: “Marocco, Felice e la sua ragazza, Zanetti, Balice, un suo amico di Saronno, la moglie di Balice, Bellerè, De Silvestri, Gianni, un amico di De Silvestri, Rocco (il postino), Brusa e la sua ragazza di cui ignoro il nome, le sorelle Zoni, un certo Pranzetti, Colombo, Marchettino di Varese, Bartisaldo e sua moglie, Piroli, Belloli Maria Rosa, un amico di Gianni, amico di De Silvestri”, oltre alla sua fidanzata Caterina Rosenzweig, che Barbone non cita. Da questo gruppo di “amici”, “ragazze” e “mogli” esce il gruppo (Mario Marano, Paolo Morandini, Daniele Laus, Manfredi De Stefano e Francesco Giordano) che il 7 maggio ferisce a casa sua il giornalista della Repubblica Guido Passalacqua; e il 28, dopo essersi appostato per ore in una via presso il carcere di San Vittore (zona quindi percorsa da macchine della sicurezza), uccide Tobagi, dando luogo a uno degli episodi di lotta armata più gravidi di dubbi e polemiche (per supposti mandanti nel mondo giornalistico, per una elaborata rivendicazione ricavata dalla rivista specializzata Ikon, difficilmente attribuibile a quel gruppo di spostati). Tra l’infiltrazione che precede l’omicidio Tobagi (con le citate caratteristiche che ne fanno un episodio particolare della lotta armata) e quella che porta all’arresto di Moretti, si colloca un periodo di difficoltà e anche di oscurità per le BR travagliate dai dissensi interni, anche per il ruolo di sempre maggior rilievo di Giovanni Senzani […] Dopo l’eco suscitata dall’omicidio Tobagi (maggio) e prima del sequestro D’Urso (dicembre), l’estate e l’inizio dell’autunno trascorrono senza eventi di rilievo, sino agli omicidi milanesi a opera della Brigata Alasia sempre più autonoma. Si è visto il duro colpo infilitto alle colonne di Torino (arresto di Micaletto) e di Napoli (cattura di Seghetti e Nicolotti). Questa la situazione di Genova, dopo via Fracchia e mentre sparisce Livio Baistrocchi, uno dei fondatori: “la strage di via Fracchia provoca un’esplosione ritardata. Decine di giovani sull’onda dell’emozione chiedono di entrare nelle BR e Lo Bianco, rimasto solo a guidarle, li accetta. ‘Ai primi arresti’ dice Fenzi, ‘arrivano in questura le madri, abbracci e baci con i ragazzini piangenti, l’invito materno subito raccolto a vuotare il sacco e in pochi giorni finirono tutti in galera’, le BR genovesi erano finite per sempre”. Francesco Lo Bianco era “rimasto solo” dopo l’arresto di Fulvia Miglietta e Gianluigi Cristiani. Che Fenzi, appena assolto, entri in clandestinità nel giugno ’80, proprio mentre ritiene “finite per sempre” le BR genovesi, è un’altra stranezza del periodo che può essere valutato attraverso una lunga riflessione postuma di Moretti. Ma prima va segnalato un episodio del tutto isolato, che movimenta a sinistra la peraltro relativamente tranquilla estate ’80, e che sarà eclissato dalla strage di Bologna (2 agosto). Il 25 luglio vengono rapiti a Barberino d’Elsa dov’erano in vacanza, Suzanne e Sabine Kronzucker, figlie di un amico di Franz Joseph Strass, il potente leader dell’Unione cristiano-sociale bavarese, ministro della Germania Federale, e il loro cuginetto Martin Waechtler. L’azione viene rivendicata da un gruppo che così si presenta: “Dalla base mobile operativa toscana intitolata al grande compagno Antonio Gramsci, Chaka II, capo dell’anonima sequestri operante in tutta l’Italia centrale elenca i mandanti della strage nazifascista messa in atto alla stazione di Bologna il 2 agosto [seguono i nomi di alcuni leader DC]. Chaka II creerà una nazione sarda, una seconda Cuba nel Mediterraneo, basteranno un migliaio di uomini, di veri sardi, a sconfiggere i colonizzatori sardi”. Il gruppo, guidato da Mario Sale, ottiene la pubblicazione del comunicato e probabilmente un riscatto. Rilascia i sequestrati e continua la sua attività senza implicazioni politiche. L’evocata strage di Bologna contribuisce, in quell’estate, a spostare l’attenzione dalla lotta armata di sinistra al cosiddetto terrorismo nero e stragista. Ovviamente Moretti non accenna a Chaka II ma neanche all’omicidio Tobagi, quando fa il punto della situazione, a partire da giugno e sino alle iniziative autunnali della Alasia: “Fenzi aveva partecipato alla stesura del famoso ‘documentone’. Appena fuori si avvede di colpo che una cosa è quel che immaginavano dentro e un’altra la realtà. Che non stessimo viaggiando sulla cresta dell’onda videro bene anche Marina Petrella e Luigi Novelli, usciti anch’essi di prigione in quel periodo e inseriti nella colonna romana. Con Fenzi ci intendiamo bene, discutiamo del ‘documentone’, ne recuperiamo gli elementi d’analisi che erano i soli utilizzabili. La Walter Alasia non ci sta, vuole fare subito. Sono compagni arrivati tardi, ultimi, nelle Brigate Rosse, come De Maria, Betti e Alfieri e non hanno tutti i torti, la situazione all’Alfa Romeo è tale che non possiamo stare a guardare, siamo fermi da troppo tempo e rischiamo di essere assenti come alla FIAT nel momento cruciale. Mettiamo in cantiere assieme due azioni, individuando un dirigente dell’Alfa, Manfredo Mazzanti e uno della Marelli, Renato Briano. Ma come colpire… ci stiamo lavorando quando il gruppo milanese forza i tempi, colpisce”, uccidendo Briano il 12 novembre e Mazzanti il successivo 28. si può rilevare come le BR in difficoltà siano agevolate da inopinati rilasci (Fenzi, Petrella, Novelli), mentre ai servizi non mancano informazioni su Pasqua Aurora Betti, citata fin dal ’70-71 in un documento trovato nella base di Mediglia (“Pippo o della lucida follia”: Pippo sarebbe Franco Piperno). Anche il giudice Calogero nella sua istruttoria nel parla: “Fra le persone citate Toni Negri e Aurora. Nelle agende di Negri del 1973 e 1974 è più volte citato il nome di Aurora. Il numero telefonico accanto al nome di Aurora è di una persona che ha dato ospitalità a Milano a tale Betti Aurora di Roma, la cui identificazione non è mai avvenuta”. Quanto alla posizione della Alasia, Vittorio Alfieri la sintetizza così: “Agnelli ha fatto piazza pulita. All’Alfa la direzione rimanda lo scontro. Una proposta passa perché avevamo organizzato gli operai della catena, quelli che sostenevano la piattaforma alternativa. Avevamo letteralmente spostato il PCI organizzato e vinciamo questa assemblea. Vinciamo con l’assemblea generale dopo aver fatto una serie di interventi, tra cui il mio. Era questo il lavoro che si faceva, la militanza dei compagni delle BR; ed era questo il rapporto che si stabiliva con gli operai. Non aveva importanza di dover dire di essere delle BR. Dalla presenza capillare nel movimento di massa, in quello rivoluzionario di Milano, c’era che le BR diventassero un complessivo punto di riferimento, che unificasse movimenti che si esprimevano nei quartieri, ospedali, fabbriche, attorno a una strategia di potere. Non dunque attorno alla forma di lotta della lotta armata, ma a un programma politico. Le BR dovevano diventare qualcosa di diverso da quello che fino allora avevano rappresentato. Nel settembre ’80 mi licenzio e decido di lavorare a tempo pieno per dare continuità al lavoro politico, a questa esperienza autonoma della Alasia. Per ciò che stava succedendo alla FIAT era per noi necessario dare una risposta allo stesso livello di attacco feroce. Abbiamo colpito due simboli, Briano e Mazzanti. Bisogna spiegare quanto sia stato simbolico da parte dello Stato l’uccisione premeditata di due compagni che a Milano sono morti, in particolare Walter Alasia, nato con me. È anche lui di Pero. Ha vissuto la mia stessa esperienza. Sin da bambini andavamo a fare i chierichetti”. I “frammenti” – tutti – danno un quadro del periodo: le BR sono stremate, a Roma si riorganizzano attorno ai rilasciati, a Napoli con Natalia Ligas e Antonio Chiocchi, a Milano dispongono ancora di un insediamento in fabbrica con ex chierichetti che pensano alla “ferocia” come valore simbolico, che fondono le esperienze delle prime BR (rivendicazioni operaie) e delle seconde (sparare per uccidere), ma in una realtà sociale del tutto mutata. Maturano contrasti di fondo. Temporaneamente la strategia si ricombatta attorno al problema carcerario, per stimolo di Senzani. Le forze di sicurezza controllano attraverso rilasci e informative (casi Petrella, Novelli e Betti); il PCI è ormai lontano dal governo, ma la situazione non è stabilizzata (ottobre-novembre ’80: secondo scandalo dei petroli, terremoto in Irpinia). È in questo contesto che parte l’operazione D’Urso […] Il 12 dicembre, anniversario di piazza Fontana, le BR sequestrano il responsabile della gestione delle carceri presso il ministero di Grazia e Giustizia, il magistrato Giovanni D’Urso. Le BR, allo stremo e alle strette, ma tollerate dai servizi, sembrano ancora dominare la scena politica nazionale. Lo scopo è migliorare le condizioni dei militanti detenuti, “perché li stanno massacrando e perché siamo molto forti dentro le carceri speciali” (sembra una contraddizione). La richiesta precisa sarà la chiusura dell’Asinara, rimasto ormai aperto solo per pochissimi brigatisti. È in gioco la vita di D’Urso, il governo è preoccupato perché la magistratura lamenta le sue troppe vittime (oltre a quelle della lotta armata di sinistra qui registrate, vi sono altre della destra armata, da Vittorio Occorsio nel luglio ’76 a Mario Amato, nel giugno ’80). Il ministro della Giustizia, Alfonso Sarti (DC, iscritto alla P2) alla vigilia di Natale chiude l’Asinara (affermando che era un provvedimento deciso da tempo, d’accordo con Dalla Chiesa). Il 28 dicembre scoppia una rivolta nel carcere speciale di Trani, i detenuti catturano diciotto guardie, ma il 29 le forze speciali del GIS (Gruppo di Intervento Speciale) riconquistano il carcere. In risposta a quello che definiscono “il massacro di Trani” le BR uccidono a Roma, il 31 dicembre, il generale dell’Arma Enrico Galvaligi, responsabile, dopo Dalla Chiesa, dell’Ufficio coordinamento carceri. Per D’Urso si tratta. I brigatisti chiedono la pubblicazione dei loro comunicati e consultazioni dei detenuti. Socialisti e radicali mediano, i primi pubblicando i testi BR sull’Avanti, i secondi visitano, coi loro parlamentari, le carceri di Trani e Palmi, per consentire assemblee nelle quali ci si orienta per liberare D’Urso. Si pronunciano in questo senso Eleonora Moro e Stella Tobagi, vedova di Walter. Quando le BR chiedono che la TV pubblica trasmetta i loro comunicati, i radicali mettono a disposizione il loro spazio a Tribuna Politica perché la figlia del magistrato legga un testo nel quale il padre è definito “boia”: la decisione suscita indignazione nel ricostituito “partito della fermezza”, dalla DC al PCI (ma anche Eugenio Scalfari permette la pubblicazione sull’Espresso dei verbali degli interrogatori di D’Urso forniti dalle BR). Il 15 gennaio il magistrato viene liberato. È un grande successo delle BR, i cui limiti saranno poi così registrati da Moretti: “Progettiamo una campagna che considero il capolavoro politico della BR. Riusciamo a dividere la magistratura, che non vuole più immolarsi. Il fronte della fermezza mostra qualche crepa. Chiediamo la chiusura dell’Asinara e la otterremo. D’Urso verrà liberato poche ore dopo la lettura di un comunicato dei prigionieri di due carceri speciali, Trani e Palmi. Abbiamo vinto, la sensazione è che si sta risalendo. È stato un capolavoro di guerriglia ma si rivelerà ingannevole. Dovrebbe essere un paradigma e si rivelerà invece una perfetta opera d’artigianato, così particolare da restare un pezzo unico, non si ripeteranno più le modalità politiche che, sperimentate con successo nel caso D’Urso, ci sembravano risolutive. Se fossi presuntuoso, direi che è andata così perché dopo qualche mese sono stato arrestato e sono stati altri a dirigere l’organizzazione, ma sarebbe una bugia. Quel successo non era indicativo di una possibilità di trasformazione della guerriglia, esprimeva quel che avveniva, un corpo sociale in maturazione rimaneva del tutto fuori dalle sue possibilità”. Moretti non è presuntuoso però è un po’ vago. In realtà, anche dopo il suo arresto, le BR sembrano all’offensiva, con ben quattro rapimenti in contemporanea, tra aprile e i primi di giugno. Ci si deve chiedere come il partito armato possa apparire grandeggiante quando è ridotto a “quattro gatti”, come afferma lo stesso Moretti nel quadro di una descrizione dei rapporti con la Alasia, per recuperare o sostituire la quale conclude la sua carriera di inafferrabile: “Ho gestito tutte le discussioni per mesi, per anni, con uno scrupolo da far invidia a un democraticista inveterato, convocando la direzione strategica ogni volta che veniva richiesta, rassegnando le dimissioni ogni volta che lo chiedevano. Anche se sapevo che i problemi, quando sono della dimensione di quelli che avevamo noi dopo Moro, non li risolvi in quel modo. Non espello l’Alasia, non espello nessuno, figuratevi se espello qualcuno, eravamo quattro gatti. Il mio sforzo disperato è di tener tutti assieme. Sapevo che una divisione delle BR sarebbe stata la fine… Ci divide il fatto che la Walter Alasia comincia a far azioni per conto suo”. Ciononostante, Moretti tenta un recupero: “Cercavo di ritessere dei fili a Milano. I compagni della Walter Alasia se ne erano andati per i fatti loro, facendoci perdere un punto di forza. E le Brigate Rosse non potevano rinunciare a Milano, non è questione di potere o di concorrenza fra i gruppi, avevamo sempre saputo che se per qualche ragione ce ne fossimo andati da Milano e dalle fabbriche, avremmo smesso di esistere per quanto forti fossimo altrove. Nell’inverno del 1981 a noi non restava che riprendere i vecchi contatti in città con i compagni. Di regolari andammo a Milano Enrico Fenzi, Barbara Balzerai e io […] Per un super ricercato era un’imprudenza imperdonabile cercare i primi contatti. Questo è il lavoro tipico degli irregolari. Ma in quel momento a Milano questa rete s’è inaridita, siamo debolissimi e benché sia una pazzia i primi contatti li cerco io. E così in uno dei contatti che, dopo la prima volta, avremmo scartato, Fenzi e io cadiamo in una trappola tesa dalla polizia e veniamo arrestati” […] Va ricordato che Moretti è nella situazione conseguente il sequestro Moro. Ha trattato per le “carte”, è rimasto un rivoluzionario, ma sa di essere controllato. Le BR sono ridotte a “quattro gatti”. Probabilmente corre il rischio che descrive perché pensa che lo si lasci ancora operare, che chi punta sulla destabilizzazione apparente abbia ancora bisogno delle “sue” BR. Evidentemente non è così. Il sequestro D’Urso è stata la sua ultima impresa. Il suo posto sta per essere preso da Giovanni Senzani, che è uscito allo scoperto, è entrato in clandestinità proprio col sequestro D’Urso, e appare ora il leader capace di interessarsi dei militanti detenuti con maggiore impegno di Moretti. Arrestato il capo, Senzani arriva al vertice dell’organizzazione, che si sta dividendo, ma in una forma di separazione consensuale (come era avvenuto nel ’74 con Alunni e le sue FCC). È ancora col nome collettaneo delle BR che verranno gestiti i quattro sequestri che a metà del 1981 presentano ancora l’Italia come un Paese instabile, mentre con la regia o la copertura dei servizi si prepara la svolta politica che completerà l’isolamento del PCI e che sarà accelerata dal sequestro Dozier. Gli eventi che porteranno all’arresto di Moretti iniziano nell’agosto 1980, secondo il racconto di Giorgio Bocca: con un dibattito nel quale Fenzi viene accusato di essere “un servo di Moretti”, mentre Aurora Betti piange “cosa piuttosto imbarazzante tra rivoluzionari”, dopo una rottura per cui “nel tentativo di rimettere comunque in piedi un nucleo BR milanese Moretti entra in contatto con un certo Longo, un malvivente tossicodipendente che fa da informatore alla DIGOS di Pavia. Moretti e Fenzi vengono pescati mentre vanno a un appuntamento con la spia. Renato Longo riesce dove gli uomini di Dalla Chiesa hanno sempre fallito”. In realtà Moretti è controllato, e non è credibile che voglia riorganizzare le BR partendo da un tossicodipendente. Le vere modalità della cattura non verranno mai accertate, anche se al momento “lo stesso ministero dell’Interno espresse con un attestato di merito il riconoscimento ai due esperti funzionari pavesi Cera e Filippi”; quest’ultimo verrà poi inquisito per favoreggiamento e in occasione del processo di primo grado tenutosi a Pavia, il giornalista Giorgio Micheletti giunge a questa conclusione: “Il processo Longo-Filippi è stato definito il processo dalle molte verità e dove i veri imputati non erano presenti: la sentenza non fa che concludere il primo atto di questa vicenda che forse non verrà mai chiarita del tutto”. Una valutazione che non cambia a vent’anni di distanza e nonostante un singolare scambio di battute al processo Moro ter. L’avvocato Pino De Gori, legale della DC, costituitasi parte civile, chiede a Morucci: “Ma Moretti chi se l’è venduto?” Sorpresa in aula. Morucci è un po’ meno sorpreso: “Ma lo si sa benissimo…” Il legale che ha posto la domanda riaffaccia poi, nelle pause del processo, il sospetto che nella cattura di Moretti ci sia lo zampino dei servizi segreti israeliani, scontenti che Moretti avesse risposto negativamente al alcune loro offerte. Ma si tratta di pure supposizioni. MoroDe Gori è lo stesso legale che sostiene: “Per noi la prigione di Moro era al centro, nella zona compresa fra piazza del Gesù, sede della DC, via delle Botteghe Oscure, sede del PCI, il quartiere ebraico, cioè il ghetto, e il ministero di Grazia e Giustizia, nella quale si trova via Caetani dove Moro è stato ritrovato. È sempre rimasto lì intorno. I brigatisti non avrebbero mai corso l’altissimo rischio di superare, con Moro cadavere in macchina, il cordone sanitario di polizia e carabinieri presente giorno e notte in quella zona del centro”. Come si vede, è una fonte qualificata che permette di mettere in relazione l’arresto (“vendita”) di Moretti e la mai identificata prigione che dimostra come le BR abbiano fruito di singolari protezioni e complicità mai accertate. I servizi ne sono informati, arrestano Moretti quando è pronta l’ascesa di Senzani al vertice delle BR in fase di separazione consensuale. È questa loro capacità gestionale che li convince, raggiunto ormai l’obiettivo di tenere il PCI fuori dal governo, di essere in grado di svolgere un ruolo crescente di influenza politica, a fini propri, di Stato nello Stato (che è cosa diversa dal Doppio Stato) […] La situazione delle BR a livello nazionale, in quel periodo, è così descritta da Moretti: “Rimane integra la colonna romana. Ne fanno parte compagni come Luigi Novelli, Remo Pancelli, Marina Petrella e Pietro Vanzi. È sicuramente la colonna più compatta e sarà quella che guiderà il passaggio dalle Brigate Rosse al Partito Comunista Combattente. Poi ci sono Barbara Balzerani, Antonio Savasta e Francesco Lo Bianco che tra la colonna in Veneto e quel che rimane a Milano faranno parte della stessa tendenza. Ma al momento del mio arresto anche la colonna di Napoli, che è guidata da Giovanni Senzani e Vittorio Bolognese, è d’accordo con la linea dall’organizzazione sperimentata con D’Urso. Be’, ci dicemmo con Fenzi parlandoci tra le grate delle celle d’isolamento, forse c’è una speranza che vadano avanti, rimane Barbara, rimane Lo Bianco, rimane Savasta, che era uno dei più convinti, uno che aveva macinato molto della nostra storia”. “Forse c’è speranza” è tutto quello che può dire il leader ormai fuori gioco. Sulla carta, se a Milano di fatto c’è solo l’Alasia, le BR dispongono ancora di un migliaio di irregolari e di un centinaio di regolari […] Ma le forze di sicurezza potrebbero annientarle, come faranno pochi mesi dopo a seguito del sequestro Dozier. Eppure questa forza, ancora consistente, viene lasciata operare per realizzare ben quattro rapimenti in simultanea, mentre le tre volte più forti BR del sequestro Moro avevano dovuto accantonare il velleitario progetto di un secondo sequestro, quello di Leopoldo Pirelli […] Questa la situazione al momento dell’arresto di Moretti, la cui vicenda, prima dei processi, si conclude con un episodio nel carcere speciale di Cuneo che egli definisce “inspiegabile”: “Quella coltellata resta inspiegabile. Si possono fare supposizioni ma non mi piace fare supposizioni, su di me ne ho sentite troppe. Eravamo al passeggio, non ero solo, in senso inverso camminava un camorrista, tale Figueras, che, arrivato alla mia altezza, m’infila d’improvviso un coltello – una lama lavorata a coltello – nell’addome da sotto in su, come si vede nei film, un colpo per ammazzare. Non so come lo schivo, mi ferisce appena di striscio e la lama finisce sull’inferriata che mi sta dietro, storcendosi. È solo per questo che sono ancora vivo, quello continua a colpirmi all’impazzata, sono caduto, cerco di coprirmi con e mani, mi lacera mani e un braccio. Poi, forse convinto che con me ha raggiunto lo scopo, cerca di colpire anche Fenzi, che si trova al lato opposto del cortile. Riesce solo a infilzarlo a un fianco prima che un compagno, Agrippino Costa, reagisca e cerchi di bloccarlo. Ma a questo punto le guardie aprono il cancello e sparisce con loro, senza cercare di buttar il coltello, glielo dà. Non ho capito chi e perché mi volesse ammazzare, chi gli aveva dato quell’ordine. Non la camorra, con quella non c’erano né contatti né scontri. Credo che anche da parte dello Stato non fosse tutto chiaro, a un certo punto pesino alla DIGOS persero per un momento la testa, mi buttarono su una camionetta e correndo verso l’ospedale uno mi tenne per tutto il tragitto la pistola puntata alla fronte… Mi spedirono a Pisa per l’operazione chirurgica. Dopo il primo momento sedarono tutto. L’ordine è venuto da fuori. In quel momento era in atto il sequestro Cirillo e a Napoli gli interessi dei diversi poteri, legali e illegali, si intrecciavano e si sorreggevano a vicenda. Quel tentativo di sbudellarci poteva essere qualcosa di più di un avvertimento: voi tenete Cirillo, noi vi ammazziamo Moretti. “Noi” chi era? Resta il fatto che ci provarono e seriamente. A Pisa mi hanno curato benissimo”. Via_faniPur se sono solo supposizioni, l’episodio è tanto importante che occorre avanzarne. La mia e probabilmente anche quella di Moretti né che fosse, appunto, un avvertimento che si rispettasse il patto del silenzio, prima dei processi, sui misteri del caso Moro, quelli di cui parla anche l’avvocato De Gori, il silenzio sul tiratore scelto di via Fani. Il carcere di Cuneo è quello in cui Dalla Chiesa, con la collaborazione di Pecorelli, che sui misteri molto ha scritto, e del direttore del carcere, avrebbe recuperato alcune “carte di Moro”. Per Cirillo furono condotte trattative proprio tra camorra, BR e servizi, anche nel carcere di Ascoli Piceno, dove era detenuto Cutolo e andrà poi Senzani. I rapporti tra BR e una supposta base proletaria della malavita organizzata erano stati teorizzati ne “L’albero del peccato”. Si dirà poi che il tiratore scelto poteva essere uno di quei “proletari”. Insomma, al “Noi: chi era?” di Moretti si può tentar di rispondere: chi voleva mandare un avvertimento perché i patti, dopo via Gradoli e il lago della Duchessa, fossero rispettati durante i processi, come avvenne. E intanto i servizi lasciavano credere che le BR fossero più forti che mai.

