venerdì 16 gennaio 2009

Mio fratello è figlio unico (dedicato)

Siamo sempre stati in due. Per noi era due volte Natale, due compleanni, due volte Pasqua e due Ferragosto. Forse abbiamo avuto perfino due famiglie, una a testa. Anche se, lo sappiamo benissimo entrambi, era la stessa. Abbiamo avuto la stessa vita. Diversa. Per tutti e due, diversa. GiustificaSiamo sempre stati tutti e due comunisti, perché eravamo “contro”, e chi era “contro” era comunista. Speravamo entrambi in una libertà diversa da quella americana. Credevamo che si potesse vivere liberi e felici solo se lo erano anche gli altri. Sentivamo la necessità di una morale diversa. Era la nostra forza, il nostro volo, il nostro sogno. Uno slancio, il desiderio di cambiare le cose, di cambiare la vita. Eravamo comunisti proprio perché con accanto questo slancio ciascuno di noi era come se fosse più di sé steso. Eravamo come due persone in una; da una parte la nostra personale fatica quotidiana, e dall’altra la consapevolezza di appartenere ad una razza diversa che voleva spiccare il volo per cambiare davvero la vita. No. Fino a poco tempo fa non avevo rimpianti. Forse già allora molti di noi avevano aperto le ali senza avere la capacità di volare, come dei gabbiani ipotetici.
Ma oggi?
Anche oggi ci si sente come in due. Da una parte io, l’uomo inserito che attraversa ossequiosamente quello che tu definisci “lo squallore della propria esistenza quotidiana”, e dall’altra tu, il gabbiano, senza neanche più l’intenzione del volo, perché ormai il sogno si è rattrappito.
Sei malato. Malato di quel male ingiustificabile, e per questo quasi incurabile. Perchè quello che ti porti dentro è un assassino, ed è difficile vivere con gli assassini dentro. Probabilmente è più facile vivere con gli assassini fuori, visibili, riconoscibili, che ti sparano addosso dalle strade, dalle cattedrali, dalle finestre delle caserme, dai palazzi reali, dai balconi col tricolore. Assassini che in qualche modo puoi combattere; li vedi, sai cosa fanno, e qualche volta si possono anche ammazzare. Assassini vecchi, superati, cialtroni. Che non hanno mai cambiato nessuno. Cambiato, intendo, dal di dentro. Prevedibili e schematici anche nella cattiveria, che al massimo possono toglierti la libertà, mai le tue idee.
Chissà che non sia questo il tuo problema. Le idee.
Ogni epoca ha le sue malattie. Ricordi nonna Usai? Ci parlava sempre della “spagnola”. Drammatica, violenta, ma adattissima agli umori umani del suo tempo. Abbiamo sempre detto che si poteva studiare la storia dal linguaggio delle malattie. E poi la “tisi”, “il mal sottile”, che attaccava deliziosamente un’umanità stanca, illanguidita, attaccata alle tende.
Si muore come si deve, l’epoca lo esige.
L’importante è non arrendersi alle malattie. L’importante è non invecchiare. Essere vecchi significa non trovare più quella parte eccitante fisica da interpretare, e cadere in quello stupido riposo dentro il quale si attende solo la morte. Mica l’abbiamo rubato il gusto di vivere, ci spetta di diritto.
Però oggi, forse, non basta più difenderlo come una volta, con l’urgenza degli eventi, con le lotte comuni, col “mal comune mezzo gaudio”. E’ come se sentissimo il bisogno di un “rigore”. A scanso di equivoci da reinventare ogni giorno. No, non sto parlando di un simil-poliziotto, ma piuttosto di un “guardiano di noi stessi”; la libertà di non essere liberi.
"Il mio caro Angelo" , Mariapia Volpini

1 commento:

*Giulia* ha detto...

Molto tccante la tua lettera!
un abbraccio

Giulia