QUEI BRAVI RAGAZZI

CossigaQuanto a Francesco Cossiga, da sempre sospettato di conoscere i segreti della strage di Bologna, è il solito: onnipresente nella politica e disponibile a parlare del 2 agosto 1980 nella sua casa romana. Qui, a suo agio in pantaloni della tuta blu e camicia a maniche corte, aperta sulla più tradizionale delle canottiere, dopo un preludio di chiacchiere e cortesie si dichiara pronto a qualunque domanda. “D’altro canto c’è poco da nascondere. Ricordo come fosse oggi che il 2 agosto mi telefonò il ministro dei Trasporti, il socialista Rino Formica. Mi informava che dieci minuti prima era successo qualcosa di gravissimo a Bologna. Probabilmente, disse, erano scoppiate le bombole del gas…”. Lei invece, a due giorni dalla strage, da presidente del Consiglio dice in Senato che l’attentato alla stazione è di matrice fascista. Come faceva a saperlo? Chi le aveva passato l’informazione? “Nessuno”. Si è sbilanciato così, sull’onda delle sensazioni? O non vuole svelare chi le fornì la dritta? “La verità è che sono cresciuto in una famiglia antifascista, dove il male non poteva che essere fascista…”. Ma lei parlava da presidente del Consiglio, non da privato cittadino. “Nessuno mi disse niente, ripeto. L’ipotesi che mi fecero gli investigatori, comunque, fu che si trattasse di un trasporto di esplosivo palestinese saltato in aria assieme a chi lo trasportava”. Sia più preciso: chi gliel’ha comunicata, questa ipotesi? “Il giudice Angelo Vella in Prefettura”. Fatto sta che lei, il 5 agosto 1980 partecipa a una riunione del Consiglio interministeriale per l’informazione e la sicurezza. E senza giri di parole invita i partecipanti a evitare rapporti diretti con i magistrati. Non è un invito alla trasparenza. “Esortai i servizi a non avere rapporti diretti con la magistratura perché altrimenti nessuno si sarebbe più azzardato a passarci informazioni. Da sempre i servizi esteri hanno posto come condizione di non parlare con i magistrati. Solo per questo chiesi il silenzio…”. Risultato, i magistrati non hanno avuto elementi potenzialmente utili per trovare la verità. “Potevano sempre avvalersi delle fonti di polizia giudiziaria”. Comunque sia, il contenuto di quella riunione si è saputo solo nel 1995, quando il CESIS lo ha trasmesso alla Commissione stragi. “Erano atti segreti. Oggi sappiamo che quel giorno si affacciarono due tesi: la prima era la pista libica, secondo cui i disastri di Ustica e Bologna erano dovuti all’accordo con Malta. La seconda era la pista fascista”. FioravantimambroLei ha cambiato idea. A caldo, dopo la strage, ha dichiarato che l’attentato era opera dei neofascisti; poi, nel 1991, ha chiesto scusa al Movimento Sociale Italiano, sostenendo di essere stato “vittima di una subcultura di allora, secondo cui fascismo era uguale a stragismo”. Chi, o che cosa, l’ha portata a questa svolta? “I terroristi di sinistra. In particolare la visita che mi ha fatto Anna Laura Braghetti, la carceriera di Aldo Moro. “Non vengo a difendere me stessa” mi ha detto. “Sono qui a difendere quei due ragazzi, Mambro e Fioravanti, che soltanto un cretino che non conosce il terrorismo può pensare siano responsabili della strage di Bologna””. Sta dicendo che ha chiesto pubblicamente scusa al MSI perché un ex terrorista, senza prove, le ha detto che a Bologna non erano stati i fascisti? “Credo molto più ai terroristi rossi che ai magistrati. Tra la loro serietà e quella dei magistrati, lo scriva, c’è un abisso”. Sue opinioni, presidente. Che non spostano il problema: ha lanciato pubbliche scuse senza avere le prove in mano. “Scusi: ma lei li conosce i terroristi rossi?”. Il punto, ribadisco, è che un politico dovrebbe sbilanciarsi su simili temi soltanto se ha le prove in mano. “No! Qui parliamo dei terroristi rossi, gente che ha impugnato le armi e si è guastata la vita!”. Questo non aggiunge credibilità; al massimo la toglie. In ogni caso lei dopo la strage di Bologna – e dopo l’insanguinato decennio precedente – ha detto che “il terrorismo nero ricorre essenzialmente al delitto di strage, perché è la strage che provoca panico, allarme, reazioni emotive e impulsive…”. Anche su questo ha cambiato idea? “Le ripeto, vengo da una famiglia antifascista per la quale anche lo tsunami era colpa della destra”. Non è questione di tsunami. Erano anni in cui il neofascista Nico Azzi cercava di far saltare in aria un treno, restava ferito e veniva trovato in possesso di copie di Lotta Continua per depistare le indagini. “Insomma: io quella frase sui fascisti l’ho detta a caldo, senza prove. Era piuttosto un giudizio politico. Altrimenti, avessi avuto le prove che la strage era fascista, non avrei chiesto scusa. E comunque: sa quante volte sono stati assolti, Fioravanti e Mambro?”. Una volta sola, presidente. In cinque gradi di giudizio. “Ma le ha lette, le sentenze? La sentenza di condanna è qualcosa che fa vergogna alla magistratura italiana.” Sicuramente è fragilissima quella che li ha assolti in appello. Tant’è vero che è stata bocciata nei successivi gradi. L’ha letta? “La verità è che a Bologna non si poteva condannare uno di destra: si doveva!”. Non è vero, presidente. Per la strage sono stati assolti anche protagonisti della destra eversiva… “Lei ha davanti a sé una persona che ritiene una cazzata che la magistratura sia indipendente”. Anche avesse ragione, ciò non trasformerebbe un colpevole in innocente. “Le ripeto: non credo alle sentenze della magistratura”. Questo è evidente. Nel 2003 ha definito la magistratura di Bologna “pavida nei confronti della sinistra di allora”. Chiarisca come e perché. “Non mi hanno mai chiamato come testimone”. Perché testimone? Ha appena ribadito che non sapeva niente, che parlava senza prove. “Ma come facevano a saperlo? In verità temevano che i palestinesi avrebbero messo una bomba, se fossi andato là a parlare di missili…”. Le cronache dell’epoca dicono altro. Testimoniano che le indagini sulla strage di Bologna furono la sagra dei depistaggi, delle finte verità. Un clima in cui lei, a un certo punto, ha cominciato a dire che Fioravanti e Mambro erano sicuramente innocenti. Su quali basi? “Dopo aver parlato con la Braghetti mi sono letto tutte le carte”. Sono più di 500 mila pagine, quelle del processo per la strage di Bologna. “Ho letto dei riassunti. E mi sono fatto un’idea, pur rispettando i giudici che hanno condannato Mambro e Fioravanti”. Rispettando i giudici? Non sembra. “Li rispetto, invece. Perché non avrebbero fatto carriera, se non avessero condannato Mambro e Fioravanti. Poveri loro. Non posso chiedere ai magistrati di Bologna di essere eroi, di non condannare uno di destra”. Pensa, a colpi di sarcasmo, di rendere più credibile l’innocenza degli ex NAR? “Ma scusi, perché avrebbero dovuto fare la strage? Hanno anche accusato Fioravanti dell’omicidio di Piersanti Mattarella, salvo poi scoprire che era innocente. Faceva comodo, Fioravanti…”. Con questa convinzione lei ha più volte chiesto la revisione del processo. Ma per riaprire un processo ci vogliono elementi concreti. Li ha? “Ho detto soltanto che auspicavo che si riaprisse il processo di Bologna. Non ho elementi. C’è però la contraddittorietà delle sentenze”. Certo è che Fioravanti e Mambro hanno più volte modificato il loro alibi per il 2 agosto. Come lo spiega? “La intelligente, tra i due, è la Mambro. Non Fioravanti”. Ovvero? Hanno modificato l’alibi per strategia? “Mannò. Lo hanno modificato solo perché sono innocenti e perché non sono esperti nell’arte di simulare le cose”. Nel 1995, però, Fioravanti dichiara su Massimo Sparti fatti che dall’analisi dei magistrati si sono dimostrati non veri. Sa chi è Massimo Sparti? “No”. È il superteste contro Fioravanti e Mambro. Una figura chiave nelle carte che lei dice di avere letto. Comunque: perché Fioravanti avrebbe dovuto infangare chi lo accusava, se fosse stato innocente? “Gliel’ho già detto: una persona intelligente non fa così. Scopre che la moglie del magistrato si concede a troppi, e gli dice: o mi assolvi o lo racconto in giro”. Paolo Bolognesi, presidente dell’Associazione dei familiari delle vittime della strage, ha dichiarato: “Sarebbe ora che Cossiga rendesse pubblico il motivo della grande attenzione che lo porta a sponsorizzare i pluriomicidi Mambro e Fioravanti”. Gli risponda, se vuole. “È la stessa ragione che mi spinge a partecipare a trasmissioni con i brigatisti Adriana Faranda e Prospero Gallinari. Serve a riflettere su un’epoca tragica che ho affrontato in prima persona; una fase in cui i grandi partiti non sono stati in grado di elaborare il malessere. Da qui è nata la sovversione di sinistra e l’eversione di destra”. Lei ha detto che Bolognesi e la sua associazione hanno fatto dell’essere parenti delle vittime “un’indecente professione”. Qual è la loro colpa? “Tutto quello che hanno fatto l’hanno fatto per ricevere denari”. È un giudizio profondamente offensivo: sia per le vittime della strage sia per i loro parenti. “Vogliono i denari, mi creda”. L’Associazione dei familiari stampa ogni anno un manifesto. Su quello del 1995 si legge: “La legge 801 del 1977 stabilisce che il responsabile della sicurezza del Paese è il presidente del Consiglio dei ministri”. Lei il 2 agosto 1980 ricopriva quel ruolo. Non si sente in colpa, per quello che è successo alla stazione? “Assolutamente no. Sento responsabilità solo per Aldo Moro”. Non si sente responsabile nemmeno per chi fu nominato ai vertici dei servizi segreti? Quei Grassini e Santovito in carica il giorno della strage, poi risultati iscritti alla loggia P2 di Gelli? Lei era ministro dell’Interno, quando furono scelti… “Vero. Ed è anche vero che avallai quelle nomine. D’altronde avevano il consenso del comunista Ugo Pecchioli: voleva che non le avallassi io?” Restano i suoi rapporti con il Venerabile Gelli. Nessuno dimentica la quantità di piduisti che c’era nel comitato che avrebbe dovuto salvare Aldo Moro. “Non sapevo neanche cosa fosse, la P2”. Però ha scelto i suoi uomini. “Sì, erano della P2, è vero. Vuole sapere quando ho visto Gelli?”. Certo. “Lo chiamai mentre ero presidente del Consiglio, per chiedergli perché il Corriere della Sera mi attaccasse con tanta violenza”. Tutto qui? “No, ci siamo visti altre volte. È venuto anche a raccomandarmi gente di sinistra. Un personaggio ad alto livello, per esempio. Uno che il PCI ha fatto nominare giudice costituzionale”. Dica chi è, se è vero. “A registratore spento”. Ma perché, a suo avviso, i piduisti si sono tanto spesi nel depistare le indagini sulla strage di Bologna? “Per coprire i palestinesi. I responsabili dei servizi erano piduisti, ma al tempo stesso dovevano tutelare l’accordo con i palestinesi. Dove crede che abbia conosciuto Yasser Arafat? Nell’appartamento di rappresentanza di Santovito”. Di certo c’è che Licio Gelli è stato condannato per il depistaggio sulla strage di Bologna. Come lo spiega? “Lo spiego con la verità: Gelli è stato condannato perché bisognava condannarlo”. Quindi, secondo lei, chi ha voluto la strage di Bologna? Chi sono i mandanti? “Impossibile rispondere. Tutto è stato pasticciato e i mandanti non si trovano più”. Così dicendo, però, si contraddice ancora. Prima ha sostenuto che non ci sono i mandanti, che la stazione è crollata per l’esplosione accidentale di esplosivo in transito; ora dice che tutto è stato occultato. Qualcosa non quadra… “Non quadra il ruolo dei magistrati; non quadra il fatto che non potevano mettersi contro l’opinione pubblica ed assolvere i neofascisti… Alla fine oltre a Ciavardini hanno punito Fioravanti e Mambro: persone normali, bravi ragazzi che mi vogliono bene”.

Cronologia essenziale:

2 agosto 1980: una bomba preparata con tritolo e T4 esplode nella sala d’aspetto di seconda classe della stazione di Bologna. Il bilancio finale dell’attentato è di 85 morti e 218 feriti.

6 agosto 1980: si svolgono i funerali nella Basilica di San Petronio. Soltanto i famigliari di otto vittime accettano la cerimonia di Stato.

9 settembre 1980: Valerio e Cristiano Fioravanti, con Francesca Mambro, Stefano Soderini e Giorgio Vale uccidono Francesco Mangiameli, leader siciliano di Terza Posizione.

13 gennaio 1981: le forze dell’ordine trovano sul treno Milano-Taranto, in sosta alla stazione di Bologna, varie armi ed esplosivi. Un passaggio chiave nel depistaggio “Terrore sui treni”.

5 febbraio 1981: Valerio Fioravanti viene arrestato dopo un conflitto a fuoco con i carabinieri nei pressi del canale Scaricatore, alle porte di Padova.

17 marzo 1981: viene scoperta, nel corso di un’inchiesta guidata da Gherardo Colombo e Giuliano Turone, una lista di 962 iscritti alla loggia massonica Propaganda 2 con a capo il Venerabile Licio Gelli.

11 aprile 1981: il delinquente comune Massimo Sparti racconta le confidenze fattegli il 4 agosto 1980 a Roma da Valerio Fioravanti riguardo alla strage di Bologna e alle sue responsabilità.

5 marzo 1982: Francesca Mambro viene arrestata dopo essere rimasta ferita durante una rapina. Alessandro Caravilani, uno studente che passa di lì per caso, viene ucciso per errore durante la sparatoria.

19 gennaio 1987: si apre il processo di primo grado davanti alla Corte di Assise di Bologna per la strage della stazione. La sentenza viene emessa l’11 luglio 1988. Francesca Mambro, Valerio Fioravanti, Massimiliano Fachini e Sergio Picciafuoco vengono condannati all’ergastolo. Licio Gelli, Francesco Pazienza, Giuseppe Belmonte e Pietro Musumeci vengono condannati a 10 anni per depistaggio. Per banda armata vengono condannati Valerio Fioravanti (15 anni), Francesca Mambro (12), Sergio Picciafuoco (12), Massimiliano Fachini (12), Paolo Signorelli (12), Roberto Rinani (6), Egidio Giuliani (13), Gilberto Cavallini (16).

25 ottobre 1989: inizia il processo di secondo grado davanti alla Corte d’Assise di Appello di Bologna. La sentenza viene emessa il 18 luglio 1990: tutti i neofascisti imputati per la strage della stazione vengono assolti. Per depistaggio sono condannati Giuseppe Belmonte e Pietro Musumeci. Per banda armata vengono condannati Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Egidio Giuliani e Gilberto Cavallini.

12 febbraio 1992: le Sezioni unite penali della Corte di Cassazione emettono la sentenza di terzo grado dopo il ricorso proposto dalle parti civili e dalla Procura generale. Viene disposto un nuovo processo per Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Massimiliano Fachini e Sergio Picciafuoco per strage e banda armata. Per Licio Gelli e Francesco Pazienza ci sarà un nuovo giudizio per calunnia aggravata, e per i vertici del SISMI viene chiesta una nuova valutazione dell’aspetto eversivo della loro azione depistatoria.

11 ottobre 1993: inizia il nuovo processo di secondo grado. La sentenza viene emessa il 16 maggio 1994 dalla prima Corte di Assise di Appello di Bologna. Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Sergio Picciafuoco vengono condannati all’ergastolo. Per depistaggio vengono condannati Licio Gelli, Francesco Pazienza, Giuseppe Belmonte e Pietro Musumeci. Per banda armata vengono condannati Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Sergio Picciafuoco, Gilberto Cavallini e Egidio Giuliani.

23 novembre 1995: arriva la sentenza di quinto grado, emessa dalla Corte Suprema di Cassazione – Sezioni unite penali. Valerio Fioravanti e Francesca Mambro sono condannati all’ergastolo. Per depistaggio vengono condannati Licio Gelli (10 anni), Francesco Pazienza (10), Giuseppe Belmonte (7 anni e 11 mesi) e Pietro Musumeci (8 anni e 5 mesi). Per banda armata vengono condannati Valerio Fioravanti (16 anni), Francesca Mambro (15), Gilberto Cavallini (12), Egidio Giuliani (8). Il caso di Sergio Picciafuoco viene spostato a Firenze per essere al centro di un nuovo processo.

18 luglio 1996: la Corte di Appello di Firenze assolve Sergio Picciafuoco.

15 aprile 1997: la Corte suprema di Cassazione solleva definitivamente Sergio Picciafuoco da tutte le accuse.

30 gennaio 2000: Luigi Ciavardini, diciassettenne all’epoca della strage, viene assolto dal Tribunale dei minorenni di Bologna per la strage di Bologna e condannato a 3 anni e 6 mesi per banda armata.

9 marzo 2002: Luigi Ciavardini viene condannato a 30 anni per la strage dalla Corte di Appello di Bologna (sezione per i minorenni), che conferma la condanna per banda armata.

17 dicembre 203: la Corte suprema di Cassazione annulla la condanna per strage a Luigi Ciavardini.

13 dicembre 2004: la Corte di Appello di Bologna conferma la condanna a Luigi Ciavardini.

11 aprile 2007: la seconda sezione penale della Cassazione condanna definitivamente Luigi Ciavardini per la strage di Bologna.

Cerchi concentrici e convergenze parallele

OrientaleGamberini[1], su suggerimento di Ascarelli[2], decise di utilizzare al massimo le qualità organizzative di Licio Gelli in un anno, il 1966, nel quale il sistema politico italiano appariva del tutto stabile […] La tensione a livello internazionale – caratterizzata, nel 1966, solo dalla guerra in Vietnam e dalla Rivoluzione culturale in Cina – si accentua già a partire dal 1967, mentre il nostro sistema politico sarà a partire dal 1968. Nell’aprile 1967 i colonnelli greci attuano un colpo di stato per impedire un successo elettorale non dei comunisti, ma del “partito di centro” di Georgios Papandreu, protagonista, insieme agli inglesi, della repressione contro i comunisti nel 1944, ma in seguito spostatosi su posizioni relativamente progressiste. In giugno Israele reagisce alla mossa egiziana che blocca il Mar Rosso con una guerra lampo (detta dei Sei Giorni) contro Egitto, Siria e Giordania, conquistando tutta Gerusalemme e attestandosi sul canale di Suez. Gli Stati arabi provocano una crisi nei rifornimenti di petrolio contro l’Occidente, che sostiene Israele. Alla fine dell’anno l’uccisione di Che Guevara in Bolivia attenua le preoccupazioni degli Stati Uniti per la guerriglia in America Latina; ma all’inizio del ’68 la guerra in Vietnam subisce una svolta negativa per gli USA con l’offensiva del TET che determina, per qualche tempo, il controllo di Hué da parte dei nordvietnamiti e l’attacco dell’ambasciata americana a Saigon. In primavera esplode il maggio parigino, l’anno dopo De Gaulle è sconfitto in un referendum. I primi anni ’70 sono sotto il segno di eventi destabilizzanti: un fronte popolare è vittorioso in Cile (presidente Allende) sino al colpo di stato del settembre 1973, contemporaneo alla quarta guerra arabo-israeliana. Nel marzo 1976 avviene il colpo di stato dei militari argentini (tra i quali Gelli ha molti amici). Cuba rimane una spina nel fianco per gli Stati Uniti sino al 1979, con la presenza di una brigata russa. Mentre a Washington ci si preoccupa per il “dopo Tito” e per il “dopo Franco”, nel 1974 i militari portoghesi rovesciano la dittatura post-salazariana, suscitando preoccupazioni per la collocazione internazionale del Portogallo. L’area mediterraneo-mediorientale è in ebollizione, mentre russi e cubani sostengono movimenti di liberazione in Africa, dove Angola, Mozambico, Etiopia paiono spostarsi verso l’area di influenza sovietica e potrebbe vacillare il bastione sudafricano. È in tale contesto che, in Italia, dall’autunno studentesco del ’68 e poi soprattutto dall’”autunno caldo” sindacale del 1969, si verifica uno spostamento a sinistra in termini di comportamenti collettivi: dalle scuole, alle fabbriche, alle piazze. Di questo e della situazione italiana si preoccupano gli Stati Uniti (Dipartimento di Stato, CIA, vertici militari e i vari servizi italiani a essi collegati). Si elaborano progetti diversi, dalla direttiva Westmoreland al piano “Demagnatize”: iniziative non coordinate, talvolta in concorrenza o in competizione, talaltra ignorate dai vari soggetti coinvolti. Ciò accade proprio per il piano “Demagnatize”, del quale il generale Inzerilli[3] dice: “Non si tratta assolutamente di una Gladio bis, come pensa qualcuno e scrivono i giornali, ma di un’organizzazione completamente diversa, che avrebbe dovuto essere collegata a un altro reparto, l’ufficio D dei servizi. Come capo di Stato Maggiore avevo cercato dappertutto il piano, che prevedeva l’utilizzo di ogni azione possibile per evitare in Francia, ma soprattutto in Italia, l’avvento al potere del Partito comunista. Non lo trovai mai, perché questo piano, per volontà degli americani che lo prepararono, non doveva essere visionato da estranei, tantomeno dai governi alleati coinvolti. A fil di logica è possibile che uno dei risvolti del piano sia stato svelato dal giudice Salvini”. In realtà, invece di un piano organico funzionò uno stillicidio di iniziative, che portò a stragi come quella di Piazza Fontana, che alla Commissione stragi, il 6 giugno 1995, il più stretto collaboratore di Moro, Corrado Guerzoni, collocò in un’interpretazione che definì “dei cerchi concentrici”. Dice Guerzoni: “Per cerchi concentrici ognuno sa che cosa deve fare. Non è l’onorevole X che dice ai servizi segreti di andare l’indomani mattina a Piazza Fontana a mettere la bomba. Al livello più alto si dice che il paese va alla deriva, che i comunisti finiranno per avere il potere. Al cerchio successivo si dice: guarda che sono preoccupati. Che cosa possiamo fare? Dobbiamo influire sulla stampa. Così si va avanti sino all’ultimo livello, quello che dice: ho capito, e succede quello che deve succedere. Ognuno non ha mai la responsabilità diretta. Se lei [rivolto al segretario della Commissione, l’onorevole Baresi di Forza Italia] va a dire a questo ipotetico onorevole che lui la causa di Piazza Fontana, le risponderà di no. In realtà, è avvenuto questo processo per cerchi concentrici”. Quello che va ricostruito è il contesto politico di questo insieme di progetti e di iniziative. L’obiettivo non è il colpo di stato, ma la stabilizzazione imperniata sulla DC. Il modello non è Santiago 1973 (il golpe del generale Pinochet in Cile) ma Parigi 1968 (la riscossa elettorale gollista dopo il “maggio francese”): non la repressione militare, quindi, ma un plebiscito stabilizzatore. È per questo progetto che lavora Gelli, con l’avallo esplicito o implicito dei vertici massonici. Una soluzione reazionaria, ma non eversiva. Ma la DC, logorata e divisa, non riesce a imboccare risolutamente questa strada per tutto il decennio dal 1968 al 1978. da qui il prolungarsi di una crisi che accresce il potere di Gelli. Questi, infatti, dopo la citata investitura del 1966 rafforza la P2 in due direzioni: verso l’affarismo speculativo, che il prolungarsi dell’incertezza politica favorisce e del quale “inizia” i rappresentanti; e verso gli ambienti militari, che la medesima incertezza politica e i progetti e le iniziative per porvi fine nel senso indicato trasformano in possibili protagonisti con alti ufficiali a loro volta “iniziati”. La cronologia chiarisce il contesto: fine 1969, la strage di Piazza Fontana; nella primavera, le prime elezioni regionali per sfruttare la preoccupazione dell’opinione pubblica moderata, alla quale la DC propone il progetto “centrista” del “preambolo Forlani” (segretario del partito), che dovrebbe imporre al PSI di rompere le intese locali con il PCI per rimanere in un centrosinistra di fatto “centrista”. Il PSI rifiuta, il preambolo rimane lettera morta; e allora a fine anno si ha un colpo d’avvertimento, il cosiddetto “golpe Borghese”, l’operazione “Tora Tora”. La definizione di “colpo d’avvertimento” alla DC implica che l’occupazione dell’armeria e del garage del Ministero degli Interni nella notte tra il 7 e l’8 dicembre 1970 e la mobilitazione di pochi reparti militari e di gruppi armati di destra non furono e non potevano essere l’avvio di un colpo di stato, che nessuna persona di buon senso poteva pensare guidato da un reduce di Salò, che ne avrebbe dato la notizia in Tv […] È impensabile, nell’Italia del 1970, un colpo di stato guidato dal comandante della X MAS. È invece pensabile un colpo d’avvertimento alla DC, nell’ambito di una strategia volta a farne il perno di una stabilizzazione che evitasse (come avvenne) che il PCI potesse partecipare al governo […] Gelli è certamente un protagonista, ma non perché il 7 dicembre avrebbe dovuto catturare Saragat entrando con un commando al Quirinale, bensì perché tesse la trama, inganna i congiurati e alla fine blocca tutto (il suo ruolo rimarrà a lungo ignorato, perché il generale Maletti, su ordine di Andreotti, lo omette nelle informazioni trasmesse alla magistratura). Uno dei testimoni chiave davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta, Paolo Aleardi, militante di destra e collaboratore di Alfredo De Felice (uno dei capi della congiura, attraverso il quale aveva conosciuto Gelli) dichiara: “A un certo punto ci fu una sorta di contrordine che De Felice attribuiva a Gelli e sul quale si fecero anche delle considerazioni, nel senso che a quel punto si riteneva che il golpe fosse stato usato da Gelli come arma di ricatto”. Secondo altri congiurati, “Gelli il golpe non lo riteneva indispensabile, mentre forse poteva usare il fantasma di una svolta autoritaria per ottenere maggior prestigio, maggior credito” […] I fatti furono effettivamente gravissimi. Insurrezione armata vi fu. I comandi NATO ne erano a conoscenza. Non fu un complotto di pensionati. Ma non fu neanche un progetto di colpo di stato. Se i vertici militari vi avessero pensato, l’avrebbero gestito in proprio, non ne avrebbero affidato l’esecuzione a un ex ufficiale di Salò, il meno adatto di tutti a dire alla Tv, come pensava: “Lo Stato avrà una sola bandiera: il nostro glorioso tricolore”, e: “La formula politica che per un venticinquennio ci ha governato e ha portato l’Italia sull’orlo dello sfacelo politico e morale ha cessato di esistere”. Questo linguaggio del vecchio fascismo aveva il consenso di un italiano su venti, mentre quasi la metà dei cittadini votava a sinistra. In realtà, Borghese e i suoi vennero illusi dalla regia di Gelli, che bloccò l’iniziativa quando più gli parve opportuno, pensando che la DC avrebbe capito il “colpo d’avvertimento”, raccogliendosi attorno ad Andreotti (che protesse Gelli) o a Fanfani, per una svolta in senso conservatore e anticomunista. La DC non è in grado di seguire questa strada. A marzo, mentre Paese Sera dà notizia del cosiddetto “golpe Borghese”, il ministro dell’Interno Restivo spiega alla Camera quanto è successo, ma in questa primavera del 1971 al quadro si aggiungono due fattori: l’inizio della lotta armata di sinistra e lo spostamento a destra di parte dell’elettorato democristiano. Il 25 gennaio le BR incendiano gli autocarri della Pirelli sulla pista di Lainate. Il 26 marzo il gruppo XXII Ottobre uccide a Genova un portavalori durante una rapina. Il 7 giugno il MSI ottiene un grande successo nelle elezioni locali a Roma e in Sicilia, togliendo voti alla DC: è la reazione dei settori moderati al perdurante clima di agitazione nelle fabbriche, nelle scuole, nelle piazze. Andreotti parla di “voti in libera uscita” che la DC deve recuperare, lo slogan “Legge e ordine”, che aveva portato Nixon alla vittoria negli Stati Uniti (novembre 1968), diviene quello della “maggioranza silenziosa” e di parte della stessa DC, che coglie l’occasione dell’elezione del Presidente della Repubblica per tentare una svolta moderata. Fanfani sarebbe l’uomo indicato, è il candidato ufficiale del partito; il presidente uscente, Saragat, lo definisce “candidato del centrodestra”, ma settori democristiani temono lo stile autoritario che introdurrebbe al Quirinale. Alcuni franchi tiratori lo bloccano, e alla fine di estenuanti sedute dei grandi elettori emergono le contrapposte candidature di Moro e di Leone. Quest’ultimo alla fine si afferma grazie ai voti decisivi del MSI, “entrato discriminato e uscito determinante”, come ebbe a dire, deplorando il fatto, Carlo Donat-Cattin. L’elezione di Leone (al quale Gelli presenterà ufficialmente nel 1975 il suo “Schema R”, che, variamente rielaborato, diverrà il suggestivo piano di “rinascita democratica”), avvenuta con i voti missini, pone fine all’impostazione detta dell’arco costituzionale (intesa tra tutti i partiti con esclusione del MSI); e pone fine anche alla coalizione di centrosinistra. Il PSI esce dalla maggioranza, la DC accenna a una svolta a destra e adotta per le elezioni anticipate (le prime della storia repubblicana, dopo che Leone, appena eletto, ha sciolto le camere, indice di una situazione in movimento) lo slogan di Fanfani “Avanti al centro”. Caratterizzata dalla morte di Feltrinelli e dallo smantellamento delle basi dei suoi GAP (Gruppi di Azione Partigiana) e delle BR, la campagna elettorale si conclude effettivamente con un successo del “centro” (DC, PLI, PRI, PSDI), che per l’ultima volta nella storia della Prima Repubblica conquista la maggioranza dei consensi (52%) con il MSI al massimo storico. La formazione di un governo Andreotti-Malagodi (il leader liberale vicepresidente del Consiglio e ministro del Tesoro) dovrebbe consolidare la svolta moderata, ma ancora una volta le oscillazioni e i contrasti interni alla DC non permettono che la situazione si stabilizzi. Mentre la speculazione si abbatte sulla lira (che esce dallo SME, il “serpente” monetario europeo) e cresce l’inflazione, il partito di maggioranza relativa si preoccupa per il fatto di avere all’opposizione tutta la sinistra, in un clima di perduranti agitazioni e di quello che viene definito “pansindacalismo”. Andreotti e Fanfani sono sempre in competizione per la leadership del partito (Moro è ora emarginato). Mentre il primo è spostato sulla destra, il secondo escogita un piano che gli pare brillante: ricostruire il centrosinistra con il PSI, per non ricompattare all’opposizione tutta la sinistra e per cercare una “concertazione” con i sindacati, ma nel contempo preparare uno scontro frontale (il modello francese del plebiscito) per sconfiggere tutta la sinistra, socialisti compresi. È il progetto che si tradurrà nella campagna antidivorzista del 1974, ma che intanto comporta un recupero del PSI, che Fanfani gestisce tornando alla segreteria del partito (mentre si forma il quarto governo Rumor). LicioÈ in questo contesto che si colloca il ruolo della Massoneria, di fatto gestita da Gelli, come risulta dal seguente episodio: “Nella cruciale primavera del 1973 Licio Gelli convoca nella sua residenza privata di Villa Wanda, ad Arezzo, un gruppo di importanti affiliati alla Loggia segreta: il generale Giovanbattista Palumbo (comandante della divisione carabinieri di Milano), il colonnello dei carabinieri Antonio Calabrese, il generale Franco Picchiotti (comandante della divisione carabinieri di Roma), il generale Luigi Bittoni (comandante della brigata carabinieri di Firenze), il colonnello dei carabinieri Pietro Musumeci e il procuratore generale presso la Corte d’Appello di Roma, Carmelo Spagnuolo. Secondo il generale Palumbo, durante la riunione Gelli disse che ‘la situazione era molto incerta, che la Massoneria era contraria a qualsiasi dittatura, quindi dovevamo appoggiare il governo di centro con i mezzi che avevamo a disposizione’. Nel corso dell’incontro il procuratore Spagnuolo arriva a candidarsi alla guida di un governo forte d’emergenza[4]”. Il fatto che un privato cittadino potesse convocare alti ufficiali dell’Arma viene ritenuta una prova della potenza della P2 […] I noti rapporti tra Gelli e Andreotti rendono attendibile il suo proposito di far sostenere il governo di centro in una “situazione molto incerta” […] La posizione di Spagnuolo riflette la nota megalomania del personaggio, che non si vede da chi potesse essere candidato alla guida di un governo forte […] Qualche dato: la lotta armata di sinistra è disarticolata nella primavera del ’72. alla vigilia della festa della Repubblica avviene la strage di Peteano, che non si cerca di attribuire alla sinistra, ma se mai alla destra, già in settembre, e mentre Andreotti, al governo, intende recuperare i voti “in libera uscita” anche presentando il MSI come protettore di terroristi e preparando delle scissioni (come avverrà con Democrazia Nazionale). Dal 1973 il quadro cambia, le BR possono riprendere fiato, con epicentro a Torino, dove a dicembre sequestrano il capo del personale FIAT Auto, cavalier Amerio, inserendosi con successo in una vertenza sindacale in atto: è la premessa di un rilancio che si manifesterà clamorosamente l’anno dopo con il sequestro Sossi. Il rilancio e il sequestro sono in perfetta sintonia con la campagna referendaria di Fanfani, che spera di trasformare il 12 maggio in un plebiscito antidivorzista per sconfiggere tutta la sinistra. I servizi favoriscono questo disegno agevolando quella che le BR definiscono “operazione Girasole”. Al momento appare perfetta, ma risulterà poi alquanto improvvisata nelle narrazioni di Alberto Franceschini, che guida il commando che gestisce il sequestro. La villetta di Tortona dove è recluso Sossi è tenuta sotto osservazione; un alto ufficiale del SID dirà poi che il suo capo, generale Miceli, progettava di rapire l’avvocato Giambattista Lazagna – medaglia d’argento della resistenza e dirigente dell’ANPI – e ucciderlo durante un’irruzione nella villetta, in un finto conflitto a fuoco, per dimostrare i legami tra sinistra legale e terrorismo rosso. Era un progetto arrischiato, non se ne fece nulla; parve sufficiente, per aiutare Fanfani, presentare all’opinione pubblica moderata le BR come fortissime e minacciose, tali da poter essere combattute solo da un governo forte, che il leader della DC avrebbe potuto costituire dopo la vittoria referendaria: c’era ancora in Parlamento una maggioranza centrista (quella del 1972), che avrebbe anche potuto aprire la strada a elezioni anticipate, secondo il modello francese del 1968. Ma Fanfani fu nettamente sconfitto, i servizi erano disorientati quanto la DC e a questo punto, in una situazione che permaneva destabilizzata, si inserì un nuovo elemento: il 28 maggio il Corriere della Sera pubblicò un’intervista a Sossi, liberato senza condizioni (le BR si erano accontentate del successo propagandistico) che descriveva l’organizzazione armata come superefficiente e informatissima; ma lo stesso giorno una bomba scoppiò a Brescia, provocando sei morti e decine di feriti, durante una manifestazione antifascista. I responsabili di questa strage, come di quella successiva, all’inizio di agosto, su un treno alla stazione di S. Benedetto Val di Sambro, non sono mai stati individuati. Credo che entrambe possano essere ragionevolmente attribuite alla mafia, per il ruolo da essa svolto nelle vicende italiane […] Si tratta, ancora una volta, di destabilizzare al fine di stabilizzare, non già con colpi di stato, ma per ottenere dalla DC una svolta a destra. Ma poiché non vi è un unico progetto e ci si trova di fronte a iniziative diverse, i vari soggetti agiscono secondo una propria logica. Così, mentre i servizi avevano agevolato il partito armato, la mafia imbocca la via dello stragismo, che verrà attribuito al terrorismo nero, in un’ottica di minaccia degli “opposti estremismi” contro i quali invocare – si è detto – “legge e ordine”, anche se il Nixon del successo di sei anni prima sta ora per ritirarsi sotto il peso dello scandalo Watergate. Ma questa situazione non sposta l’opinione pubblica verso destra, bensì verso sinistra, anche per l’evidenza di altri fattori, come la corruzione che si va diffondendo e che offusca l’immagine soprattutto dei partiti di governo (la primavera del 1974 è anche quella dei “pretori d’assalto” che fanno luce sul primo scandalo dei petroli). Così, quando Fanfani tenta la rivincita con le elezioni regionali del 1975, che imposta sulla necessità del ritorno all’ordine, il PCI ottiene un grande successo, presentandosi come il “partito dalle mani pulite”. Il segretario della DC viene sostituito da Zaccagnini, in un partito sempre più disorientato e nel quale riemerge la figura di Moro, alla guida di un governo bicolori col PRI ma sempre nell’ambito del centrosinistra, le cui controversie sul problema dell’aborto conducono al altre elezioni anticipate nel 1976. Queste fanno venir meno proprio quella possibile maggioranza di centro che era stata l’obiettivo delle operazioni eversive del precedente biennio. È in questo quadro politico generale che occorre collocare la posizione della Massoneria in un contesto nel quale, sotto il profilo delle trame, l’accento si sposta dal supposto stragismo di destra al partito armato della sinistra, in un succedersi di mosse e contromosse circa le quali occorre tener presenti alcune date: l’arresto di Curcio e Franceschini (settembre 1974), la morte di Margherita “Mara” Cagol alla vigilia delle elezioni del 1975 e il primo omicidio programmato, quello del procuratore Coco a Genova, alla vigilia di quelle del 1976. È in questa fase che si può individuare un disegno comune dei servizi, sempre al fine di evitare una presenza del PCI al governo, tanto più ipotizzabile dopo le elezioni del 1976: quello di lasciar operare il partito armato per determinare una situazione di emergenza che finalmente possa indurre la DC a bloccare la spinta a sinistra. I vertici della Massoneria condividevano questo disegno. Il fatto che al vertice dei riorganizzati servizi (SISMI e SISDE) vi fossero appartenenti alla P2 ha potuto far pensare che non solo il progetto fosse condiviso, ma che addirittura fosse gestito dalla Massoneria in quanto tale […] Va ancora una volta sottolineata la situazione di stallo nel sistema politico dopo le elezioni del 1976 (il governo Andreotti della “non sfiducia”), al quale corrisponde una recrudescenza di comportamenti collettivi ribelli, il movimento del 1977 […] Sono tutti fattori da tenere presenti – dal funzionamento del sistema politico ai comportamenti collettivi – per non ridurre la storia italiana di questi decenni a un succedersi di trame eversive, a una sorta di colpo di stato permanente, magari progettato sin dal celebre convegno della cultura di destra all’hotel Parco dei Principi (3 maggio 1965). Tra il giugno 1976 (elezioni e governo Andreotti) e il marzo 1978 (sequestro Moro) diversi fattori influenzano, quindi, una situazione nella quale il filo della presente narrazione è costituito dalla tolleranza dei servizi verso le iniziative del partito armato, utili a presentare condizioni di instabilità da fronteggiare con un governo d’emergenza imperniato su una DC in grado di rifiutare ogni collaborazione con il PCI (disegno che si realizzerà con il congresso DC del febbraio 1980). In questo contesto la posizione della Massoneria è così presentata dal suo più autorevole studioso[5]: “Renzo de Felice nel 1978 scrisse che ‘la Massoneria aveva in gran parte perduto il peso politico esercitato in passato, giacché il controllo del potere era passato ai partiti’. Nello stesso tempo il Gran Maestro del Grande Oriente, Lino Salvini, propalava tuttavia che l’Ordine aveva all’obbedienza da cento a centocinquanta parlamentari e lasciò immaginare che essi erano solo la punta del gigantesco iceberg liberomuratorio: coagulo di Fratelli sempre più numerosi e potenti. In rotta verso quale meta? Sospinti da correnti esogene o secondo un proprio piano di viaggio? E con quali obiettivi? Erano ormai in molti a domandarselo in Italia, anche perché allarmati dal poco che filtrava da inchieste in corso a proposito di vicende dai risvolti assai oscuri in margine alle quali, sia pure in modo confuso, era balzata fuori la sigla della Massoneria, senza alcun distinguo tra diverse Obbedienze né tra Supremi Consigli che si contendevano la sovranità sulla giurisdizione italiana e gareggiavano per ottenere riconoscimenti esteri, soprattutto da parte delle due Giurisdizioni degli Stati Uniti […]. I Corpi scozzesisti avevano un ruolo di primo piano per assicurare i riconoscimenti d’amicizia da parte delle Comunioni massoniche d’oltre Atlantico, di cui il Grande Oriente d’Italia aveva sommamente bisogno in una stagione che vedeva molti Fratelli di spicco – o ritenuti tali – inquisiti con le accuse più disparate. Tra l’altro veniva dato rilievo al fatto che il Procuratore Generale della Repubblica, Carmelo Spagnuolo, l’ambasciatore Edgardo Sogno, l’ex segretario del PSDI, Flavio Orlandi e altri illustri Fratelli, avevano rilasciato attestazioni a favore di Michele Sindona, arrestato negli Stati Uniti e la cui estradizione in Italia veniva caldamente sconsigliata, giacché – dicevano profeticamente i suoi mallevadori – il bancarottiere vi avrebbe corso pericolo di vita […]. Sogno si convinse che attraverso Sindona si intendeva colpire quanti si prodigavano senza riserve in una lotta frontale per impedire l’ingresso del PCI nel governo. Altro firmatario pro-Sindona fu Licio Gelli. Il 15 aprile 1977, da Lino Salvini, Gelli aveva avuto la delega ai “rapporti con i Fratelli inaffiliati, ossia con i Fratelli che non risultino iscritti ai ruoli né delle Logge, come membri attivi, né del Grande Oriente, come membri affiliati”. Il Gran Maestro precisò anzi: “Per effetto di tale delega, risponderai soltanto a me per quanto farai a tale scopo, promuovendo e sollecitando quelle realtà che Tu stesso reputerai di interesse e di utilità per la Massoneria”. Ben inteso, la P2 figurava nella lista delle Logge regolari distribuite all’interno del circuito delle Comunioni riconosciute dalla Gran Loggia Unita d’Inghilterra. Gli iniziati giuravano “di non professare principi che osteggino quelli propugnati dalla Libera Muratoria”, ricevevano una tessera firmata dal Maestro Venerabile e dal Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia ed erano preventivamente dispensati dagli obblighi previsti per gli affiliati alle Logge ordinarie (frequenza dei lavori)”. Tra questi dispensati vi erano i maggiori responsabili degli appena riorganizzati servizi di sicurezza. E questa era la posizione dei vertici della Massoneria alla vigilia del sequestro Moro. La situazione politica era caratterizzata dal massimo di avvicinamento del PCI al governo, oggetto di preoccupazione al vertice dei servizi. Informati che le BR progettavano una grande operazione in concomitanza col processo ai capi storici in corso a Torino, i servizi la lasciarono compiere, sempre con l’obiettivo di dare la sensazione di una destabilizzazione da bloccare.


[1] Giordano Gamberini Gran Maestro di Palazzo Giustiniani, si definisce filosofo spiritualista. È un pastore. Qualche pubblicazione gli attribuisce particolari rapporti con la CIA, ma non ho trovato conferme di questa valutazione. Il suo obiettivo principale è quello di ottenere l’ambito riconoscimento della Massoneria inglese, atteso per 110 anni e infine conseguito nel 1972.

[2] Roberto Ascarelli, Gran Maestro aggiunto di Palazzo Giustiniani, condivise la scelta di Gelli per “qualificare” la Massoneria italiana, onde accrescerne il prestigio.

[3] Paolo Inzerilli, generale, già ufficiale degli alpini, dal 1974 è stato trasferito ai servizi come direttore, sino al 1980, della sezione che gestiva l’organizzazione Gladio. Dal 1980 al 1986 è stato direttore della VII divisione del SISMI e, come tale, supervisore dell’organizzazione Gladio. Dall’ottobre 1989 al novembre 1991 è stato capo di Stato Maggiore del SISMI.

[4] La fonte è la relazione della Commissione parlamentare sulla P2, p. 17.

[5] Alfonso A. Mola, Storia della Massoneria italiana dall’Unità alla Repubblica, Bompiani, Milano 2001, pp. 760-763.

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IL PERNO

GgfeltrinelliAncora nel gennaio 1972 i dispacci di CIA e FBI (disponibili con un Freedom of Information Act) puntano l’indice su Feltrinelli, “principale agente castrista in Europa”. Ma sarebbe meglio dire che si muove da solo o in nome delle avanguardie su cui pensa di contare. Ci sono rapporti diretti con Venezuela, Bolivia, Uruguay e ai cubani le avventure nel vecchio continente interessano poco. “Hanno fatto come con in Che, l’hanno scaricato”, è la tesi un po’ forte di Giuseppe Saba, ex “luogotenente” di un uomo chiamato Osvaldo, oggi pizzaiolo in un paese del nuorese. All’inizio del 1972 Feltrinelli confida a chi lo incontra di essere costretto ad aumentare la vigilanza, a non usare più la macchina e l’aereo ma solo il treno, e in seconda classe. Dai suoi spostamenti si intuisce che sta prevalentemente tra Oberhof, la Svizzera e Milano. A Milano non si fa mai vedere […] L’unico nostro contatto è in Engadina, poco dopo il mio decimo compleanno. Ha preso camera in un alberghetto secondario. Non ho un ricordo preciso ma mi sembra che tossisse così forte da far allontanare i turisti dal tavolo. Psicosi tubercolosi. Sta male in queste settimane, lo ricordano in molti (“era smagrito, fumava troppo”) […] Due gappisti non casuali, mai identificati, per dare l’idea: Günter e Gallo, stesso quartiere. Gallo ci ha abitato fino a pochi anni fa. Günter no. È morto nel 1977. Il soprannome glielo aveva dato Giangiacomo, c’entra con Günter Grass per un’assonanza con i cognome. Classe 1927, conta il fatto che a diciassette anni vede cadere in Val d’Ossola Filippo Beltrami che copre la ritirata della sua formazione partigiana. Muoiono in dodici, cade anche uno dei fratelli Pajetta. Beltrami, ferito alle gambe e attaccato alla mitraglia, prima del colpo finale si volta verso di lui per dirgli di scappare. Del seguito, la biografia di Günter non dice molto se non che le cose gli vanno male. Il ragazzo spende troppo presto quello che guadagna. Alla fine dei Sessanta è in giro nei bar di quartiere, gomito a gomito con i tipi della malavita (René Vallanzasca) e i gruppuscoli della sinistra radicale. Ufficialmente fa piccoli lavori da idraulico ed elettricista e anche il venditore ambulante. Quando entra nel giro dei GAP, si offre come tuttofare di fiducia del capo […]Günter, oltre che con relè e rubinetteria, si arrangia con i congegni per gli esplosivi. Gallo è più giovane di Günter. È nato dopo la Resistenza, nel 1972 ha venticinque anni. Avviato a una vita da impiegato, ancora oggi lavora in ufficio, non diresti mai che ha girato il mondo, eppure lo ha fatto. Il primo viaggio è del 1971, in nave verso il Sudamerica […] Argentina, poi Cile e Bolivia. A Santiago riesce a stringere la mano a Salvador Allende, durante l’inaugurazione dell’anno accademico. Vive con una famiglia di contadini nella zona di Cochabamba. Nessun abbocco con gente del MIR o dell’ELN. Torna in Italia dopo sei mesi , nell’ottobre ’71 […] Si accorge di facce nuove al bar: un sardo e un altro che parla in genovese. Sono i due che una era, nel novembre del ’71, lo portano da Osvaldo. Osvaldo è un tipo spontaneo, veste roba semplice. Solo dopo qualche settimana Gallo capisce che Osvaldo non è semplicemente Osvaldo, ha un moto di sorpresa: “Perché ti esponi così?”. “Voglio essere il primo tra i primi ma anche l’ultimo degli ultimi”. Un’altra volta se ne esce con un “faccio tutto questo per mio figlio”. L’enormità della frase mi fa ancora piacere. A Gallo invece non piacque, la lotta rivoluzionaria non contempla affetti privati. Intorno al 24 febbraio Giangiacomo è a Oberhof. A polmoni sta meglio, per alzare la pressione mangia sale, per il mal di fegato beve acqua calda. Robert Amhof, il suo avvocato di Vienna, lo vede per un pomeriggio e lo trova “normale”. Parlano di alcune divisioni da fare per le proprietà austriache e di altri fatti amministrativi. “Poi abbiamo fatto quattro passi nel bosco” (da “Abc”, 7.4.1972). “Era preoccupato. ‘Sa avvocato’ mi disse, ‘ogni volta che volto le spalle al bosco ho l’impressione che qualcuno mi possa sparare. Sbrighiamolo in fretta questo affare. Ho paura che non vivrò ancora a lungo’”. Il 27 febbraio Giangiacomo lascia Oberhof […] Il 4 marzo vede qualcuno alla Casa del popolo di Lugano […] Il giorno 7 Giangiacomo entra in Italia su un treno via Ponte Chiasso, mescolato a un gruppo di pendolari. Milano gli conferma che il clima è molto teso. Quattro giorni prima le BR hanno sequestrato per alcune ore un dirigente Sit-Siemens, interrogandolo sui progetti di ristrutturazione in fabbrica. È la loro prima azione clamorosa. Nel commento della sinistra di movimento si smarca Avanguardia Operaia che pensa a un gioco dei servizi, tace il Manifesto, esultano Potere Operaio e Lotta Continua, che vorrebbero sottolineare la saldatura tra commando e lotta armata di massa. L’11 marzo è in programma una mobilitazione generale della sinistra extraparlamentare per impedire Almirante in piazza Castello. Si prevedono scontri e polizie aggressive. L’8 e il 9 marzo ci sono appuntamenti nell’hinterland. Sette in tutto. Osvaldo manda Gallo e “Bruno”, un giovane operaio della Marelli, a misurare la distanza tra i piloni di un traliccio nella campagna vicino a Lecco. I due eseguono correttamente. Il 9 Osvaldo incontra Scalzone per parlare dell’11. ricordo di Scalzone: “Mi chiese se, a mio parere, il movimento avrebbe potuto accettare il fatto che lui e alcuni suoi compagni venissero alla manifestazione armati, con compiti di eventuale autodifesa. Fu la prima volta che sentii l’espressione ‘gruppi di fuoco’”. Scalzone replicò aprendo cento parentesi: al momento la cosa non è politicamente sostenibile. Forse Osvaldo ci rimase male. Ancora Scalzone (da “Frigidaire”, ottobre 1988): “Per l’ennesima volta, ricorse a un’immagine che gli era cara: noi extraparlamentari eravamo come della palline da ping-pong, che danzano in aria sostenuti dagli zampilli di una fontana. I getti d’acqua erano le lotte sociali; quando inevitabilmente, poiché la lotta è ciclica, queste si fossero affievolite, noi saremmo ricaduti”. La manifestazione dell’11 registra intensi scontri tra piazza e polizia. In via Verdi, a fianco della Scala, muore un pensionato che passa per caso, lacrimogeno altezza-uomo dei celerini. Osvaldo ha radunato i suoi in un villino a San Siro. Ascoltano le notizie radio e si preparano. Il 12 3 il 13 ancora incontri. Chi vede? Forse qualcuno che viene da Trento. Il 14 pomeriggio, dopo le 17, il fratello di Günter lo incrocia nella base appena fuori Milano. Sembra di buon umore. Alle 19.30 Osvaldo ha un appuntamento con Gallo e Bruno davanti al cinema Vox di via Farini. L’idea è quella di un’azione vera ma tranquilla, quasi un’esercitazione. Non c’entra la concorrenza con gli altri gruppi (“non diciamo cazzate”, dice Saba). Osvaldo ha già fatto azioni simili, mentre Gallo e Bruno arrivano davanti al Vox con tre minuti di ritardo […] Bruno non ne voleva sapere di venire, era stato Gallo a insistere. “Guarda che Osvaldo è Feltrinelli”. “Allora vengo. Se ci beccano qualcuno penserà a noi”. Bruno è euforico, aveva incontrato Osvaldo diverse volte, ma non se n’era accorto. Alle 19.35 del 14 partono con l’obbiettivo di sabotare due tralicci dell’alta tensione sulla Cassanese. Segrate. Ci vanno con un pulmino Volkswagen. Altri tre gappisti, Günter, il Praga, Lingua-di-falce, hanno obbiettivi simili sul Naviglio verso Abbiategrasso. San Vito di Ghiaggiano. Anche qui un traliccio. I bollettini meteorologici segnalano pioggia debole e intermittente fino alle 19.44 in varie zone della città. Quello che conta è che mercoledì 15, ore 13, noi aspettiamo al Caffè Bar Lugano ma non arriva nessuno. Io avrei anche fretta di tornare, alle 17 ho il torneo di minibasket. La cronaca delle ore successive è la cronaca di un altro mondo che diventa protagonista. Qui conta Twist, il cane bastardo che scodinzola frenetico davanti “a un cadavere di sesso maschile, giacente a terra, sotto un traliccio dell’alta tensione”. Sono all’incirca le 15.30. “Un mort? Ma l’è sicür? Sarà minga un barbun ch’el dormiva?” Luigi Stringhetti, proprietario di Twist, affittuario di un campo in località Cascina Nuova di Segrate, deve ripetere al comandante dei vigili del suo comune che è sicuro: lo ha visto tra i quattro piedi del traliccio, in mezzo ai sassi, supino a braccia aperte, come in croce… Alle 16 avvertono i carabinieri di Pioltello, mentre alla Centrale di Milano, in via Moscova, gli uomini sono appena montati di turno. La giornata è tranquilla, molti sono fuori per il congresso nazionale PCI al Palalido. L’assise che incorona Enrico Berlinguer si era aperta due giorni prima, con i saluti delle delegazioni straniere. Quando la stazione di Pioltello avverte la Centrale, la Centrale spedisce la gazzella più vicina: “Volpe a Volpe 63, sulla Nuova Cassanese rinvenuto…”. Alle 16.30 la situazione monta rapidissimamente, presto Stringhetti e Twist saranno i due mammiferi più fotografati d’Italia: portraits con baschetto, in bicicletta, con il cane che salta a prendere un tozzo di pane, con l’indice puntato verso il fantasma della piramide focomelica. “Non potrò mai più non notare un traliccio”, dirà lo scrittore Vassilikos. Sotto quello di Segrate, alle 16.30 di giovedì 15 marzo 1972, si raduna la truppa degli artificieri, della “politica”, della Benemerita, della “scientifica”, del Servizio Immondizie Domestiche, dei necrofori, dei giornalisti (primi quelli del Giorno), dei fotografi, dei curiosi. Nella gita fuori porta orme cancellano orme. Si accerta che il “terrorista senza nome” ha usato quindici candelotti di dinamite per preparare le cariche alla base del traliccio, ma è impossibile stabilire la potenza di quella esplosa in alto, sul longherone, a circa quattro metri d’altezza, che presumibilmente ha provocato la sua morte. Sul ciglio di una strada secondaria, a duecento metri dal bailamme, decidono di forzare il pulmino Volkswagen color sabbia con tendine gialle ai vetri posteriori. A mente fredda, verso sera, i funzionari esaminano gli indizi nei loro uffici. A Segrate hanno lasciato un gruppo elettrogeno per illuminare il traliccio e permettere ulteriori rilievi. Il buio e la nebbia tutt’intorno sembrano ancora più fondi. Il corpo è all’obitorio. È di Vincenzo Maggioni, dice la carta d’identità trovata in tasca; nato a Novi Ligure il 19.6.1926. la fototessera è di una faccia senza baffi. Nel portafoglio altre due immagini, grandi come un francobollo: giovane donna bionda che corre e primo piano di un gagno sui dieci anni. Hanno aperto il furgone. Ci sono un milione di indizi e un pacchetto di Senior Service sul cruscotto. Non so chi tra “politica” e carabinieri dice per la prima volta “è lui”. (La sera Inge rincasa presto dopo una cena in onore di Paolo Grassi, neo sovrintendente della Scala. C’è anche Roberto Olivetti, lei dice di avere “un brutto presentimento”). Mentre circa un milione di milanesi dormono, le rotative viaggiano: “Terrorista muore alle porte di Milano mentre tenta di far saltare un traliccio”. È il titolo di apertura del Corriere. Sotto, una foto scattata a distanza: all’uomo con la barba, steso tra le erbacce, sembra che manchi una gamba. Alle 7.30 del 16 mattina il commissario Calabresi si sta facendo preparare un caffè nella guardiola della portineria di via Andegari 4. Ci capita di tanto in tanto. Aspetta che Giovanni, il portiere, finisca di radersi. Poi se lo porta all’obitorio. Giovanni non si sbilancia. In realtà lo ha riconosciuto. Almeno una trentina di persone, che nulla hanno a che fare con la lotta politica clandestina, sussultano davanti alla foto di Vincenzo Maggioni sulle gazzette. I più increduli provano a disegnare un paio di baffi tra naso e bocca. Ripiegano il giornale. Chiamano o si precipitano in via Andegari […] Nessuno conosce meglio di me la morte spaventosa del 14 marzo 1972. morire per le proprie idee, la più radicale delle favole. Ma è una morte che non scatena la forza del simbolo, che sfugge a ogni calcolo, che provoca rimozione o caricatura a destra e a sinistra, inghiottita dal contatto fortuito in un orologio che costa quanto una scatola di fagioli. Maneggiare esplosivo nella notte di Segrate non è semplice, un movimento brusco, lo scotch che si buca e il perno che dal vetro tocca il fondo della cassa. Chi ha preparato i timer? Le confidenze sono discordanti. Il caso è stato archiviato come “incidente”; “ma per me la morte di Feltrinelli rimane un mistero”, sostiene ancora oggi il magistrato che ai tempi chiuse la pratica. Bruno è morto in un incidente stradale agli inizi degli anni Novanta. Gallo l’ho rintracciato la primavera scorsa, non è stato facile […] è a posto, non è della Spectre, mastica ancora oggi un ricordo terribile. Di congegni esplosivi, dice, non ne sapeva niente e, quanto alle azioni, quella fu la sua prima e ultima. Non ha partecipato ai preparativi. Aveva solo il compito di legare ai piloni una tavoletta di legno per fissare la dinamite. Osvaldo è salito in alto, ha chiesto a Bruno di venire su ad aiutarlo: la carica sul longherone di mezzo imprimerà al traliccio una forza direzionale che lo farà cadere nel senso voluto. Sabotaggio per un blackout a diciassette anni dalla Götterdammerung im Zentralkomitee, a un anno dal golpe cileno, a un mese dalle feroci elezioni politiche. A San Vito di Gaggiano, l’altro commando decora il traliccio con candele di dinamite. Non succede niente. La perizia concluderà che le cariche “mai e poi mai sarebbero esplose”. Invece a Segrate Gallo è scaraventato indietro di vari metri dallo spostamento d’aria […] intorno non vede niente, poi Bruno che corre verso la strada, la mano incollata all’orecchio. Ha perso la testa e gli è saltato un timpano. Uno è sotto shock, l’altro non sa guidare, le chiavi del furgone sono nella tuta di Osvaldo. Scappano. Prima a piedi, poi con l’autobus di linea. Non avrebbero potuto salvarlo. “Feltrinelli è stato assassinato” è l’immediata parola d’ordine da via Andegari. Perché, oltre alla disperazione a al non sapere, ci sono i primi slogan della destra: “Feltrinelli, piazza Fontana, guerriglia urbana, e ora in galera i complici!”. Seguono dieci anni di terra bruciata intorno a noi. La stampa estera accoglie il dubbio che l’editore sia stato portato in stato d’incoscienza (veleno? Colpo di karatè?) sulla Cassanese. E il sospetto di una “spaventosa messa in scena” risuona anche nella relazione di Berlinguer al XIII Congresso. In effetti, la presenza di CIA o geopolitica è molto più sottile o grossolana di quanto potrà mai ammettere Oreste Scalzone, autore con Piperno del titolo più esatto: “Un rivoluzionario è caduto” (Potere Operaio, 26 marzo). La mattina del 15, verso le 10, appena si dirada la nebbia, due gappisti vanno a Segrate e vedono un’auto ferma sulla vecchia Cassanese accanto al pulmino Volkswagen: molto prima dello Stringhetti in bicicletta con il cane Twist, qualcuno è già sotto il traliccio 71 dell’AEM. Di chi si tratta? […] L’Unità del 17 marzo 1972 offre un ritratto dal titolo esplicito: “Tragico simbolo di un fallimento”. Il quotidiano del PCI mira al bersaglio grosso: “Erede di una fortuna colossale, ebbe esperienze diverse. Dalle carceri della Bolivia all’apparizione su Vogue”. Danzano sulla questione delle quattro mogli. Ma l’indagine segreta del PCI sulla morte di Feltrinelli non accredita la tesi dell’incidente. Il 15 marzo 1972 Pietro Secchia è al suo secondo mese di clinica. Si era sentito male al ritorno dal suo viaggio in Cile, dopo una settimana con il governo democratico, nazionale, rivoluzionario e popolare. I suoi parlano di potente pozione tossica nel pasto servito in aereo. Dietro ci sarebbe la CIA. Secchia delira per un mese, ha poco da vivere, ma il 15 marzo riconosce Vincenzo Maggioni e pensa che l’abbiano ammazzato. Visti i commenti sul giornale di partito, scrive a Cossutta perché faccia riflettere il nuovo segretario generale Berlinguer: invece che copiare i rotocalchi, la sinistra dovrebbe “far conoscere a milioni di italiani, specialmente agli operai e ai lavoratori, che cosa Feltrinelli dal 1946 in poi ha fatto per lo sviluppo della cultura italiana e la conoscenza del marxismo” […] L’esplosione avvenne per un movimento brusco in cima alla trave (la tela della tasca che preme sulla calotta dell’orologio, il perno che fa contatto) oppure qualcuno preparò il timer con i minuti al posto delle ore? La risposta servirebbe a chiudere la storia, non vale a stabilire ciò che conta veramente.

ALTRI PIANI

FranceschiniPrima di scegliere come bersaglio il magistrato Sossi, le vecchie Brigate Rosse di Curcio e Franceschini avevano fatto un pensierino su altri bersagli. Avevano progettato di rapire Carlo Massimiliano Gritti. Chi era? Era uno che era stato partigiano in val d’Ossola con Eugenio Cefis e poi era stato proposto, da Cefis, come responsabile della sicurezza di Enrico Mattei, infine era stato ricompensato con la presidenza della Montefibre del gruppo Montedison […] L’altro sequestro andava fatto a Roma e a questo ci avrebbe pensato Franceschini. L’uomo sequestrato? Giulio Andreotti. Andreotti era “il perno del progetto neogollista” per il brigatista rosso Franceschini. Appunto per studiare di persona le giornate di Andreotti, le sue abitudini (“Volevo seguirlo dal portone di casa fino alla chiesa, passargli vicino, toccarlo, anche per vedere se si insospettiva, se qualcuno fosse sbucato fuori a proteggerlo. Sì, desideravo proprio toccarlo, toccare quell’uomo che era per me l’incarnazione del potere”), Franceschini era sceso a Roma (“con una 128 verde”) e si era messo di puntiglio a seguirlo, Andreotti, “a pochi metri di distanza”, a superarlo “sfiorandolo con il braccio”, una volta si voltò perfino “per chiedergli scusa, lui mi guardò con il suo sguardo ineffabile che immaginai tutto per me e continuò per la sua strada. Non aveva avuto sospetti, nessun gorilla mi aveva bloccato, era proprio senza scorta e io ero euforico: rapirlo era facilissimo, e già mi vedevo con il mio Andreotti chiuso in borsa e la polizia a cercarci invano per tutta Roma”. Franceschini era un tipo fatto così. Curcio gli assomigliava. Naturale che qualcuno, all’interno delle Brigate Rosse, non li reputasse granché adatti per un “sequestro di alto livello”, che doveva essere scientificamente pianificato. Perciò Curcio e Franceschini furono “fatti arrestare” a Pinerolo, l’8 settembre 1974. appunto per consentire il rilancio delle nuove BR. Attenzione alle parole: furono “fatti arrestare”. L’ha scritto uno dei fondatori delle BR, Franceschini. Ma l’ha detto anche il generale Gianadelio Maletti, ex capo del reparto D del SID. Nell’estate del 1976, Maletti si era presentato a un magistrato di Roma, il sostituto procuratore Alberto Dell’Orco, al quale il procuratore capo di Roma Elio Siotto aveva affidato l’inchiesta sul SID parallelo, cioè sull’organizzazione clandestina di sicurezza NATO. Maletti aveva rivelato in sostanza che, quando Sossi era prigioniero delle BR, il suo capo Vito Miceli sapeva benissimo dov’era nascosto. Stava anzi tentando di organizzare una “singolare” liberazione. Singolare in che senso? Nel senso che l’operazione doveva essere “produttiva”. Durante una violenta sparatoria, cioè, dovevano morire i carcerieri di Sossi e doveva morire anche Giambattista Lazagna, un personaggio del quale si era abbondantemente parlato ai tempi di Feltrinelli e del quale si sapeva che non era molto lontano dalle posizioni di Curcio, leader della Brigate Rosse di allora. LazagnaCon Lazagna e i carcerieri di Sossi, sarebbe morto anche lui, Sossi. Il progetto di quel massacro “produttivo” era stato confermato dallo stesso Lazagna durante il processo che era seguito. “Ho saputo che nel periodo del rapimento Sossi, l’allora capo del SID generale Miceli voleva rapirmi e quindi uccidermi insieme con Sossi in un conflitto a fuoco. Non lo dico io: risulta da un verbale d’interrogatorio reso dall’ex capo del reparto D generale Maletti al sostituto procuratore Dell’Orco e al procuratore capo di Roma Siotto”. Mentre l’Italia veniva messa a soqquadro dalla carica eversiva dell’impresa brigatista, risultava dunque che importanti organi istituzionali, come i servizi segreti, erano al corrente di notizie fondamentali, conoscevano addirittura il luogo dove era tenuto prigioniero Sossi, il magistrato rapito. E nessuno si era mosso. Cose di questo tipo avvenivano nel 1974, ma erano assolutamente impensabili negli anni 1968-1969 a Trento, che pure era stato uno dei laboratori da dove erano uscite le Brigate Rosse, con un Renato Curcio ancora sconosciuto, mentre tutti conoscevano e ammiravano Marco Pisetta (di Gardolo di Trento). Sottoproletario, ridanciano, pacioccone, Pisetta era un simbolo, una bandiera, un vessillo. Vita anonima fino ai ventiquattro anni, girava l’Italia accolto come un messia. Il giornale ultrarivoluzionario Primo Maggio lo considerava “un guerrigliero a tutto tondo”, un duro, “il primo rivoluzionario d’Italia”. Di più: un fabbricante di bombe antisistema. Aveva cominciato la sua carriera nel Partito marxista-leninista d’Italia, lì a Trento, ma lo adoravano soprattutto gli intellettuali: appunto perché proveniva dal sottoproletariato trentino. Stavano nascendo le Brigate Rosse della prima ora, quelle del “mordi e fuggi”, del “niente resterà impunito” e Marco Pisetta era perfetto. Mordeva e fuggiva. Restava impunito. Il giorno in cui aveva messo una bomba carta al palazzo della Regione e un’altra bomba, sempre carta, all’INPS, Pisetta era diventato un vero “eroe del ‘68”. La prima bomba era esplosa, la seconda no. Accanto all’ordigno gli inquirenti avevano trovato una carta d’identità, con foto. La foto era della sorella di Marco Pisetta. Da quel momento, perciò, Pisetta si dette alla latitanza e divenne l’antesignano dei latitanti d’Italia. Raggiunse Milano, dove frequentò la crema lombarda che stava organizzandosi per dare “l’assalto al cielo”. Poi andò a Torino. Quindi a Firenze. Infine a Genova. Tutti volevano ospitare Marco Pisetta. Perfino la moglie del figlio di Togliatti […] Poi era accaduto che molti di quelli che l’avevano ospitato erano finiti misteriosamente in galera. Senza sapere chi ringraziare. Lo seppero più tardi, quando venne divulgato il Memoriale Pisetta numero 1, seguito dal Memoriale Pisetta numero 2, che smentiva clamorosamente il primo. Tutto apparve chiaro quando un giorno fu preso a Verona. Preso, processato e condannato (tre anni e sette mesi). Ma, in galera, Pisetta ci stette sì e no un mese. Ritornò libero […] Andò anche all’estero: in Germania, in Austria, in Belgio. Una misteriosa telefonata lo richiamò in patria, a Milano, qualche giorno prima che Feltrinelli saltasse sul traliccio di Segrate (15 marzo 1972). E Guido Viola, “il giudice con la pistola”, grazie alle chiavi che aveva trovato nelle tasche di Feltrinelli, ebbe vita facile nello scoprire covi brigatisti in diversi quartieri milanesi: via Subiaco, via Delfico, via Boiardo. È appunto in via Boiardo che, il 2 maggio 1972, succede l’incredibile. Il questore di Milano, Allitto Bonanno, aveva invitato i giornalisti per le due del pomeriggio davanti al numero 33 di via Boiardo, dalle parti dei viale Monza, annunciando trionfalmente: “Vedrete una prigione del popolo”. Molto prima delle due eravamo tutti là, giornalisti, fotografi, operatori televisivi. La gente alle finestre a chiedere cosa stava succedendo. “Il Tortora! Il Tortora!” urlò una donna da una finestra. Scese in strada, gli si mise alle calcagna e non lo mollò più. Enzo Tortora era lì non come presentatore televisivo ma (era il suo esordio) come giornalista della carta stampata, inviato speciale dei giornali di Monti: La Nazione e Il Resto del Carlino […] La ressa era indescrivibile. Era la prima volta che vedevamo com’era fatta una prigione del popolo. Ed ecco che, facendosi largo a gomitate, arriva un tizio, proprio davanti a me. Spalle grosse, mi toglie la visuale. Gli urlo: “Ohè, spostati! Potevi arrivare prima. Io sono qui da mezzora!”. Il pacioccone, calmo, calmissimo, estrae dalla tasca un mazzo di chiavi e ne infila una nella toppa della porta d’ingresso al 33. le robuste mani del maresciallo Panessa lo acchiappano. “Chi sei?” “Sono Marco Pisetta.” “Che ci fai qui?” “Sono qui a sistemare l’impianto elettrico” “Chi t’ha dato le chiavi?” “Uno che si chiama Russo.” “Russo come?” “Russo Luigi.” Viene portato in questura. Ma la sera lo rilasciano. Passano quattro giorni e Pisetta detta una “deposizione spontanea” di ventidue pagine, cui fa seguito un memoriale di novantatre pagine, che risulterà la prima storia delle BR e non solo delle BR, perché Pisetta parla a lungo anche di un gruppo che si chiama Superclan. Questo, però, si viene a sapere dopo. Subito, invece, si viene a sapere che Luigi Russo è un nome fasullo. In verità si tratta di Giorgio Semeria, un BR di quelli che contano. SemeriaChi viene a dircelo? Il questore? Un poliziotto? Un magistrato? Nessuno viene a dircelo. Tutto si svolge nel più semplice dei modi. Succede questo: i questore ci fa entrare nel covo, nella più grande confusione (anche la connetta è riuscita a infilarsi quasi attaccata alla giacca di Enzo Tortora) ed è il questore Allitto Bonanno che ci guida nella visita della prigione del popolo. Il questore fa il cicerone e non si accorge di quello che sta capitando intorno. Oppure si accorge, e lascia fare. Possibile? L’appartamento, certo, è piuttosto grande. Oltre la prigione del popolo, che è costruita nel mezzo di una stanza, ci sono altre stanze. Nelle stanze ci sono molti tavoli. Sui tavoli, sparsi qua e là, ci sono foglietti con indirizzi e numeri di telefono. C’è chi li copia e poi li rimette al loro posto. E c’è chi, per fare più alla svelta, se li mette in tasca. Tutto avviene nel modo più naturale possibile, senza che nessuno si opponga, dica qualcosa[…] Un giornalista che è accanto a me si mette in tasca un blocco intero di foglietti, su uno dei quali c’è scritto “Giorgio Semeria” con l’indirizzo di Milano e il numero di telefono. Quel giornalista è Pier Attilio Trivulzio, della Notte. Una volta fuori dal covo, Trivulzio mi carica sulla sua macchina, una Triumph rossa, e andiamo all’indirizzo segnato sul foglietto. Citofoniamo. Ci risponde una persona che parla singhiozzando. È il padre di Giorgio Semeria. Prima, però, era successa un’altra cosa, sempre davanti al numero civico 33 di via Boiardo. Era arrivata una Cinquecento, a una cinquantina di metri, e aveva accostato al marciapiede opposto. Ne era disceso un giovanotto piccolo di statura il quale, come aveva visto tutta quella gente, era risalito svelto in macchina, aveva cercato di innestare la retromarcia e non c’era riuscito, aveva fatto solo un gran fracasso. Allora aveva abbandonato la macchina e si era dato alla fuga, inseguito da tre fotografi. Uno dei tre aveva preso il numero di targa. Ed è stato grazie a quel numero di targa che siamo venuti a sapere a chi apparteneva l’auto. Apparteneva a una certa signora Amelia Cocchetti. Abitante a Milano, in via Gallarate 131. Aveva un figlio di tre anni, di nome Massimo, con altri due nomi: Marcello e Augusto. Nomi romani della storia romana, quella antica e gloriosa. Il marito si chiamava Moretti. Mario Moretti.

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Note a margine (da rivedere)

Con una certa superficialità Corrado Simioni è stato spesso identificato con l’improbabile immagine del “grande vecchio” delle BR: più realisticamente, la Commissione Stragi l’ha qualificato come “figura enigmatica”. Scriverà su La Repubblica del 31 maggio 1999 Giorgio Bocca: “Mi toccò di andare a Chamonix per incontrare uno dei pretesi ‘grandi vecchi’, il professor Simioni del Superclan, che non era come si può pensare una specie di Spectre, ma un gruppo di giovani intellettuali ‘superclandestino’ che aveva saputo da alcuni esperti di informatica che il capitalismo sarebbe crollato nel 1973 e si preparava a sotterrarlo nel più assoluto segreto. Il tutto avveniva a Parigi, dove aveva aperto una scuola di lingue, la Hyperion. Il luogo dell’incontro era degno di un grande vecchio, nella casa di legno di Balmat, il leggendario scalatore del Monte Bianco. Il professor Simioni era amico degli eredi del giro dell’Abbé Pierre. Mi parve di capire che Simioni e i suoi ringraziassero il cielo di essere espatriati in tempo e di non essere entrati nella catena infernale del terrorismo”. Nato a Venezia nel 1934, dalla fine degli anni Cinquanta Corrado Simioni milita nella corrente autonomista del PSI in stretto contatto con Bettino Craxi e Silvano Larini, ma nel ’65 viene espulso dal partito con la non meglio precisata accusa di “condotta immorale”. Trasferitosi a Monaco di Baviera, collabora con Radio Europa Libera – che con le sue frequenze riesce a inondare di informazioni democratiche i Paesi d’oltre cortina. Sempre a Monaco frequenta un corso di teologia. Nel ’67 lo ritroviamo a Milano, dove lavora alla Mondatori collaborando però anche con l’USIS (United States Information Service), un’istituzione culturale americana, e non solo, vista la sua fornitura di intelligence alla CIA. Nel 1970, dopo la rottura con Curcio [entrambi figurano tra i fondatori del CPM, il collettivo politico metropolitano all’interno del quale si formò il nucleo primigenio delle Brigate Rosse], Simioni fonda il Superlcan, criticando l’avventurismo delle nascenti BR. Ma anche lui è soggetto a critiche, anzi, a veri e propri sospetti: per Lotta Continua è un confidente della polizia, per Avanguardia Operaia del SID. Poi per un decennio di Simioni si perdono le tracce, finché in un’intervista Bettino Craxi dichiara: “forse il grande vecchio delle BR è qualcuno che ha fatto l’università in mezzo a noi”. Nell’82 il leader socialista invierà una lettera a Simioni a Parigi, in cui dichiarerà di non aver mai fatto il suo nome in quell’intervista. Questa la risposta di Simioni: “Bettino l’ho conosciuto negli anni Sessanta. Forse, ma questa è solo la mia ipotesi, ha voluto cautelarsi. Quando in Italia si è cominciato a parlare del trio Berio-Simioni-Mulinaris, Craxi può aver pensato che gli conveniva attaccarmi. Per evitare di essere attaccato lui”. A questo punto Simioni, che per il generale Dalla Chiesa era “un’intelligenza a monte delle Brigate Rosse”, scompare nuovamente. “Corrado Simioni, che io ho conosciuto benissimo – dirà Alberto Franceschini nel marzo del 1999 nel corso della 50° seduta della Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia – ha una storia politica di questo tipo: innanzitutto era nel Partito socialista insieme a Craxi e avevano circa la stessa età. Faceva parte della corrente autonomista del Partito Socialista milanese da cui fu espulso nel 1963 per indegnità morale (riferisco dati che mi sono stati raccontati proprio da lui, per cui andrebbero tutti verificati). Io gli chiesi se per essere espulso dal partito aveva per caso rubato la cassa, ma egli mi rispose che si trattava di una questione di donne; tra lui e Craxi c’era una concorrenza per donne, poi non so se questo corrisponde a verità. Sta di fatto che negli anni 1964-65 Simioni scomparve dall’Italia e si recò a Monaco, in un istituto di cui non ricordo il nome, per studiare teologia e latino. Infatti mi resi conto della sua preparazione e gli chiesi se per caso aveva studiato da prete, e lui mi rispose di aver studiato teologia a Monaco. Me ne parlò come di un fatto di interesse culturale, intellettuale, niente di strano. Poi ricomparve in Italia col movimento studentesco del 1968. Comincia a gironzolare all’interno del movimento, proponendo ai vari leader e agli studenti un quotidiano del movimento, per il quale diceva di avere i soldi e gli strumenti. Questo era il suo progetto. Diceva di essere un giornalista della Mondatori: sono notizie che andrebbero verificate. Lo conosco bene perché poi fondò insieme a Curcio il Collettivo Politico Metropolitano. Io a quei tempi ero a Reggio, ero uscito dalla FGCI e dal Partito Comunista e avevamo fondato un collettivo nella nostra città. Entrammo in contatto con questo Collettivo Politico Metropolitano e lo conobbi attraverso il CUB della Pirelli. Poi però i rapporti si deteriorarono velocissimamente. Con lui già si parlava di lotta armata: era uno di quelli che spingeva di più verso la lotta armata, tant’è che l’occasione della rottura tra Curcio e me da una parte, e lui e il suo gruppo dall’altra avviene nel settembre 1970, di fronte ad alcune sue proposte che ritenevamo assolutamente avventuriste, come si diceva allora, totalmente demenziali, diremmo oggi. La prima proposta che fece all’inizio di settembre fu di uccidere il principe Junio Valerio Borghese, invitato a un comizio in piazza a Trento da Avanguardia Nazionale. Diceva di aver già preparato tutto: aveva i cecchini e si doveva andare lì a ucciderlo. Siamo nel settembre 1970. il fatto veramente inquietante era che la colpa dell’assassinio di Borghese doveva ricadere su Lotta Continua, che andava formandosi allora. Aveva una teoria del ‘tanto peggio tanto meglio’: l’unica via rivoluzionaria era la lotta armata e questi gruppi semilegali costituivano un freno. Bisognava fare l’attentato e sbarazzare il campo da Lotta Continua che si stava formando. La proposta gli venne rifiutata. La seconda proposta era connessa al viaggio di Nixon in Italia alla fine di settembre. Ci propose di uccidere due ufficiali della NATO a Napoli: diceva di avere preparato tutto, anche se poi non si capiva mai chi fossero queste persone che, dietro di lui, avevano preparato tutto. noi non dovevamo farlo: dovevamo essere d’accordo con lui a gestire le operazioni in un certo modo. Rifiutammo anche questa proposta e decidemmo di bruciare la macchina di un capo reparto della Siemens. Dicevamo che le sue proposte erano follie, che bisognava partire dalle fabbriche e così decidemmo l’azione contro il capo della Siemens. Su questo ci fu una rottura tra noi e lui e il suo gruppo. Noi chiamavamo questo gruppo ”Superclan”, nel senso di superclandestino. Loro comunque operarono in Italia fino al 1973-1974, poi sciolsero questa organizzazione e se ne andarono a Parigi dove aprirono l’Hyperion. Successivamente, quando sono venute fuori queste cose su di lui, Simioni concesse una intervista all’Espresso al giornalista Scialoja, l’unica intervista che ha fatto, alla fine degli anni Ottanta, rimi anni Novanta. Nell’intervista lui risponde dando un quadro di sé assolutamente irreale: dice di essere sempre stato un pacifista, un intellettuale, di non aver avuto nulla a che fare con Curcio e Franceschini che erano due terroristi. Una ricostruzione al contrario: potete credermi o non credermi, ma io lo conosco e tutto quello che lui dice nell’intervista è falso. Ma la cosa inquietante dell’articolo, che vi inviterei a cercare, è che esso appare corredato da un’unica foto nella quale si vede Papa Giovanni Paolo II, l’Abbé Pierre, e tra i due Simioni. Il messaggio era chiaro. Il punto è che in questo gruppo certamente ci sono altri personaggi interessanti che forse tutti voi, i magistrati, hanno sottovalutato. Duccio Berio era il braccio destro di Simioni: suo padre era un famoso medico milanese, ebreo, a suo dire legato ai servizi israeliani. Ho quasi la certezza che il canale attraverso il quale fummo contattati passava per questa persona. C’era poi una francese, del giro di Mani Tese, Françoise Tuscher, che era la nipote dell’Abbé Pierre. Quest’ultimo era un personaggio importantissimo in Francia nell’attività di volontariato, che aveva fatto la resistenza insieme a De Gaulle, era uno dei suoi uomini di fiducia sin dalla partenza dall’Algeria. Inoltre Duccio Berio era il genero di Malagugini: sua moglie, Silvia Malagugini, era la figlia di Alberto Malagugini, uno dei boss della giustizia nel Partito Comunista. Un ultimo dettaglio sulla storia dell’Hyperion, che forse può essere inquietante: nel dicembre 1973 facemmo il sequestro Amerio, che era un dirigente del personale della FIAT di Torino: fu il primo sequestro rilevante, perché durò tutta una settimana; prima c’era stato quello di Macchiarini, durato soltanto alcune ore. Noi gestimmo tutto il sequestro contro il compromesso storico. Apparve su Rinascita un articolo di Berlinguer che lanciava il compromesso storico e noi interpretammo il contratto FIAT di quell’epoca come la prima verifica di questa possibile strategia di compromesso storico. Pochi mesi dopo la fine del sequestro, nel gennaio 1974, attraverso Piero Morlacchi, che era un compagno di Milano, clandestino, legato al PCI, che aveva due fratelli che lavoravano all’Unità, uno come giornalista e l’altro come tipografo, ci contattarono dicendoci di consegnarci ai magistrati perché ormai le cose si facevano pesanti e ci sarebbero stati arresti in massa. Quindi io e Morlacchi dovevamo consegnarci. Questa informazione ci veniva dal PCI, ovviamente; poiché noi due eravamo considerati compagni di fiducia e affidabili, mentre gli altri non si sapeva chi fossero, ci proposero di consegnarci (anche perché è ovvio che il nostro arresto poteva coinvolgere il PCI per la nostra storia personale) ai magistrati, in particolare a Di Vincenzo, e di nominare come avvocato Alberto Malagugini, che quindi doveva essere il tramite di questa operazione. Noi ci rifiutammo di consegnarci, mentre i componenti del Superclan si consegnarono: Simioni e gli altri andarono dal magistrato, fecero non so quali dichiarazioni, chiusero tutti i loro conti con l’Italia, e se ne andarono a Parigi. Queste cose le so con certezza. Ovviamente, noi vedevamo questi dell’Hyperion, che allora non si chiamava così e che noi chiamavamo Superclan, come il fumo negli occhi. Noi ritenevamo Simioni e gli altri di quel giro come dei provocatori nel vero senso della parola, però non sapevamo al servizio di chi. Potevano benissimo essere al servizio del KGB, come anche della CIA. Per come l’ho conosciuto, Simioni più che altro era un avventuriero”. Così invece Renato Curcio parla di Simioni: “Tutto cominciò da uno scontro di potere al convegno di Pecorile. Corrado Simioni arrivò con l’intenzione di conquistarsi una posizione egemonica all’interno dell’agonizzante Sinistra Proletaria: pronunciò un intervento particolarmente duro e sostenne che il servizio d’ordine andava ulteriormente militarizzato. La sua operazione non riuscì, ma una volta tornato a Milano non si diede per vinto: senza avvertire nessuno propose ai responsabili del servizio, alle nostre ‘zie rosse’ (le donne dell’organizzazione) delle azioni illegali e degli attentati inconcepibili per un’organizzazione ancora inserita in un movimento molto vasto e praticamente aperta a tutti. Tra l’altro si rivolse a Margherita Cagol per chiederle di piazzare una valigetta di esplosivo sulla porta del consolato USA di Milano. A quel punto Margherita, Franceschini e io ci trovammo d’accordo nel giudicare le sue idee avventate e pericolose. Decidemmo così di isolarlo assieme ai compagni che gli erano più vicini: Duccio Berio e Vanni Mulinaris: li tenemmo fuori dalla discussione sulla nascita delle BR e non li informammo della nostra prima azione, quella contro l’automobile di Pellegrini. Simioni radunò un gruppetto di una decina di compagni, tra cui Prospero Gallinari e Françoise Tusher, nipote del celebre Abbé Pierre: si staccarono dal movimento sostenendo che ormai non erano altro che cani sciolti. C’erano però degli amici comuni che ci tenevano informati delle loro discussioni interne e conoscevamo il loro progetto di creare una struttura chiusa e sicura, superclandestina, che potesse entrare in azione come gruppo armato in un secondo momento: quando noi, approssimativi e disorganizzati, secondo le loro previsioni saremmo stati tutti catturati una volta superata la caotica situazione di transizione in cui ci trovavamo”. Secondo le rivelazioni di molti pentiti, il Superclan nacque con la velleitaria pretesa di egemonizzare e coordinare le varie organizzazioni terroristiche. Fra gli episodi raccontati c’è quello riguardante un attentato dinamitardo contro la sede dell’ambasciata statunitense di Atene […] il piano prevedeva la presenza di una donna e Simioni si rivolse a Maria Elena Angeloni, che perse la vita a causa di un difetto dell’ordigno esplosivo. Sarebbe stata proprio questa la causa della definitiva rottura tra Curcio e Simioni, come ha confermato Alfredo Buonavita alla Commissione Parlamentare d’Inchiesta sul Terrorismo in Italia. Commissione che fra l’altro chiese a più riprese alle autorità di polizia e ai servizi che svolgessero serie indagini sull’istituto parigino di Simioni, senza però otenere nulla a causa della mancata collaborazione sei servizi francesi. E questo, forse perché un‘irruzione della polizia francese nei locali dell’Hyperion su richiesta della magistratura padovana, non portò ad alcun risultato (va però ricordato che una fuga di notizie pubblicata dal Corriere della Sera preannunciò quell’irruzione). Altre notizie sull’Hyperion sono state fornite dal pentito Michele Galati, secondo il quale l’istituto fu creato con lo scopo di dare protezione a vari latitanti oltre che per stabilire collegamenti con organizzazioni quali l’IRA, l’ETA e l’OLP. L’Hyperion sarebbe quindi diventato un canale di collegamento tra le BR e alcuni settori minoritari dell’OLP per la fornitura di armi. Caratteristiche, queste confermate da un altro pentito, Antonio Savasta, che, pur affermando di non aver conosciuto personalmente né l’istituto né i militanti che lo frequentavano, era a conoscenza del fatto che della rete messa in piedi dall’Hyperion si erano serviti numerosi brigatisti costretti a espatriare. Savasta conferma inoltre un altro punto messo in luca da Galati, e cioè che i contatti fra le BR e l’istituto di Simioni erano gestiti in prima persona da Mario Moretti, che si recava a Parigi accompagnato spesso da Anna Laura Traghetti […] Sostiene Moretti: “non sopportavo il modo di fare di Simioni. Cominciavamo appena a fare qualcosa di concreto oltre le chiacchiere, non c’era ancora un progetto definito, ma una cosa io e i compagni della mia stessa formazione avevamo chiara in testa: sarebbe stato un disastro se si fosse andati a qualcosa di men che controllabile. Simioni era l’opposto. Aveva la mania della segretezza, un po’ millantatore e un po’ suggestionato dai romanzi di spionaggio. Ma ci voleva altro che dar qualche nome della guerriglia latino-americana per coinvolgerci in avventure non trasparenti. Un dissidio sul metodo era più che sufficiente per dare un taglio netto, almeno per me. Se accetti dei livelli di segretezza, accetti una gerarchia. Con Simioni avevamo chiuso fin dal CPM, non lo vedemmo più e apprendemmo dai giornali che era finito a Parigi. Avevamo in Francia dei compagni espatriati alcuni anni prima, che erano in grado di collegarci con tutti i movimenti rivoluzionari di una certa consistenza. A Parigi c’erano più o meno tutti e si arrivava attraverso canali riservati, ma non segretissimi. Avevamo un credito che ci consentiva di incontrare chi volevamo. Mi mossi su Parigi dall’inverno del 1978 al 1981. ma fu un compito al quale mi dedicai saltuariamente. Sapevo fin troppo bene qual era il nostro stato reale, grande capacità operativa ma anche grandi difficoltà politiche. Con i rapporti internazionali non ne avremmo risolto neppure una. Mi fermavo a Parigi non più di un giorno o due, come se facessi una riunione d’un’altra colonna. Prendevo l’aereo la mattina presto a Roma e tornavo con un altro aereo la sera a Milano. Se penso che ero tra i brigatisti più ricercati e passavo quattro volte in un giorno i controlli di frontiera, dev’essere vero che ero matto, come mi dissero una volta i palestinesi”.

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